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Giambattista Vico: Opere
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III: La Scienza Nuova Prima (1725)
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Principj di una Scienza Nuova

1 ―

I.
PRINCÍPI DI UNA SCIENZA NUOVA
intorno alla natura delle nazioni
per la quale si ritruovano
i princípi di altro sistema
del diritto naturale delle genti.

A Iove principium musae

Virgilio

1725

3 ―

[1]Alle Accademie dell’Europa
le quali
in questa etá illuminata in cui
nonché le favole
e le volgari tradizioni
della storia gentilesca
ma ogni qualunque autoritá
de’ piú riputati filosofi
alla critica di severa ragione
si sottomette
adornano dalle loro cattedre
con somma laude
il diritto natural delle genti
di cui
lo spartano l’ateniese il romano
nella lor distesa e durata
tanto son picciole particelle
quanto Sparta Atene Roma
lo son del mondo
questi princípi di altro sistema
i quali ne ha meditato
con la discoverta
d’una nuova scienza
della natura delle nazioni
dalla qual senza dubbio
cotal diritto egli è uscito
ed alla cui umanitá
tutte
le scienze le discipline e le arti
come certamente
da lei traggon l’origini

4 ―

ed in lei vivono
cosí principalmente
debbon tutte i lor usi
perché in cosí eminente grado
la dottrina
che esse ne professano
quando ella ne ha il merito
con la loro erudizione e sapienza
le scoverte che qui fansi
supplendo o ammendando
promuovano
GIAMBATTISTA VICO
ad onorar tutto inteso
la profession delle leggi
ed in grado
della veneranda lingua d’Italia
a cui unicamente deve
col debole ingegno
tal sua qualunque letteratura
scritti
in italiana favella
riverentemente indirizza.

5 ―

Idea dell’opera

[2] nella quale si medita una Scienza dintorno alla natura delle nazioni, dalla quale è uscita l’umanitá delle medesime, che a tutte cominciò con le religioni e si è compiuta con le scienze, con le discipline e con l’arti.

Libro primo

[3] «Ignari hominumque locorumque erramus»:Virgilio. — Necessitá del fine e difficultá de’ mezzi di rinvenire questa Scienza entro l’error ferino de’ licenziosi e violenti di Tommaso Obbes, de’ semplicioni, tutti soli, deboli e bisognosi, di Ugone Grozio, e de’ gittati in questo mondo senza cura o aiuto divino di Samuello Pufendorfio, da’ quali le gentili nazioni son provenute.

Libro secondo

[4] «Iura a diis posita»: espressione comune de’ poeti. — Princípi di questa Scienza dall’idee d’una divinitá provvedente, sopra i cui creduti o avvisi o comandi sursero tutte le nazioni gentili.

Libro terzo

[5] «Fas gentium»: espressione usata dagli araldi latini. — Princípi di questa Scienza da una lingua comune a tutte le nazioni.

Libro quarto

[6] «Leges aeternae»: espressione de’ filosofi. — Ragion delle pruove che vi si fanno con certe guise particolari e certi determinati primi tempi, come e quando nacquero i costumi che costitoviscono tutta l’iconomia del diritto natural delle genti, con certe loro eterne propietá, che dimostrano tale e non altra esser la loro natura ovvero guisa e tempo di nascere.

Libro quinto

[7] «Foedera generis humani»: espressione degli storici. — Condotta delle materie, con la quale le nazioni, in diversi luoghi, in diversi tempi, sopra gli stessi princípi delle religioni e lingue hanno gli stessi nascimenti, progressi, stati, decadenze e fini, e si propagano di mano in mano nel mondo dell’umana generazione.

7 ―

Libro Primo. Necessitá del fine e difficultá de’ mezzi di ritruovare una nuova scienza

9 ―

Capo i
Motivi di meditare quest’opera.

[8] Il diritto naturale delle nazioni egli è certamente nato coi comuni costumi delle medesime; né alcuna giammai al mondo fu nazion d’atei, perché tutte incominciarono da una qualche religione. E le religioni tutte ebbero gittate le loro radici in quel desiderio che hanno naturalmente tutti gli uomini di vivere eternalmente; il qual comun desiderio della natura umana esce da un senso comune, nascosto nel fondo dell’umana mente, che gli animi umani sono immortali; il qual senso, quanto è riposto nella cagione, tanto palese produce quello effetto: che, negli estremi malori di morte, desideriamo esservi una forza superiore alla natura per superargli, la quale unicamente è da ritruovarsi in un Dio che non sia essa natura ma ad essa natura superiore, cioè una mente infinita ed eterna; dal qual Dio gli uomini diviando, essi sono curiosi dell’avvenire.

[9] Tal curiositá, per natura vietata, perché di cosa propia di un Dio mente infinita ed eterna, diede la spinta alla caduta de’ due príncipi del genere umano: per lo che Iddio fondò la vera religione agli ebrei sopra il culto della sua provvedenza infinita ed eterna, per quello stesso che, in pena di avere i suoi primi autori desiderato di saper l’avvenire, condannò tutta la umana generazione a fatiche, dolori e morte. Quindi le false religioni tutte sursero sopra l’idolatria, o sia culto di deitadi fantasticate sulla falsa credulitá d’esser corpi forniti di forze superiori alla natura, che soccorrano gli uomini ne’ loro estremi

10 ―
malori; e l’idolatria [è] nata ad un parto con la divinazione, o sia vana scienza dell’avvenire, a certi avvisi sensibili, creduti esser mandati agli uomini dagli dèi. Sí fatta vana scienza, dalla quale dovette incominciare la sapienza volgare di tutte le nazioni gentili, nasconde però due gran princípi di vero: uno, che vi sia provvedenza divina che governi le cose umane; l’altro, che negli uomini sia libertá d’arbitrio, per lo quale, se vogliono e vi si adoperano, possono schivare ciò che, senza provvederlo, altramenti loro appartenerebbe. Dalla qual seconda veritá viene di séguito che gli uomini abbiano elezione di vivere con giustizia; il quale comun senso è comprovato da questo comun desiderio che naturalmente hanno delle leggi, ove essi non sien tócchi da passione di alcun propio interesse di non volerle.

[10] Questa, e non altra, certamente è l’umanitá, la quale sempre e dapertutto resse le sue pratiche sopra questi tre sensi comuni del genere umano: primo, che vi sia provvedenza; secondo, che si facciano certi figliuoli con certe donne, con le quali siano almeno i princípi d’una religion civile comuni, perché da’ padri e dalle madri, con uno spirito, i figliuoli si educhino in conformitá delle leggi e delle religioni tra le quali sono essi nati; terzo, che si seppelliscano i morti. Onde non solo non fu al mondo nazion d’atei, ma nemmeno alcuna nella quale le donne non passino nella religion pubblica de’ lor mariti; e, se non vi furon nazioni che andarono tutte nude, molto meno vi fu alcuna che usò la venere canina o sfacciata in presenza di altrui e non celebrasse altri che concubiti vaghi, come fanno le bestie; né finalmente vi ha nazione, quantunque barbara, che lasci marcire insepolti sopra la terra i cadaveri de’ loro attenenti: il quale sarebbe uno stato nefario o sia stato peccante contro la natura comune degli uomini. Nel quale per non cadere le nazioni, custodiscon tutte con inviolate cerimonie le religioni natie e, con ricercati riti e solennitá, sopra tutte le altre cose umane celebrano i matrimoni e i mortori. Che è la sapienza volgare del genere umano, la quale cominciò dalle religioni e dalle leggi, e si perfezionò e compié con le scienze e con le discipline e con l’arti.

11 ―

Capo ii
Meditazione di una scienza nuova.

[11] Ma tutte le scienze, tutte le discipline e le arti sono state indiritte a perfezionare e regolare le facultá dell’uomo. Però niuna ancora ve n’ha che avesse meditato sopra certi princípi dell’umanitá delle nazioni, dalla quale senza dubbio sono uscite tutte le scienze, tutte le discipline e le arti; e per sí fatti princípi ne fosse stabilita una certa ἀκμή, o sia uno stato di perfezione, dal quale se ne potessero misurare i gradi e gli estremi, per li quali e dentro i quali, come ogni altra cosa mortale, deve essa umanitá delle nazioni correre e terminare, onde con iscienza si apprendessero le pratiche come l’umanitá d’una nazione, surgendo, possa pervenire a tale stato perfetto, e come ella, quinci decadendo, possa di nuovo ridurvisi. Tale stato di perfezione unicamente sarebbe: fermarsi le nazioni in certe massime cosí dimostrate per ragioni costanti come praticate co’ costumi comuni, sopra le quali la sapienza riposta de’ filosofi dasse la mano e reggesse la sapienza volgare delle nazioni, e, ’n cotal guisa, vi convenissero gli piú riputati delle accademie con tutti i sappienti delle repubbliche; e la scienza delle divine ed umane cose civili, che è quella della religione e delle leggi (che sono una teologia ed una morale comandata, la quale si acquista per abiti), fosse assistita dalla scienza delle divine ed umane cose naturali (che sono una teologia ed una morale ragionata, che si acquista co’ raziocini); talché farsi fuori da sí fatte massime fosse egli il vero errore o sia divagamento, non che di uomo, di fiera.

12 ―

Capo iii
Difetto di una sí fatta scienza per le massime
degli epicurei e degli stoici e per le pratiche di Platone.

[12] Ma gli epicurei e gli stoici, per vie, nonché diverse, affatto opposte tra loro, eglino pur troppo si allontanano dalla sapienza volgare e l’abbandonano. Gli epicurei, perché essi insegnano il caso reggere ciecamente le cose umane; gli animi umani morir coi corpi; i sensi del corpo, poiché altra cosa non dan che corpo, col piacere dover regolare le passioni; e l’utilitá, la quale ad ogni ora si cangia, essere la regola del giusto. Gli stoici, al contrario, perché decretano che una fatale necessitá strascini tutto, anche l’umano arbitrio; donano una vita a tempo agli animi dopo morte; e, quantunque prédichino esservi un giusto eterno ed immutabile e che l’onestá debba esser la norma delle umane azioni, però annientano l’umanitá con volerla affatto insensata alle passioni, e riducono alla disperazione gli uomini di poter praticare la loro virtú con quella loro massima assai piú dura che ferro: che i peccati sien tutti eguali e che tanto si pecchi con battere uno schiavo un poco piú del di lui merito quanto [con] uccidere il padre. Talché gli epicurei, con la loro sempre variante utilitá, rovinano il primo e principal fondamento di questa scienza, che è l’immutabilitá del diritto naturale delle genti; gli stoici, con la loro ferrea severitá, ne bandiscono la benigna interpetrazione, che regola gl’interessi e le pene secondo i celebri tre gradi delle colpe. Tanto le sètte di questi filosofi son comportevoli con la giurisprudenza romana, che una ne divelle la massima, un’altra ne rinnega la pratica piú importante dei di lei princípi!

[13] Solo il divino Platone egli meditò in una sapienza riposta che regolasse l’uomo a seconda delle massime che egli ha apprese dalla sapienza volgare della religione e delle leggi. Perché egli è tutto impegnato per la provvedenza e per l’immortalitá degli animi umani; pone la virtú nella moderazione delle

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passioni; insegna che per propio dover di filosofo si debba vivere in conformitá delle leggi, ove anche all’eccesso divengan rigide con una qualche ragione, sull’esempio che Socrate, suo maestro, con la sua propia vita lasciò, il quale, quantunque innocente, volle però, condennato qual reo, soddisfare alla pena e prendersi la cicuta. Però esso Platone perdé di veduta la provvedenza quando, per un errore comune delle menti umane, che misurano da sé le nature non ben conosciute di altrui, innalzò le barbare e rozze origini dell’umanitá gentilesca allo stato perfetto delle sue altissime divine cognizioni riposte (il quale, tutto al rovescio, doveva dalle sue «idee» a quelle scendere e profondare), e, sí, con un dotto abbaglio, nel qual è stato fino al dí d’oggi seguíto, ci vuol appruovare essere stati sappientissimi di sapienza riposta i primi autori dell’umanitá gentilesca, i quali, come di razze d’uomini empi e senza civiltá, quali dovettero un tempo essere quelle di Cam e Giafet, non poterono essere che bestioni tutti stupore e ferocia. In séguito del qual erudito errore, invece di meditare nella repubblica eterna e nelle leggi d’un giusto eterno, con le quali la provvedenza ordinò il mondo delle nazioni e ’l governa con esse bisogne comuni del gener umano, meditò in una repubblica ideale ed uno pur ideal giusto, onde le nazioni non solo non si reggono e [non] si conducono sopra il comun senso di tutta l’umana generazione, ma pur troppo se ne dovrebbero storcere e disusare: come, per esempio, quel giusto, che e’ comanda nella suaRepubblica, che le donne sieno comuni.

Capo iv
Tale scienza si medita sopra l’idea del diritto natural
delle genti che n’ebbero i giureconsulti romani.

[14] Per tutto ciò quella che or qui si desidera, ella sarebbe la scienza del diritto natural delle genti, quale appunto ricevuto da’ lor maggiori, i giureconsulti romani il diffiniscono:

14 ―
«Diritto ordinato dalla provvedenza divina coi dettami di esse umane necessitá o utilitá, osservato egualmente appo tutte le nazioni».

Capo v
Difetto di una sí fatta scienza per gli sistemi di Grozio,
di Seldeno, di Pufendorfio.

[15] Sursero ne’ nostri tempi tre celebri uomini, Ugone Grozio, Giovanni Seldeno e Samuello Pufendorfio, facendo Ugon capo, i quali meditarono ciascuno un propio sistema del diritto natural delle nazioni, perocché tutti gli altri, che dopo hanno scritto del diritto natural delle genti, sono quasi tutti adornatori del sistema di Grozio. I quali tre príncipi di questa dottrina errarono tutti e tre in ciò: che niuno pensò stabilirlo sopra la provvedenza divina, non senza ingiuria della gente cristiana, quando i romani giureconsulti, in mezzo ad esso paganesimo, da quella ne riconobbero il gran principio.

[16] Imperciocché Grozio, per lo stesso troppo interesse che egli ha della veritá, con errore da non punto perdonarglisi né in questa sorta di materie né in metafisica, professa che ’l suo sistema regga e stia fermo anche posta in disparte ogni cognizione di Dio: quando senza alcuna religione di una divinitá gli uomini non mai convennero in nazione; e, siccome delle cose fisiche, o sia de’ moti de’ corpi, non si può avere certa scienza senza la guida delle veritá astratte dalla mattematica, cosí delle cose morali non si può averla senza la scorta delle veritá astratte dalla metafisica, e quindi senza la dimostrazione di Dio. Oltre a ciò, come sociniano che egli era, pone il primo uomo buono, perché non cattivo, con queste qualitá di solo, debole e bisognoso di tutto, e che, fatto accorto da’ mali della bestial solitudine, sia egli venuto alla societá, e, ’n conseguenza, che ’l primo genere umano sia stato di semplicioni solitari, venuti poi alla vita socievole, dettata loro dall’utilitá. Che è, in fatti, l’ipotesi di Epicuro.

15 ―

[17] Venne appresso Seldeno, il quale, per lo troppo affetto che porta all’erudizione ebrea, della quale egli era dottissimo, fa princípi del suo i pochi precetti che Iddio diede a’ figliuoli di Noé. Da un de’ quali, Semo (per non riferire qui le difficultá che gliene fa contro il Pufendorfio), il quale solo perseverò nella vera religione del Dio d’Adamo, anziché un diritto comune con le genti provvenute da Cam e Giafet, derivò un diritto tanto propio, che ne restò quella celebre divisione di ebrei e di genti, la qual durò infino agli ultimi tempi loro, ne’ quali Cornelio Tacito appella gli ebrei «uomini insocievoli», e, distrutti da’ romani, tuttavia, con raro esemplo, vivono dissipati tra le nazioni senza farvi nessuna parte.

[18] Finalmente il Pufendorfio, quantunque egli intenda servire alla provvedenza e vi si adoperi, dá un’ipotesi affatto epicurea ovvero obbesiana (che in ciò è una cosa stessa) dell’uomo gittato in questo mondo senza cura ed aiuto divino. Laonde non meno i «semplicioni» di Grozio che i «destituti» di Pufendorfio devono convenire coi «licenziosi violenti» di Tommaso Obbes, sopra i quali egli addottrina il suo «cittadino» a sconoscere la giustizia e seguire l’utilitá con la forza. Tanto le ipotesi di Grozio e di Pufendorfio sono propie a stabilire il diritto naturale immutabile!

[19] Quindi, perché niuno degli tre, nello stabilire i suoi princípi, guardò la provvedenza, perciò e niuno degli tre scuoprí le vere e finora nascoste origini di niuna di tutte le parti che compongono tutta l’iconomia del diritto natural delle genti, che sono religioni, lingue, costumanze, leggi, societá, governi, domíni, commerzi, ordini, imperi, giudíci, pene, guerra, pace, rese, schiavitú, allianze. E, per non averne scoverte le origini, dánno tutti e tre di concerto in questi tre gravissimi errori.

[20] De’ quali il primo è che quel diritto naturale che essi stabiliscono per massime ragionate di morali filosofi e teologi e, ’n parte, di giureconsulti, come egli in veritá è eterno nella sua idea, cosí stimano che fosse stato mai sempre praticato coi costumi delle nazioni. E non avvertirono che il diritto naturale, di che ragionano meglio di loro i giureconsulti romani

16 ―
per quella principal parte che ’l riconoscono ordinato dalla provvedenza divina, egli sia un diritto naturale uscito con essi costumi delle nazioni, eterno appo tutte in ciò: che, dalle stesse origini delle religioni incominciato, egli, per certe «sètte di tempi» che i medesimi giureconsulti sovente appellano, per gli stessi gradi appo tutte procede e giugne ad un certo termine di chiarezza, [tanto] che, per la sua perfezione o stato, altro non gli rimane che alcuna setta di filosofi il compia e fermi con massime ragionate sull’idea di un giusto eterno. Talché in tutto ciò di che Grozio pensa riprendere i romani giureconsulti in tante minute spezie o casi di cotal diritto (che egli, piú di quel che convenga a filosofo, che ragiona di princípi di cose, propone in uno sformato numero), i di lui colpi vanno a cadere a vuoto, perché i giureconsulti romani intesero del diritto naturale delle nazioni celebrato dalla setta de’ loro tempi, e Grozio intende del diritto naturale ragionato dalla setta de’ morali filosofi.

[21] L’altro errore è che le autoritá con le quali ciascuno conferma il suo (nella folla delle quali, perché egli era sopra gli altri due eruditissimo, il Grozio sembra essere sazievole), elleno — almeno circa i princípi del tempo istorico, che, per la barbarie, appo tutte le nazioni è troppo vestito di favole: molto piú quelle del tempo favoloso, e sopra tutto quelle del tempo oscuro — non portano seco alcuna scienza e necessitá. Perché essi non meditarono, nella provvedenza divina, a quali occasioni di umane necessitá o utilitá e con quali guise, e tutte coi tempi loro propi, ordinò questa universal repubblica del genere umano sopra l’idea del suo ordine eterno; e come vi dettò un diritto universale ed eterno in ciò: che egli è appo tutte le nazioni uniforme, quantunque sien surte e incominciate in tempi tra loro differentissimi, ovunque se ne dieno le medesime occasioni delle stesse umane bisogne, sopra le quali egli ha costanti le sue origini e i suoi progressi. In conseguenza di che, essi non han saputo ciò che loro, per usare con certa scienza le autoritá che essi arrecano, importava indispensabilmente diffinire: qual diritto natural delle genti correva, per

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cagion d’esemplo, a’ tempi della legge delleXII Tavole data a’ romani, per sapere con iscienza il diritto romano che aveva di comune con le altre nazioni a que’ tempi e che di propio; — che diritto natural delle genti correva a’ tempi di Romolo, per sapere con iscienza che diritto naturale dalle altre genti del Lazio avesse egli ricevuto nella sua nuova cittá e che esso vi avesse ordinato di particolare. Perché arebbono essi distinto che i costumi romani osservati in Roma da Romolo fino a’ decemviri, fermati nelleXII Tavole, tutto fu diritto delle genti che correva per quella setta de’ tempi nel Lazio, e che il diritto propio romano furono le formole con la interpetrazione acconce ad essa legge; il quale perciò restò detto «diritto civile» ovvero propio de’ cittadini romani, non tanto per eccellenza, come finora si è creduto, quanto per propietá, come sta dimostro in altra opera nostra giá uscita dalle stampe.

[22] Il terzo ed ultimo comune errore è che essi trattano del diritto natural delle genti assai meno che per metá, poiché nulla ragionano di quello che appartiene alla conservazione privatamente de’ popoli, e ragionano solamente di quello che riguarda in comune la conservazione di tutto il genere umano. Quando il diritto naturale introdotto privatamente nelle cittá deve essere stato pur quello che avvezzò e dispose i popoli perché, alle occasioni poi di conoscersi tra loro le nazioni, si ritruovassero avere un senso comune senza che altra sapesse nulla dell’altra, onde dassero e ricevessero leggi conformi a tutta la loro umana natura, e sopra un cotal senso comune le riconoscessero leggi dettate dalla provvedenza, e quindi le riverissero sulla giusta oppenione d’esser leggi dettate da Dio.

18 ―

Capo vi
Cagioni perché finora questa scienza è mancata
per gli filosofi e per gli filologi.

[23] Infelice cagione di ciò ella è stata perché ci è mancata finora una scienza la quale fosse, insieme, istoria e filosofia dell’umanitá. Imperciocché i filosofi han meditato sulla natura umana incivilita giá dalle religioni e dalle leggi, dalle quali, e non d’altronde, erano essi provenuti filosofi, e non meditarono sulla natura umana, dalla quale eran provenute le religioni e le leggi, in mezzo alle quali provennero essi filosofi. I filologi, per lo comun fato dell’antichitá, che, col troppo allontanarsi da noi, si fa perdere di veduta, ne han tramandato le tradizioni volgari cosí svisate, lacere e sparte che, se non si ristituisce loro il propio aspetto, non se ne ricompongono i brani e non si allogano a’ luoghi loro, a chi vi mediti sopra con alquanto di serietá sembra essere stato affatto impossibile aver potuto esse nascere tali, nonché nelle allegorie che loro sono state appiccate, ma negli stessi volgari sentimenti co’ quali ben lunga etá, per mano di genti rozze ed ignoranti affatto di lettere, esse ci sono pervenute.

[24] La qual riflessione ci assicura di affermare che le favole, dalle quali tutta la storia gentilesca prende i suoi incominciamenti, non poterono essere ritruovati di getto di poeti teologi, quali da Platone fino a’ nostri tempi, cioè del famoso Bacone da Verulamio (De sapientia veterum), sono stati creduti particolari uomini colmi di sapienza riposta e valenti in poesia, primi autori dell’umanitá gentilesca. Perché «teologia volgare» altro non è che oppenioni del volgo intorno alla divinitá: talché i poeti teologi essendo stati uomini che fantasticarono deitadi, se ogni nazione gentile ebbe i suoi propi dèi, e tutte le nazioni sono da una qualche religione incominciate, tutte furono fondate da poeti teologi, cioè uomini volgari che con false religioni essi si fondarono le loro nazioni. Che sono i

19 ―
princípi della teologia de’ gentili, come piú propi dell’idee che ne destano le voci che ne pervennero, cosí piú convenevoli agl’incominciamenti delle nazioni, tutte barbare ne’ lor princípi, che non sono i magnifici e luminosi che ne immaginano i Vossi(De theologia gentilium) dopo tutti i mitologi che ne avevano innanzi ragionato. Perché gli uomini ambiziosi, che affettano signorie nelle loro cittá, vi si aprono la strada con parteggiare la moltitudine e lusingarla con alcuni simulacri ovvero apparenze di libertá; e ciò debbon far essi con uomini giá inciviliti ed avvezzi alla servitú delle leggi ed al malgoverno che fanno di essoloro i potenti. E vogliam credere che uomini dello in tutto selvaggi, nati ed avvezzi ad una sfrenata libertá (per lasciare altre difficultá insuperabili, che si fanno altrove), eglino, a suon di liuto e col cantarsi loro fatti scandalosissimi degli dèi, come Giovi adúlteri, Veneri prostitute e feconde, Giunoni castissime mogli sterili e da’ Giovi, loro mariti, malmenate, ed altre nefande lordure — i quali esempli, ed esempli di dèi, gli arebbono piú tosto dovuto fermare nella loro natia bestialitá, — si sieno essi ridotti a spogliare la lor natura e, dalla libidine bestiale, si sieno ricevuti alla pudicizia de’ matrimoni, da’ quali i filosofi tutti convengono avere incominciato la prima umana societá?

Capo vii
Oltre quella della fede, umana necessitá è di ripetere
i princípi di questa scienza dalla storia sacra.

[25] Laonde, avendo tutte le storie gentilesche somiglianti incominciamenti favolosi — come certamente la romana, che da uno stupro d’una vestale incomincia a que’ romani appo i quali, dopo, fu in luogo di una gran rotta lo stupro d’una vestale, — perciò noi, disperati di poter rinvenire il primo comun principio dell’umanitá tra le cose (a riguardo dell’antichitá del mondo)

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fresche de’ romani, tra le boriose de’ greci, tra le tronche, come le lor piramidi, degli egizi e perfino tra le affatto oscure dell’Oriente, l’andiamo a ritruovare tra’ princípi della storia sacra. E ci avvalorano a doverlo fare essi filologi, i quali, della di lei antichitá, tutti in ciò convengono: che ella, per fede anche umana, è piú antica della favolosa de’ greci. Il qual loro comun giudizio da noi si conferma con questa dimostrazione: che ella, piú spiegatamente che non fanno tutte le gentilesche, ne narra sul principio del mondo uno stato di natura, o sia il tempo delle famiglie, le quali i padri reggevano sotto il governo di Dio, che da Filone elegantemente si chiama θεοκρατία — il qual stato e tempo dovette esser certamente il primo nel mondo per quello in che pur comunemente convengono tutti i filosofi ove ragionano de’ princípi della politica o sia della ragion de’ governi: che tutte le cittá si fondarono sopra lo stato delle famiglie; — e per le due schiavitú tra loro sofferte, con molto piú di gravitá che non fa quella de’ greci, ci narra le cose antiche degli egizi e degli assiri. E, fuori d’ogni dubbio, dall’Oriente uscirono e si sparsero le nazioni a popolare tutta la terra, che dovettero portarvisi per quelle stesse vie onde i credenti nel Dio d’Adamo andarono nell’empietá; sicché, come la prima monarchia nella storia comparisce quella di Assiria, cosí in Assiria compariscono i primi sappienti del mondo: i caldei.

Capo viii
Disperazione di ritruovarne il progresso
ovvero la perpetuitá...

[26] Ma come per l’empietá andarono essi nello stato dell’uomo di Grozio, che ’l pone solo e, perché solo, debole e bisognoso di tutto; anzi in quello dell’uomo di Obbes, nel quale a tutti era lecito tutto contra di tutti; e cosí in quello dell’uomo del Pufendorfio, gittato in questo mondo, ma abbandonatovi da

21 ―
sé, non dalla cura ed aiuto di Dio (qual principio conviene a filosofo e filologo cristiano e, perché cristiano, si dá, non per ipotesi, ma di fatto); — e come poi dalla loro bestiale libertá essi si ricevettero a vita civile con le false religioni: — qui sí, che a rinvenire le guise, che sarebbono i princípi del mondo delle nazioni gentili, ci spaventa la natura medesima di essa antichitá, che ella in tutte le cose ha di nascondere le sue origini. Perché cosí sta per natura disposto: che prima gli uomini abbiano operato le cose per un certo senso umano senza avvertirle; dipoi, ed assai tardi, vi abbiano applicato la riflessione; e, ragionando sopra gli effetti, vi abbiano contemplato nelle cagioni.

Capo ix
... cosí da’ filosofi...

[27] Quindi due e non piú si possono in natura immaginare le guise onde abbia il mondo delle gentili nazioni incominciato: o da alcuni uomini sappienti che avessero ordinato per riflessione, o che uomini bestioni vi fussero per un certo senso o sia istinto umano convenuti. Però c’impedisce venire nella prima oppinione essa natura de’ princípi, che in tutte le cose sono semplici e rozzi; e tali devono essere stati i princípi dell’umanitá gentilesca, dalla quale provennero, siensi pure, come sono stati finora creduti, pieni di altissima sapienza riposta i Zoroasti, i Mercuri Trimegisti, gli Orfei ed avere con quella fondato l’umanitá degli assiri, degli egizi, de’ greci. Ne’ quali princípi, se non si vuole, come non si dee, dare nell’eternitá del mondo, era da meditarsi per istabilire la scienza dell’umanitá, o sia della natura delle nazioni, sopra certi primi oltre i quali sia stolta la curiositá di domandare altri primi, che è la vera caratteristica della scienza.

[28] Né gli oracoli che si dicono di Zoroaste, né gli orfici, versi smaltiti fatti da Orfeo, punto ci obbligano a doverne credere

22 ―
autori uomini che furono autori dell’umanitá delle loro nazioni. Oltre i molti e gravi dubbi che se ne son fatti altrove, e, infra gli altri, quello della grande difficultá e del lungo tempo che si durò e vi corse tra le nazioni di giá fondate a formarsi le lingue articolate, come si vedrá in questo libro, non può intendersi che una favella spieghi cose astratte per termini pur astratti, senonsé ella sia di nazione nella quale molto e lungo tempo sieno versati filosofi. Lo ci appruova la lingua latina, la quale, perché assai tardi udí ragionare le greche filosofie, ella è affatto povera e poco meno che infelice nello spiegarsi intorno alle scienze. Donde grave argomento ci si porge che Mosé non fece niun uso della sapienza riposta de’ sacerdoti di Egitto, perché tesse la sua storia tutta con parlari che hanno molto di conformitá con quelli di Omero, che, posto da noi ne’ tempi di Numa, venne circa ottocento anni dopo, e spesso li vince nella sublimitá dell’espressione; ma, nello stesso tempo, nasconde sensi che nella sublimitá dell’intendimento vincono ogni metafisica, come quel motto con cui Iddio si descrive a Mosé: «Sum qui sum», nel quale Dionisio Longino, principe de’ critici, ammira tutta la sublimitá dello stile poetico. Ma bisognò venire nel suo maggior culto la Grecia, e nella Grecia cosí colta provenire un Platone, che innalzasse tutta la sublimitá metafisica in questa idea astratta, che, ove intende Iddio, dice τὸ ὄν, ovvero «ens», la quale idea fu tanto tarda a spiegarsi da’ latini, che tal voce non è latina pura ma della bassa latinitá, cioè de’ tempi che si celebravano tra’ romani le metafisiche greche. Il qual confronto è una pruova invitta dell’antichitá e veritá della storia sagra.

[29] Per sí fatte ragioni è da stimarsi che simiglianti versi sieno stati finti da’ metafisici ultimi greci, perché non portano alcuna cosa di piú di quel che Platone o Pittagora aveva pensato in divinitá: lo che ne dee ammonire essere pur diffiniti i termini dell’umano sapere e che sien vani cotesti desidèri sopra la scoverta della sapienza degli antichi. Perché sí fatti versi da se stessi si accusano scritti con lo stesso stile col quale si legge scritto ilCarme aureo di esso Pittagora; e che abbiano ciò fatto

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alcuni per accreditare la loro dottrina con l’antichitá e con la religione: perché, se quelli si mettono al confronto della canzone platonicaDell’amore di Geronimo Benivieni, che meritò le note di Gian Pico della Mirandola, questa è assai piú poetica. Tanto que’ versi sanno dello scolastico! Per le quali cose tutte si conchiude essere state imposture di dotti, come fu certamente scoverto ilPimandra di Francesco Flusso Candalla.

[30] Onde, poiché la natura di esse lingue cel nega e la critica cel contrasta, non vi è alcuna necessitá di affermare per sí fatti versi che i fondatori delle nazioni gentili sieno stati sappienti di sapienza riposta; e, ’n conseguenza, ci si nega ragionare de’ princípi dell’umanitá delle nazioni con le ragioni le quali ne hanno arrecate finora i filosofi, da Platone incominciando: il quale, stimando forse il mondo eterno, si prese questa parte del tempo suo, nella quale filosofi d’altre nazioni ingentilite avessero addimesticato il genere umano, in altre parti selvaggio. Che forse diede motivo agli eruditi fingersi ancora la succession delle scuole: che Zoroaste addottrinò Beroso, Beroso Trimegisto, Trimegisto Atlante, Atlante Orfeo; e i critici cristiani, i quali deve seguire Seldeno (tra’ quali l’ultimo per tempo, come per erudizione a niuno secondo, è Pier Daniello Uezio nellaDimostrazione evangelica), fanno uscire i fondatori delle nazioni gentili tutti addottrinati dalla scuola di Noé: le quali oppinioni nella particella seguente si dimostra essere affatto inragionevoli.

[31] Qui diremo solamente che Platone, seguendo troppo di buona fede la volgar fama della sua Grecia, non rifletté che vi fa venire l’umanitá da quella Tracia dalla quale piú tosto escono i Marti crudeli, e tanto fu paese da produrre filosofi che ne restò a essi greci quel proverbio, che pur è un giudizio pubblico d’un’intiera nazione, col quale dicevano «trace» per significare «uomo di ottuso ingegno». Lo che contro Platone e tutta la gentil filosofia dovrá valere per una dimostrazion filologica che la religion degli ebrei fu fondata col mondo creato in tempo dal vero Dio.

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Capo x
... come da’ filologi.

[32] Rimossi i sappienti, ci rimangono i bestioni, che sono i primi uomini che pongono il Grozio e ’l Pufendorfio, da’ quali debbe aver incominciata l’umanitá gentilesca. Di che, non potendo seguir noi le ragioni che ne hanno disputate i filosofi, saremmo costretti seguire le autoritá che ne hanno arrecato i filologi, sotto il cui nome si comprendono qui poeti, istorici, oratori, gramatici, i quali ultimi si dicono volgarmente «eruditi». Ma niuna cosa è che s’involva in tante dubbiezze ed oscuritá quanto l’origine delle lingue ed il principio della propagazione delle nazioni. Da tanta loro incertezza nasce quello che pure tutti i filologi ingenuamente confessano: che la storia universale gentilesca non ha certo incominciamento né certa perpetuitá o sia determinata continuazione con la sagra.

[33] Perché con Roma certamente non nacque il mondo, la quale fu una cittá nuova fondata in mezzo a un gran numero di minuti popoli piú antichi nel Lazio. E ben Tito Livio nel proemio si scusa di entrare mallevadore della veritá di tutta la storia romana antica; e addentro apertamente professa incominciare esso a scrivere con piú di veritá le cose romane dalle guerre cartaginesi, e pure ingenuamente si accusa non sapere da qual parte dell’Alpi Annibale fece il grande e memorevole passaggio in Italia, se per le Cozie o le Appennine.

[34] I greci, da’ quali abbiamo tutto ciò che abbiamo d’antichitá, bruttamente ignorarono le antichitá loro propie. Di che vi sono tre gravissime pruove. Due di Omero, primo certo autor greco e primo certo padre di tutta la greca erudizione. La prima è una confession pubblica di tutti i popoli greci che non ne seppero la patria, ché tutti il volevano lor cittadino, quantunque finalmente a favor di Smirne restò decisa la lunga lite. La seconda è un’altra confession pubblica di tutti i filologi, de’ quali

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le oppinioni dintorno all’etá che Omero visse sono cotanto tra loro varianti, che ’l divario si calcola di quattrocensessanta anni da quelli che ’l pongono a’ tempi di essa guerra troiana agli piú opposti, che verrebbono a porlo ne’ tempi di Numa. Le quali cose massime ignorate di esso famosissimo Omero ci dánno molto da compassionare la vana diligenza de’ critici, cosí minuta ove determinano nonché allo ’ngrosso i paesi ma i sassi e le fontane, nonché i secoli e gli anni ma i mesi e i giorni, dove e quando avvennero le anco menome cose dell’ultima oscurissima antichitá. La terza pruova è una testimonianza di Tucidide, primo storico della Grecia veritiero e grave, il quale, nello incominciare della sua storia, ci attesta che i greci del suo tempo fino all’etá de’ loro padri nulla seppero delle antichitá loro propie. E questo, al tempo della Grecia, ne’ due suoi imperi di Sparta e di Atene, piú luminoso, che è quello della guerra peloponnesiaca, di cui fu contemporaneo scrittore Tucidide: che sono da venti anni innanzi della legge delleXII Tavole data ai romani. Or quanto egli resta ad intendere che infino a tai tempi essi nulla o poco sapessero delle cose straniere?

[35] Certamente le prime nazioni dovettero lungo tempo ritener molto della loro selvaggia origine e, ’n conseguenza, essere avvezze di non uscire da’ lor confini se non provocate da ingiurie e premute da’ torti. Appruova cotal natura la cagione della guerra tarantina: perché que’ di Taranto oltraggiarono le navi romane sull’approdare che facevano al loro lido, e gli ambasciatori altresí, credendogli forse corsali, e se ne scusavano dicendo, con Floro, che «qui essent aut unde venirent ignorabant». E ciò, dentro un brieve continente d’Italia quanto è da Taranto a Roma, nella quale pur i romani avevano giá un potente imperio in terra e scorrevano con flotte tutto il mar Tirreno e giá battevano l’Adriatico! Ma, assai piú che un solo popolo, ci confermano tale loro antichissimo costume esse intiere nazioni, come le Spagne, le quali né il feroce incendio di Sagunto, il quale fece di molto sudare Annibale, né la lunga eroica difesa di Numanzia, che aveva giá costernato i romani, seppero destarle a unirglisi in lega contro; talché diedero poi luogo a’

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romani storici di acclamare alla loro infelice virtú: che «le Spagne non conobbero le loro invitte forze se non dopo essere state vinte».

[36] Questa pubblica testimonianza d’intieri popoli contribuisce molto di vigore al giudizio privato di Livio, che egli profferisce sopra quella volgar tradizione che Pittagora fosse stato maestro di Numa: il quale, quantunque esso ponga a’ tempi di Servio Tullio, che son pure da cencinquanta anni innanzi la guerra di Taranto, con tutto ciò giudica essere stato impossibile in tali tempi, nonché esso Pittagora in persona, ma il di lui nome, il qual pur era di grandissimo filosofo, per mezzo a tante nazioni e di lingue e di costumi diverse, avesse potuto da Cotrone in Roma penetrare. Compruovasi con molto di gravitá questo giudizio privato di Livio con altra testimonianza pubblica, pur troppo luminosa, di romana storia che ne fa sant’Agostino nellaCittá di Dio, ove narra che ’l popolo romano sotto i re fece da dugencinquanta anni di guerre e manumise da ben venti e piú popoli, e non distese piú che venti miglia, assai piú brievi delle nostre, l’imperio. Il qual luogo prima ci dimostra ad evidenza quanto erano impenetrabili, quantunque vicinissimi tra loro, i primi piccioli popoli: dipoi ci rovescia tutte le idee magnifiche che abbiamo finora avuto de’ princípi di Roma e, alla guisa di Roma, di tutti gli altri imperi del mondo.

[37] Tal luogo di Livio, congionto con tai fatti d’istoria romana, che ne compruovano senza contrasto la propietá delle nazioni nei loro incominciamenti selvagge e ritirate, tolgono molto di credito a’ viaggi di Pittagora in Tracia dalla scuola d’Orfeo, in Babilonia da quella di Zoroaste per apprendere da’ caldei, nell’Indie da’ ginnosofisti; e dal primo Oriente, per l’Egitto, ove apprese da’ sacerdoti, attraversando l’Affrica, essersi portato all’ultimo Occidente in Mauritania alla scuola di Atlante; indi, varcato il mare, ritornandosene, avesse apparato nelle Gallie da’ druidi: viaggi solamente immaginati per alcune dottrine di Pittagora che poi furon ritruovate conformi con quelle de’ volgari sappienti di queste tra loro per immensi spazi di

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terre e mari divise nazioni: come quella della trasmigrazione dell’anime, che è una gran parte tuttavia della religione de’ bramini, che furono gli antichi bracmani o ginnosofisti, filosofi dell’Indie. Queste gravi dubbiezze sui viaggi di Pittagora, che fece per raccogliere dal mondo l’umanitá migliore e portarla in Grecia, ci fanno diffidare affatto de’ viaggi di Ercole da settecento anni innanzi, che per la sola gloria fusse ito uccidendo mostri e spegnendo tiranni per le nazioni, e propagarvi, come nelle Gallie l’eloquenza, cosí per le altre la greca umanitá. Ma molto piú ci fa dubitare de’ viaggi d’Omero in esso Egitto un suo luogo dove descrive l’isola del Faro tanto lontana da terraferma, dove poi fu fondata Alessandria, quanto una greca nave scarica potrebbe correre di cammino una giornata intiera soffiando tramontana, cioè dire col vento in poppa: nella quale isoletta, tanto vicina, poi andò a terminare il porto di Alessandria, come tuttavia si vede. Tanto che, se Omero avesse egli mai veduto l’Egitto, non arebbe detto certamente sí enorme bugia, e se i greci a’ suoi tempi vi avessero trafficato, egli appresso loro arebbe perduto ogni credito in tutto il rimanente che narra.

[38] Ma, oltre a quello che esse nazioni da prima non si conobbero che alle occasioni delle guerre, ne turba e confonde quell’altro in che pur convengono tutti gli eruditi: che Psammetico fu il primo re che aprí a’ greci l’Egitto, neppure a tutti, ma a quelli soli della Ionia e della Caria: onde, se tal costume ne’ tempi di Tullo Ostilio, ne’ quali visse Psammetico, aveva per lo innanzi osservato una nazione umanissima di tener chiusi i confini a genti oltramare, che hassi a congetturare delle altre affatto barbare? Sicché a ragione ci vien detto che ’l primo che scrisse con qualche distinzione le cose de’ persiani egli fu Senofonte, il quale succedé immediatamente a Tucidide, che fu il primo che scrisse con certezza quelle de’ greci: perché Senofonte fu il primo capitano della Grecia che portò dentro la Persia le greche armi, donde fece quella memorabile ritirata, e le cose dell’Assiria non si seppero da’ greci se non con le conquiste d’Alessandro magno, con cui

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portatovisi Aristotile, osservò, come egli lo scrisse poi ne’Libri politici, che i greci innanzi ne avevano scritto favole.

[39] Chiude tutte queste difficultá quella piú di tutte rilevantissima: che da per tutte le antiche nazioni ordini di sacerdoti tennero secrete le cose delle loro religioni ad esse plebi delle medesime loro cittá, le quali perciò restaron dette «cose sagre», occulte, cioè, a profani uomini; e i filosofi greci medesimi lunga etá al volgo della loro propia nazione nascosero la loro sapienza, talché Pittagora se non dopo lunghi anni non ammetteva gli stessi suoi discepoli al suo uditorio segreto. E vogliam credere che particolari uomini stranieri abbiano fatto certi e spediti viaggi dentro vietati confini di lontanissime nazioni, perché loro o sacerdoti d’Egitto o caldei d’Assiria profanasser le loro religioni e la loro sapienza riposta, senza interpetri e senza un commercio lungo tempo tra loro celebrato di lingue, e sopra tutto gli ebrei, che furono sempre insocievoli alle nazioni gentili?

Capo xi
Necessitá di ricercare i princípi della natura delle nazioni con la metafisica innalzata a contemplare una certa mente comune di tutti i popoli.

[40] Per tutte queste incertezze — come que’ primi uomini onde poi sursero esse gentili nazioni, per liberarsi dal servaggio della religione di Dio creatore del mondo e di Adamo, che sola poteva tenergli in dovere e, ’n conseguenza, in societá, si dissiparono, con la vita empia, in un divagamento ferino per la gran selva della terra (fresca dalla creazione innanzi, e dopo dalle acque del diluvio provenuta foltissima) penetrando; costretti a cercar pabolo o acqua e molto piú per campar dalle fiere, di che pur troppo la gran selva abbondar doveva, abbandonando spesso gli uomini le donne, le madri i figliuoli, senza vie di potersi rinvenire, andarono tratto tratto nelle loro

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posteritá a disimparare la lingua di Adamo, e, senza lingua e non con altre idee che di soddisfare alla fame, alla sete e al fomento della libidine, giunsero a stordire ogni senso di umanitá — cosí noi, in meditando i princípi di questa Scienza, dobbiamo vestire per alquanto, non senza una violentissima forza, una sí fatta natura e, ’n conseguenza, ridurci in uno stato di una somma ignoranza di tutta l’umana e divina erudizione, come se per questa ricerca non vi fussero mai stati per noi né filosofi né filologi. E chi vi vuol profittare, egli in tale stato si dee ridurre, perché, nel meditarvi, non ne sia egli turbato e distolto dalle comuni invecchiate anticipazioni. Perché tutte queste dubbiezze, insieme unite, non ci possono in niun conto porre in dubbio questa unica veritá, la qual dee esser la prima di sí fatta Scienza, poiché in cotal lunga e densa notte di tenebre quest’una sola luce barluma: che ’l mondo delle gentili nazioni egli è stato pur certamente fatto dagli uomini. In conseguenza della quale, per sí fatto immenso oceano di dubbiezze, appare questa sola picciola terra dove si possa fermare il piede: che i di lui princípi si debbono ritruovare dentro la natura della nostra mente umana e nella forza del nostro intendere, innalzando la metafisica dell’umana mente — finor contemplata dell’uom particolare per condurla a Dio com’eterna veritá, che è la teoria universalissima della divina filosofia — a contemplare il senso comune del genere umano come una certa mente umana delle nazioni, per condurla a Dio come eterna provvedenza, che sarebbe della divina filosofia la universalissima pratica; e, ’n cotal guisa, senza veruna ipotesi (ché tutte si rifiutano dalla metafisica), andargli a ritruovare di fatto tra le modificazioni del nostro umano pensiero nelle posteritá di Caino innanzi, e di Cam, Giafet dopo l’universale diluvio.
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Capo xii
Sull’idea di una giurisprudenza del genere umano.

[41] E, colla divisione, procedendo dalla cognizione delle parti, per via indi della composizione, per venire alla cognizione del tutto che vuol sapersi — a quell’istessa fatta che la giurisprudenza romana (per arrecare in esemplo una parte piú luminosa di tutte le altre che compongono quel tutto che andiamo cercando) ella è una scienza della mente de’ decemviri dintorno le civili utilitá ne’ tempi severi del popolo romano, e scienza, insiememente, del linguaggio col qual essi ne concepirono la legge delleXII Tavole, la qual Livio chiama «fonte» e Tacito appella «fine» di tutta la romana ragione (la quale scienza, alle nuove occasioni delle civili faccende cosí pubbliche come private, in tempi d’idee piú schiarite e, ’n conseguenza, di tempi piú umani, ella è ita spiegando sempre piú e piú la lor mente, con supplirne le mancanze, impropiando le parole della lor legge e, con ammendarne i rigori, dando loro sensi tuttavia piú benigni; e tutto ciò, a fine di serbar loro sempre istessa la volontá, o sia elezione del ben pubblico che essi decemviri si proposero, che è la salvezza della romana cittá), — cosí la giurisprudenza del diritto naturale delle nazioni si consideri una scienza della mente dell’uomo posto nella solitudine (come l’uomo di Grozio e di Pufendorfio, ma preso da noi con cattolici sensi, come di sopra) il quale voglia la salvezza della sua natura. La quale scienza ne addottrini come, alle nuove occasioni delle umane necessitá, per vari stati la mente dell’uomo solo siasi ita spiegando sopra al suo primiero fine di voler conservata la sua natura: prima con la conservazione delle famiglie, poi con la conservazione delle cittá, appresso con la conservazione delle nazioni, e finalmente con la conservazione di tutto il genere umano. Per lo qual fine si dimostri che gli uomini empi dallo stato della solitudine furono con certe nozze dalla provvedenza ritratti allo stato delle famiglie, dalle quali

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nacquero le prime genti ovvero attenenze o casati, sopra le quali poi sursero le cittá: dalle quali prime antichissime genti deve incominciare a trattarsi questa Scienza, siccome indi ne incominciò l’argomento o sia la materia. E tutto ciò, sopra quella celebre regola, universal fondamento di tutta l’interpetrazione, propostaci dal giureconsulto con questo sappientissimo motto: «Quotiens lege aliquid unum vel alterum introductum est, bonaoccasio est>» (non dice «caussa», perché cagione del giusto non è l’utilitá variabile, ma la ragione eterna che, con le immutabili proporzioni geometrica ed aritmetica, misura le utilitá variabili alle varie occasioni di esse umane bisogne) «cetera, quae tendunt ad eandem utilitatem vel interpretatione vel certe iurisdictione suppleri». E tale per indispensabile necessitá dee procedere il ragionamento dintorno al diritto naturale delle nazioni secondo l’ordine naturale dell’idee: non come altri immaginano d’aver fatto, che ne prepongono i magnifici titoli ai piú grossi volumi e nulla arrecano, piú di ciò che volgarmente sapeasi, nelle loro opere.

Capo xiii
Aspre difficultá di potergli rinvenire.

[42] Ma sembra disperata impresa di poterne incominciare a intender le guise, e, per ispiegarle, vi bisognerebbe la scienza d’una lingua comune a tutte le prime nazioni gentili. Imperciocché hassi a stimare la vita del genere umano qual è quella di essi uomini, che invecchiano con gli anni: talché noi siamo i vecchi, e i fondatori delle nazioni sieno stati i fanciulli. Ma i fanciulli che nascono in nazione che è giá fornita di favella, eglino di sette anni al piú si ritruovano aver giá apparato un gran vocabolario, che, al destarsi d’ogni idea volgare, il corron prestamente tutto e ritruovano subito la voce convenuta per comunicarla con altrui, e ad ogni voce udita destano l’idea

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che a quella voce è attaccata: talché, in formare ogni orazione, essi usano una certa sintesi geometrica, con la quale scorron tutti gli elementi della lor lingua, raccolgono quelli che lor bisognano e a un tratto gli uniscono; onde ogni una lingua è una gran scuola di far destre e spedite le menti umane. Apprendono di piú i fanciulli delle nazioni mediocremente incivilite l’abito di numerare, il cui atto è astrattissimo e tanto spirituale che per una certa eccellenza è appellato «ragione»: talché Pittagora pose tutta l’essenza della mente umana ne’ numeri. Altro esercizio d’un’altra spezie, pur come di geometria, è la letteratura ovvero la scuola di leggere e di scrivere, la quale, con quelle sottili e delicate forme che si dicono «lettere», ingentilisce a meraviglia le fantasie de’ fanciulli, che, in leggere o scrivere ogni parola, scorrono gli elementi dell’abicí, ne raccolgono le lettere che lor bisognano e le compongono per leggerle o per iscriverle. E pure la letteratura è piú corpolenta e piú stabile del vocabolario e i numeri sono piú astratti delle lettere e de’ suoni: perché le lettere lascian vestigi d’impressioni fatte negli occhi, che è il senso piú acre ad apprendere e ritenere; le voci sono aria che percuote gli orecchi, che si dilegua; ma il numero pari o caffo, per esemplo, non tocca senso veruno, in sua ragione di numero. Onde intendere appena si può, affatto immaginar non si può, come dovessero pensare i primi uomini delle schiatte empie in tale stato, che non avevano giá innanzi udita mai voce umana, e quanto grossolanamente gli formassero e con quanta sconcezza unissero i loro pensieri. De’ quali non si può fare niuna comparazione, nonché coi nostri idioti e villani che non san di lettere, ma co’ piú barbari abitatori delle terre vicine a’ poli e ne’ diserti dell’Affrica e dell’America (de’ quali i viaggiatori pur ci narran costumi cotanto esorbitanti dalle nostre ingentilite nature che fanci orrore), perché costoro pur nascono in mezzo a lingue, quantunque barbare, e sapran qualche cosa di conti e di ragione.

[43] Per le quali tutte aspre incertezze e quasi disperate difficultá di sí fatto divisamento, nulla sappiendo né da quali primi

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uomini di fatti, né, ’n conseguenza, da quai primi luoghi del mondo le nazioni gentilesche cominciarono a provenire, noi, seguitando col pensiero l’error ferino d’uomini cosí fatti, qui sopra, nell’Idea di quest’opera, proponemmo questo libro, tutto raccolto in questo motto:

...ignari hominumque locorumque erramus.

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Libro Secondo. Princípi di questa scienza per l’idee

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[Introduzione]

[44] Per andar dunque a scuoprire questo mondo primiero delle nazioni gentili, del quale non abbiamo finora avuto alcuna notizia né dal nostro mondo conosciuto possiam formare nessuna idea, si propongono qui questi princípi divisi in due classi: una dell’idee, un’altra delle lingue. De’ quali, uno o piú, divisi o aggruppati insieme, immediatamente o per séguito di conseguenze, nelle parti o in tutto il di lei complesso, come lo spirito regge tutto e qualsivoglia parte del corpo, cosí informano e stabiliscono questa Scienza nel suo sistema o comprensione di lei tutta intiera, o partitamente anche nelle piú minute particelle delle parti che la compongono: tanto che tutte le cose che ne abbiamo giá mandate fuori e che, se ce ne sará dato l’agio, manderemo in appresso, si potranno staccatamente intendere ad una ad una, anche poste in una confusa selva di un dizionario, senza sofferire la pena dell’attenzione di dover tenere dietro al séguito, nonché di metodi faticosi, di niuno affatto, purché questi libri si meditino con quell’ordine esattamente con cui sono scritti. Solamente qui, per compruovare sopra essi princípi gli effetti, se ne arrecheranno per esempli uno o due o, al piú, tre, propi di ciascheduno, perché s’intendano in ragion di princípi: imperciocché vedergli avverati nella quasi innumerabil folla delle conseguenze, egli si dee aspettare da altre opere che da noi o giá se ne son date fuori o giá sono alla mano per uscire alla luce delle stampe. Basterá qui che essi princípi sien ragionevoli in quanto a cagioni e che gli esempli vi convengano in ragione di effetti, per far

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giudizio del rimanente: quando i princípi d’ogni dottrina sono li piú difficili a ragionarsi, e perciò contengono, come diceva Socrate, piú della metá della scienza.

Capo i
La provvedenza è primo principio delle nazioni.

[45] Ora, per darle incominciamento da essa idea, che è la prima di ogni qualunque lavoro, la divina provvedenza ella è l’architetta di questo mondo delle nazioni. Perché non possono gli uomini in umana societá convenire, se non convengono in un senso umano che vi sia una divinitá la qual vede nel fondo del cuor degli uomini. Imperciocché societá d’uomini non può incominciare né reggere senza mezzi onde altri riposino sopra le altrui promesse e si acquetino alle altrui asseverazioni di fatti occulti. Perché spessissimo avviene nella vita umana che ne bisogna promettere ed esserci promesso, e succedono sovente de’ fatti che non son occulti delitti, de’ quali bisogna accertare altrui e non ne possiamo dare alcuno umano documento. Se si dicesse potersi ciò conseguire col rigor delle leggi penali contro alla menzogna, ciò si potrebbe ottenere nello stato delle cittá, non giá in quello delle famiglie, sulle quali sursero le cittá, quando non vi era ancora imperio civile ovvero pubblico, alla cui forza armata delle leggi due padri di famiglia, per esemplo, potessero essere ugualmente soggetti in ragione. Se da taluni, un de’ quali sarebbe Giovanni Locke, si ricorra colá: — che si avvezzino gli uomini a dover credere, subito che altri dica che egli prometta o narri con veritá, — in questo caso essi giá intendono una idea di vero, che basti rivelarlo per obbligare altrui a doverlo credere senza niuno documento umano. Questa non può essere altra che idea di Dio per l’attributo della provvedenza, cioè una Mente eterna ed infinita, che penetra tutto e presentisce tutto, la quale, per sua infinita bontá,

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in quanto appartiene a questo argomento, ciò che gli uomini o popoli particolari ordinano a’ particolari loro fini, per gli quali principalmente proposti essi anderebbero a perdersi, ella, fuori e bene spesso contro ogni loro proposito, dispone a un fine universale, per lo quale, usando ella per mezzi quegli stessi particolari fini, gli conserva. Si dimostra per tutta l’opera che con questo aspetto la provvedenza è l’ordinatrice di tutto il diritto natural delle nazioni.

Capo ii
La sapienza volgare è regola del mondo delle nazioni.

[46] Tal divina architetta ha mandato fuori il mondo delle nazioni con la regola della sapienza volgare, la quale è un senso comune di ciascun popolo o nazione, che regola la nostra vita socievole in tutte le nostre umane azioni cosí, che facciano acconcezza in ciò che ne sentono comunemente tutti di quel popolo o nazione. La convenienza di questi sensi comuni di popoli o nazion tra loro tutte è la sapienza del genere umano.

Capo iii
L’umano arbitrio regolato con la sapienza volgare
è ’l fabbro del mondo delle nazioni.

[47] Il fabbro poi del mondo delle nazioni, che ubbidisce a tal divina architetta, egli è l’arbitrio umano, altramenti ne’ particolari uomini di sua natura incertissimo, però determinato dalla sapienza del genere umano con le misure delle utilitá o necessitá umane uniformemente comuni a tutte le particolari nature degli uomini; le quali umane necessitá o utilitá, cosí determinate,

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sono i due fonti che i giureconsulti romani dicono di tutto il diritto natural delle genti. Quindi si medita nello stato nel quale pone Grozio l’uomo nella solitudine e, perché solo, quindi anche debole e bisognoso di tutto, nel quale stato le razze cosí di Caino subito, di Seto tratto tratto innanzi, come di Cam e Giafet immediatamente, di Semo a pochi a pochi dopo il Diluvio, dovettero cadere, dappoi che, per liberarsi unicamente dal servaggio della religione, quando da altro freno non erano rattenute, voltarono le spalle al vero Dio de’ loro padri Adamo e Noé, la quale unicamente le poteva conservare in societá, ed andarono nella libertá bestiale a perder lingua e a stupidire ogni socievole costume, per questa gran selva della terra dispersi. Che sarebbe stato l’uomo del Pufendorfio, venuto in questo mondo, ma abbandonato da sé, non giá dalla cura ed aiuto di Dio. E si va meditando da quali prime necessitá o utilitá comuni a sí fatta natura d’uomini selvaggi e bestioni si dovessero risentire per riceversi alla umana societá. Che è quello che ’l Seldeno non pensò mai, perché pose princípi comuni alle nazioni gentili ed agli ebrei, senza distinguere un popolo assistito da Dio sopra le altre nazioni tutte perdute; Pufendorfio vi pensò con errore, perché dá un’ipotesi contraria al fatto della storia sagra; Grozio vi peccò piú di tutti, perché dá un’ipotesi sociniana del suo uomo semplicione, e poi si dimenticò affatto di ragionarla.

Capo iv
Ordine naturale dell’idee umane
intorno ad un giusto eterno.

[48] Abbiam dimostro il diritto natural delle genti dalla provvedenza ordinato co’ dettami delle umane necessitá o utilitá. Ora, per compiere la restante parte della diffinizione che ne lasciarono i romani giureconsulti: — che egli si osserva egualmente

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appo tutte le nazioni, — vediamo le due propietá primarie, che sono: una l’immutabilitá, l’altra l’universalitá.

[49] E, per quanto attiensi alla prima, il diritto natural delle genti egli è un diritto eterno che corre in tempo. Ma, siccome in noi sono sepolti alcuni semi eterni di vero, che tratto tratto dalla fanciullezza si van coltivando, finché con l’etá e con le discipline provengono in ischiaritissime cognizioni di scienze; cosí nel genere umano per lo peccato furono sepolti i semi eterni del giusto, che tratto tratto dalla fanciullezza del mondo, col piú e piú spiegarsi la mente umana sopra la sua vera natura, si sono iti spiegando in massime dimostrate di giustizia. Serbata sempre cotal differenza però: che ciò sia proceduto per una via, distinta, nel popolo di Dio, e per un’altra, ordinaria nelle gentili nazioni.

[50] Delle quali per arrecare esempli a questo proposito: ne’ tempi antichissimi della Grecia, che gli ateniesi avevano consecrato tutto il campo di Atene a Giove e vivevano sotto il di lui governo (come ne racconta la storia del tempo oscuro di Grecia), per divenire padrone d’un podere, bisognava che ’l permettessero gli auspíci di Giove; in altra etá, come dopo appo gli antichi romani, egli, per la legge delleXII Tavole, bisognava una solenne consegna detta «del nodo»; in altra, che ancor dura a’ tempi nostri tra le nazioni, basta la real consegna del podere medesimo. Tutti questi tre modi d’acquistare il dominio sono fondati sopra quel giusto eterno: — che non possa uomo divenir padrone di cosa altrui senza la volontá del di lei signore, della quale bisogna essere innanzi assicurato; — finché vennero i filosofi, i quali intesero che il dominio in sua ragione assolutamente dipende dalla volontá, della quale basta aver segni sufficienti che ella nel padrone sia deliberata di trasferire il dominio di una tal sua determinata cosa in altrui, sieno anche schiette parole, sieno anche atti mutoli.

[51] Questo è uno de’ continovi lavori di questa Scienza: dimostrare fil filo come, con lo spiegarsi piú dell’idee umane, i diritti e le ragioni si andarono dirozzando prima dalla scrupolositá delle superstizioni, indi dalla solennitá degli atti legittimi

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e dalle angustie delle parole, finalmente da ogni corpulenza, stimata prima sostanza dell’affare, e siensi condotte al loro puro e vero principio, che è la loro propia sostanza, che è la sostanza umana, la nostra volontá determinata dalla nostra mente con la forza del vero, che si chiama «coscienza». E tutto ciò, perché il diritto natural delle genti egli è un diritto uscito coi costumi istessi delle nazioni sopra l’idee che esse hanno avuto della loro natura.

[52] Onde (e questo, oltra il testé arrecato esemplo di ragion privata, siane un altro di ragion pubblica), se vi fu un antichissimo tempo che vi fossero stati uomini di sformate forze di corpi ed altrettanto stupidi d’intendimento, sull’idea di sí fatta loro natura che avesse dettato loro doversi temere per divinitá una forza ad ogni sí fatta loro umana superiore, egli sarebbe, questo, stato creduto il loro diritto divino, per le cui conseguenze dovevano essi nella forza riporre tutta la lor ragione. Quale appunto professa Achille — il massimo de’ greci eroi, che con l’aggiunto perpetuo d’«irreprensibile» fu da Omero proposto alle genti di Grecia in esemplo della eroica virtú, — il quale, per quel diritto divino, egli professa ad Apollo di estimarlo dio per la di lui forza alle sue superiore, ove afferma che, se esso avesse forze a quel dio eguali, non si sgomenterebbe di venire a tenzone con essolui. Che sembra con piú riverenza degli dèi detto da Achille di quello che dice Polifemo: che esso, se ne avesse la facoltá, combatterebbe col medesimo Giove. E pure tra’ giganti erano stati gli áuguri, i quali non potevano vivere tra gli atei, un de’ quali aveva a Polifemo predetto il caso che egli poi sofferse da Ulisse! Anzi, per quel diritto divino, alla fatta e di Achille e di Polifemo il medesimo Giove estima se stesso, ove fa la profferta della gran catena, da uno de’ cui capi esso solo si strascinerebbe tutti gli uomini e tutti i dèi attenutivi dall’altro capo opposto, per appruovare, con tal sua forza cotanto superiore, esso essere il re degli uomini e degli dèi.

[53] Per le conseguenze di cotal diritto divino, diciamo che Achille ad Ettorre, che vuol patteggiar seco la sepoltura se

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sia da esso in quell’abbattimento ammazzato dove poscia morí, risponde che tra ’l debole e ’l forte non vi è ugualitá di ragione, perché non mai gli uomini patteggiarono co’ leoni, né le agnelle e i lupi ebbero mai uniformitá di voleri. Ecco il diritto delle genti eroiche, fondato in ciò: che stimavano di diversa spezie e piú nobile la natura de’ forti che quella de’ deboli. Onde provenne il diritto della guerra: che i vincitori a forza d’armi togliono a’ vinti tutte le loro ragioni della natural libertá, talché i romani ne tennero gli schiavi a luogo di cose. Il qual costume fu condotto dalla provvedenza, ché, poiché sí fatti uomini feroci non erano bene addimesticati dall’imperio della ragione, temessero almeno la divinitá della forza, onde tra essoloro da essa forza estimassero la ragione, perché, in tempi cotanto fieri, dalle uccisioni non si seminassero uccisioni, che andassero a sterminare il genere umano. La quale appunto sarebbe la storia, come è la filosofia, della giustizia (la qual Grozio appella) esterna delle «guerre».

[54] Se finalmente in tempi delle umane idee tutte spiegate, non piú altri uomini si estimassero di diversa e superior natura ad altri uomini per la forza, ma si riconoscessero essere tutti uguali in ragionevol natura — che è la propia ed eterna natura umana, — correrá tra essoloro il diritto delle genti umane, che detta gli uomini dover comunicare tra loro egualmente le utilitá, solamente serbata una giusta differenza ove si tratta di meriti, e questa istessa per serbar loro l’egualitá. Questo si scuopre essere il diritto natural delle genti del quale ragionano i romani giureconsulti, che, con peso di parole, appella «genti umane» lá dove Ulpiano il diffinisce, cioè diritto delle genti del suo tempo: non giá a differenza delle barbare poste fuori del romano imperio, con le quali nulla avevano a fare le loro leggi romane dintorno alla privata ragione; ma a differenza delle genti barbare trasandate.

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Capo v
Ordine naturale dell’idee umane
intorno ad un giusto universale.

[55] Siccome, per gli anzidetti princípi, al diritto naturale delle genti si asserisce una delle due piú importanti sue propietá, che è l’immutabilitá; cosí, per gli stessi, si stabilisce l’altra, che è l’universalitá, meditando che ’l progresso delle umane idee dintorno al giusto naturale egli non può affatto intendersi essere avvenuto altrimenti che, in uno stato di solitudine — cioè nell’uomo solo, debole e bisognoso di Grozio, senza cura ed aiuto altrui di Pufendorfio, — avesse egli incominciato dalla piú connaturale necessitá, che unicamente, in tale stato, era quella di compiere la sua spezie col congiugnersi con donna che a lui fosse di compagnia, di cura ed aiuto — che fu un diritto naturale monastico o solitario e, in conseguenza, sovrano; — per lo qual diritto ciclopico, che Platone pure avvertí di sfuggita nel Polifemo di Omero, gli uomini giustamente prendessero a forza le donne vagabonde e a forza le tenessero appo essoloro entro le spelonche. Dal qual tempo incominciò a sbucciare il primo principio delle giuste guerre con le prime giuste rapine, siccome quelle che si facevano per fondare il genere umano gentilesco, che furono non meno giuste di quel che sono le guerre che si fecero appresso per conservarlo: talché quivi incomincia ad abbozzarsi quella che da Grozio si appella «giustizia interna delle guerre», che è la vera e propia giustizia dell’armi.

[56] Per sí fatte prime giuste rapine, i primi uomini acquistarono una potestá ciclopica sopra le mogli, e quindi poi sopra i figliuoli, quale appunto Omero fa narrare da Polifemo ad Ulisse, riserbando il primiero costume della bestial comunione, nella quale i parti seguono la condizione delle madri, non potendolo aver cangiato in un tratto per venire al costume delle genti, tutto opposto, che ci restò, che i figliuoli nati da nozze seguono la

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condizione dei padri. Quindi, nello stato delle famiglie, tal diritto monastico, con le occasioni delle necessitá o utilitá familiari, siasi spiegato in diritto naturale iconomico. Dipoi, diramati i ceppi in piú famiglie, alle occasioni delle comuni bisogne delle intere attenenze, o sia delle case antiche ovvero tribú, le quali furono innanzi delle cittá e sopra le quali sursero le cittá — le quali case, prima e propiamente, da’ latini si dissero «gentes», — siasi il diritto iconomico propagato in un diritto naturale delle genti prima e propiamente cosí dette, che i latini dissero «gentes maiores». Poscia, unite le case o tribú in cittá, il diritto natural delle genti maggiori siasi innalzato in un diritto natural delle genti minori, o sia de’ popoli privatamente dintorno alle civili necessitá o utilitá di ciascuna cittá: che deve essere il diritto naturale civile, per uniformitá di cagioni nato comune in ciascun tempo in ciascuna parte del mondo, come per esemplo nel Lazio, e, insiememente, propio di ciascheduna cittá, quante furono quelle in mezzo alle quali poi Romolo fondò Roma. Finalmente, conosciutesi tra loro le cittá per comuni affari di guerre, allianze, commerzi, i diritti naturali civili siensi ravvisati, in piú ampia distesa di tutte le altre innanzi, in un diritto naturale delle genti seconde, o sia delle nazioni unite insieme come in una gran cittá del mondo: che è ’l diritto del genere umano.

Capo vi
Ordine naturale delle idee umane gentilesche intorno alla divinitá, sulle quali, o distinte o comunicate, si distinguono o comunicano tra loro le nazioni.

[57] La prima e principal parte del diritto naturale delle genti da’ giureconsulti romani si determina la religione verso Dio: perché, senza imperio di leggi, senza forza d’armi, uomo non può venire né durare in societá con altro uomo, essendo

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entrambi sommamente liberi in tale stato, che per timore di una forza all’umana d’entrambi superiore e, ’n conseguenza, per timore d’una divinitá comune ad entrambi. Il qual timore della divinitá si appella «religione».

[58] Or, cominciando questa Scienza, in ciò di concerto con Grozio e con Pufendorfio, dall’uomo solo (però intorno all’origini de’ gentili), l’idee della divinitá non si può affatto intendere essersi destate prima e poi spiegate nelle menti delle gentili nazioni che con quest’ordine naturale: che, prima di tutte l’altre, quella d’una forza superiore all’umana, fantasticata per deitá da uomini tutti divisi e soli, fosse da ciascheduno creduta propio e particolare suo dio. Onde la prima umana societá conciliata dalla religione fu quella de’ matrimoni, che dovett’essere di certi uomini che per timore di una divinitá si ritrassero dal divagamento ferino e, nascosti per le grotte, dovettero tenervi ferme dentro, appo essoloro, donne trattevi a forza, per usare con esse liberi dallo spavento che dava loro l’aspetto del cielo, di cui, a certe occasioni che qui giú a suo luogo dimostreransi, avevano immaginato la divinitá. Perché lo spavento divertisce dalla venere gli spiriti che abbisognano per usarla. In sí fatta guisa la provvedenza da esso senso della libidine bestiale incominciò a tingere nel volto degli uomini perduti il rossore, di cui certamente niuna fu mai al mondo nazione che non si tinse, poiché tutte usano i concubiti umani: però per una via distinta in Adamo ed Eva, i quali, in pena del peccato essendo giá caduti dalla contemplazione di Dio, all’istesso istante della caduta avvertirono alla lor natura corporea e s’avvidero della loro nuditá e si covrirono le parti brutte a dire nonché a vedere, e Cam, che sostenne vederle, con riso, del dormente padre Noé, con la maladezione di Dio andò, per l’empietá, nella solitudine bestiale. E questo è uno di quei primi, oltra i quali è stolta curiositá di domandare altri primi: che è la nota piú grave della veritá de’ princípi. Perché, se, piú in lá di Cam e Giafet, non ci fermiamo in Noé dopo l’universale diluvio, e se, piú in lá di Caino, non ci fermiamo in Adamo con un Dio di lui creatore e del mondo, si domanda:

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quando gli uomini al mondo cominciarono a vergognarsi nello stato della bestial libertá, nel quale non potevano vergognarsi de’ figliuoli, di cui essi erano per natura superiori, non di loro stessi, che erano eguali ed egualmente accesi dal fomento della libidine? Onde, se non ci fermiamo nella vergogna d’una divinitá — ma non di Veneri nude, di nudi Ermeti o Mercuri, né di sfacciati Priapi, — dagli uomini di Obbes, di Grozio, di Pufendorfio non può giammai aver potuto incominciare l’umanitá.

[59] In tali incominciamenti di cose umane, i primi uomini dovettero fermare le prime donne nella religione di quella divinitá che gl’impediva ad usare la venere a cielo aperto: onde appo tutte le nazioni restò quel costume che le donne entrassero nella religione civile de’ lor mariti, come ne’ loro sacrifici famigliari apertamente si ha de’ romani. Da questo primo antichissimo principio di tutta l’umanitá gli uomini cominciarono tra loro a comunicare le idee, dandovi l’incominciamento i mariti con le lor donne, innanzi di tutte le altre, da quella della divinitá che uniti gli aveva nella prima societá, che certamente fu quella de’ matrimoni. Dipoi, nello stato delle famiglie, queste deitadi particolari di ciascun padre, unite in intiere attenenze, fussero i dèi de’ padri, come «divi parentum» restaron pure interamente detti nella legge delleXII Tavole, al capoDe parricidio. Unite poi le famiglie in cittá, fossero i dèi di ciascheduna patria, che si dissero «dii patrii», e fossero creduti perciò dèi propi de’ padri o sia dell’ordine de’ patrizi. Quindi nel tempo che piú cittá, per l’uniformitá dell’idee in una stessa lingua, pervennero in intere nazioni, fossero i dèi delle nazioni medesime, come i dèi d’Oriente, i dèi dell’Egitto, i dèi della Grecia. Finalmente, nel tempo che le nazioni si conobbero per cagioni di guerre, allianze, commerzi, fossero i dèi comuni al genere umano: non la Giunone de’ greci, non la Venere de’ troiani; ma che, ne’ loro scambievoli giuramenti, i greci per la loro Giunone, i troiani per la loro Venere, intendevano

un dio che a tutti è Giove.

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[60] Onde si traggono due dimostrazioni. Una, che l’umanitá tutta si contiene dentro l’unitá di Dio, la quale da un dio appo tutte partitamente comincia, ed in un dio vanno tutte universalmente a terminare. L’altra è della veritá, antichitá e perpetuitá della cristiana religione, ché ella cominciò col mondo da un Dio, né, per volger d’anni e nazioni, nonché costumi, moltiplicò giammai la divinitá.

Capo vii
i
Ordine naturale d’idee dintorno al diritto delle nazioni per le loro propie religioni, leggi, lingue, nozze, nomi, armi e governi.

[61] Ma, se le genti, prima e propiamente, furono ceppi diramati in piú famiglie, il diritto delle genti non può affatto intendersi aver potuto cominciar e procedere che sopra quest’ordine naturale d’idee: che, prima di tutti altri, fosse egli un diritto uscito, coi costumi di certi ceppi, da’ primi padri del mondo diramati in molte famiglie innanzi di comporsene le cittá, le quali attenenze si dissero «genti maggiori». Dalle quali Giove, per esemplo, fu detto dio delle genti maggiori, perché fantasticato da questi primi padri e creduto dio dalle intiere famiglie, delle quali essi erano ceppi comuni e sovrani príncipi. In conseguenza di ciò, egli fu necessaria cosa che di ciascheduna di queste attenenze fusse propia ciascuna lingua, che essi si avevano ritruovata per comunicare tra essoloro le leggi, le quali, in tale stato, per ciò che se n’è detto nella particella antecedente, non potevano essere altro che le leggi credute divine degli auspíci, per gli quali, appo le gentili nazioni, la provvedenza, da «divinari», principalmente ebbe il nome di «divinitá». In séguito di ciò, dovettero credere essere

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propie loro sí fatte leggi divine, con le quali, da quel Giove che ciascuna si aveva fantasticato suo propio dio, credevano essere loro comandate tutte le umane faccende, prima e principale delle quali tutte certamente sono le nozze. In forza e ragione di sí fatte propie religioni, propie leggi e propie lingue, dovevano naturalmente celebrare tra essoloro le nozze con gli auspíci de’ loro dèi.

[62] Or suppongasi per poco tempo qui ciò che non molto dopo ritruoverassi di fatto: che altri uomini, lunga etá dopoi, dalla bestiale comunione siensi ricevuti alla vita socievole nelle terre occupate prima e cólte da altri uomini i quali dal divagamento ferino si erano altrettanto tempo innanzi ristati. Sí fatti uomini stranieri vagabondi, ricevuti senza religione e senza lingua — ed anche i nati da costoro, finché furono ignoranti delle religioni, leggi e lingue di coloro che gli avevano ricoverati, — dovettero naturalmente essere proibiti di contrarre nozze con le attenenze che giá avevano loro propie le lingue, le leggi e i dèi. E questo debbe essere stato il primo antichissimo diritto naturale delle genti nello stato delle famiglie, il quale deve essere stato comune a’ gentili con gli ebrei; e molto piú osservato dagli ebrei che da’ gentili, quanto che il popolo di Dio aveva il vero merito a’ vagabondi empi da lor ricorsi di non profanare la vera religione.

[63] Frattanto, a certe occasioni che a suo luogo dimostreransi, essendosi unite queste attenenze nelle prime cittá, il diritto naturale di queste genti dovette essere un diritto custodito coi costumi di ordini sí fatti di attenenze, le quali furono dette «genti minori»: da cui, per esemplo, Romolo fu detto dio «delle genti minori», perché fantasticato dio da quest’ordine, come certamente Procolo Sabino, uomo dell’ordine senatorio, il preconizò dio alla plebe romana. In conseguenza di ciò, tal diritto delle genti, come innanzi era stato di esse attenenze, cosí, lungo tempo dopo le cittá fondate, dovette essere propio di questi ordini di famiglie nobili: siccome pur troppo spiegatamente lo ci ha narrato la romana storia (prendiamla ora, piú di tutti altri, da Livio), che, per errore d’altri princípi dell’umanitá, è giaciuta finora senza scienza e senza utilitá alcuna.

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[64] Ma, per farla reggere sulle cose qui da noi meditate, ci giova or prendere per un poco di tempo nel volgar sentimento: che nell’asilo di Romolo si fossero ricoverati in copia trasmarini d’Arcadia e di Frigia, uomini di sconosciute nozze, di sconosciute lingue, di sconosciuti dèi, per lasciare quanto altri mai voglia il di piú estimar di coloro che, dalla solitudine bestiale, nelle picciole cittá fondate innanzi nel Lazio (come le fiere talvolta, o per eccessivi freddi o inseguite da’ cacciatori, per campar la vita, si riparano ne’ luoghi abitati), a certe loro ultime necessitá che qui appresso si diviseranno, si ripararono, affatto senza dèi, senza lingue e senza niuna parte di umanitá. Quando la storia romana certa ci narra che alla plebe, che vuole i connubi, ovvero la ragione di contrar nozze (ché tanto «connubio» suona in buona giurisprudenza) con gli auspíci degli dèi, co’ quali le celebravano i padri ovvero i nobili, questi gliele niegano, e contendono per quelle ragioni che arrecano in tali tempi con tutta proprietá di parole, e da Livio con tutta la buona fede ci sono state rapportate: «confundiiura gentium>», «se gentem habere», «auspicia esse sua». Con che volevano dire che si confonderebbono le ragioni de’ parentadi; — che essi soli avevano certe discendenze, per le quali erano sicuri con le nozze non commettere congiognimenti nefari, onde giacessero i figliuoli con le madri, i padri con le figliuole, o piú fratelli con una stessa sorella (perché le nozze solenni unicamente dimostrano certi padri e, ’n conseguenza, certi figliuoli, certi fratelli, come sanno i giovanetti appena che incominciano ad apprendere la romana ragione), e, ’n conseguenza, che essi erano puri dagl’incesti nefari, co’ quali non si propaga generazione umana, ma va a finirsi, ritornando i figliuoli a’ loro princípi donde essi uscirono, ed a restrignersi, non diramandosi, ma confondendosi i sangui vicini, che è la malizia naturale di tai congiognimenti incestuosi (della quale, in quella istessa contesa, i nobili ne riprendono essi plebei con quel motto: che «agitarent connubia more ferarum»); — e finalmente che essi s’intendevano della lingua de’ loro dèi, che, co’ divini creduti avvisi o comandi degli

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auspíci, ordinavano a essi tutte le cose umane, delle quali tutte erano prime e principali le nozze.

[65] Sopra questa naturalezza d’idee si ritruova il diritto naturale delle genti eroiche per tal differenza di natura, riputata da’ nobili, sopra le plebi delle prime cittá, tanto diversa quanto di uomini e di fiere, conforme a quella che de’ forti sopra i deboli estima Achille appunto di leoni e di uomini. Quivi si scuopre il principio naturale dell’arcano delle religioni e delle leggi appo ordini di nobili o sappienti o sacerdoti, e della lingua sagra ovvero arcana per tutte le nazioni, che finora, appo i romani, è stata creduta volgarmente impostura de’ patrizi ovvero nobili.

[66] Lunga etá appresso, gli stranieri ricevuti nelle prime cittá o, per me’ dire, i provenuti da quelli — essendo stati avvezzi tratto tratto a riverire e temere i dèi de’ signori di esse cittá, e, col lungo ubidire appresa la lingua delle religioni e delle leggi e, ad esemplo de’ nobili, contraendo matrimoni naturali con donne naturalmente, o sia di fatto, certe — come, per veritá di natura, erano giá essi venuti all’umanitá, cosí dalla loro natura furono portati a volere per diritto naturale delle genti essere uguagliati a’ nobili per questa parte in ragione: di riportarne comuni le loro nozze e i loro dèi. Onde questi finalmente comunicarono loro per legge e gli dèi e le nozze sei anni dopo della legge delleXII Tavole data a’ romani, come apertamente la romana storia racconta. Nella qual guisa, con la luce della storia certa latina dileguandosi le notti che sinora hanno ingombrato la storia favolosa de’ greci, si scuoprono gli Orfei avere col timore degli dèi addimesticato le fiere e riduttele nelle cittá. Per le quali, da tale stato in poi, il diritto natural delle genti fu un diritto comune a tutti coloro che da uomini liberi nascevano in una stessa cittá: onde da essa «natura», ovvero sorta di nascere, fu poi appellato «dirittonaturale delle nazioni». Cosí puossi intendere che le nozze solenni furono propie de’ cittadini romani sopra le genti vinte, come prima erano state propie de’ soli romani patrizi sopra i plebei; e questo deve essere stato il diritto civile della gente

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romana: non perché nelle altre nazioni, di loro propia signoria ed in loro civile libertá, i cittadini non celebrassero pure nozze solenni tra essoloro.

[67] Piú a noi da presso, le nazioni vinte — col lungo ubidire alle nazioni dominanti tratto tratto avvezzate a sconoscere i loro vinti dèi ed a temere i dèi vittoriosi e, col lungo volger d’anni, disusata la loro, celebrando la lingua delle religioni dominanti — vennero naturalmente ad esser capaci d’esser loro comunicati i dèi e le nozze de’ popoli príncipi. Nella quale ampiezza il diritto naturale delle nazioni fu estimato secondo l’idee dell’umane necessitá o utilitá delle nazioni intiere, ciascheduna essendo unita col vincolo d’una stessa religione e d’una medesima lingua sagra.

[68] Tal lingua sagra della religione, che è quella della Chiesa latina e greca, unisce tutti i popoli cristiani in una sola nazione incontra ad ebrei, maumettani e gentili: onde si rende ragione della natural malizia de’ congiugnimenti tra uomini e donne di tai nazioni diverse. Ma in grado molto rimesso di quella è la malizia naturale che contengono i congiugnimenti carnali con cristiane medesime senza le solennitá de’ matrimoni: perché indi devono nascere figliuoli a cui i parenti non possono insegnare con l’esemplo la prima di tutte le leggi dell’umanitá, e dalla quale l’umanitá ebbe il primo incominciamento, che è il timore di una divinitá che dee aversi nel congiognersi uomo con donna; e sí essi naturalmente peccano, usando la venere incerta, per mandare, in quanto ad essi appartiensi, i loro parti nello stato della bestialitá.

[69] Tutto ciò è fondato sopra il secondo degli tre princípi di tutta l’umanitá che noi proponemmo qui sopra: che gli uomini non si uniscano con le donne se non sopra i princípi d’una religion civile comune, per la quale, con una medesima lingua, i figliuoli apparino le cose delle loro religioni e delle loro leggi, e cosí conservino e perpetuino le propie nazioni. Onde intendano alcuni chiari filosofi di questa etá che non, per lo men regolato affetto alle loro filosofie condannando lo studio delle lingue dotte, sopra le quali sono fondate la nostra santa

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religione e le nostre leggi — quali sono le orientali, la greca, e la latina — vadano essi, senza avvedersene, a rovinare una coltissima nazione sopra le altre tutte del mondo, unicamente in sommo grado colta per ciò: perché per gli usi della religione e delle leggi devonsi tra’ popoli cristiani coltivare le lingue piú luminose di tutta l’antichitá.

[70] Finalmente, unite piú nazioni di lingue diverse in pensieri uniformi per cagioni di guerre, allianze, commerzi, nacque il diritto naturale del genere umano da idee uniformi in tutte le nazioni intorno le umane necessitá o utilitá di ciascheduna di esse.

[71] Per tutto ciò il principio del diritto naturale è il giusto uno, o sia l’unitá dell’idee del genere umano dintorno le utilitá o necessitá comuni a tutta l’umana natura. Talché il pirronismo distrugge l’umanitá, perché non dá l’uno; l’epicureismo la dissipa, ché vuole che giudichi dell’utilitá ’l senso di ciascheduno; lo stoicismo l’annienta, perché non riconosce utilitá o necessitá di natura corporea, ma solamente quelle dell’animo, delle qual’istesse non può altri giudicare che il solo loro sappiente. Solo Platone promuove il giusto uno, ché stima doversi seguire per regola del vero ciò che sembra uno ovvero lo stesso a tutti.

[72] Cosí dee aver proceduto l’ordine naturale dell’idee dintorno al diritto delle genti per le religioni, leggi, lingue, nozze, che le han fondate e propagate. Vediamo ora per le altre parti restateci, che erano nomi, che l’han distinte, armi e governi, che le conservano.

[73] Imperciocché, se i nomi, prima e propiamente, furono detti di esse genti, che appo i romani terminarono tutti in «ius» (come «nomen Cornelium», il quale era diramato in tante famiglie nobilissime, fra le quali la piú luminosa fu la Cornelia Scipiona); e se i nomi si spiegarono dagli antichissimi greci co’ patronimici, che propiamente sono nomi de’ padri (i quali pur troppo appruovano la loro antichitá per questo istesso che sono rimasti ai poeti); forza è che le prime genti sieno state le sole discendenze di case nobili, perché i soli nobili nascessero da nozze giuste ovvero solenni. In conseguenza di ciò, il

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«nome romano», il «nome numantino», il «nome cartaginese», per esempli, in significazione della «gente», dovettero essere, sul loro principio, de’ soli ordini di nobili di queste nazioni, i quali, in conseguenza di quello che essi soli s’intendevano della lingua divina degli auspici, essi pur soli dovevano avere l’amministrazione di tutte le pubbliche faccende della pace e della guerra, come pur troppo a lungo ci ha cantato la storia romana nelle contese della plebe co’ padri sulla comunicazione delle nozze, de’ consolati, de’ sacerdozi.

[74] Dalle quali cose il diritto naturale delle prime genti, per la ragione de’ nomi appo i romani, de’ patronimici appo gli antichissimi greci, per altro equivalente appo le altre nazioni, nacque e si custodí da tutti e tre i princípi da’ quali noi sopra proponemmo essere uscita tutta l’umanitá. De’ quali il primo fu la giusta oppinione universale che vi sia provvedenza. Il secondo, che gli uomini con certe donne, con cui abbiano comuni religioni, leggi e lingue, contraggano giuste nozze per fare certi figliuoli, che possano essi educare nelle religioni, istruire nelle leggi natie, per le quali questi debbano dimostrare i loro certi padri coi nomi, coi patronimici, e cosí abbiano a perpetuare le nazioni. (I quali figliuoli perciò, prima e propiamente, appo i latini furono detti «patricii», appo gli antichissimi greci εὐπατρίδαι, appo entrambi in significazione di «nobili». Onde i patrizi romani unicamente perciò, nella tavola che dicono undecima delle dodici, si avevano chiusi tra essoloro gli auspíci nel capo conceputo: «Auspicia incommunicata plebi sunto»). Il terzo, che si seppellissero i morti in propie terre a ciò destinate, onde le sepolture gli accertassero, con le genealogie o serie degli antenati, il sovrano dominio delle loro terre, che essi riconoscessero dagli auspíci de’ loro dèi, coi quali i loro primi ceppi l’avevano da prima occupate. Onde si distinse il dominio delle terre nella propietá, il quale era stato innanzi comune di tutto il genere umano nell’uso: che è il dominio originario, fonte di tutti i domíni sovrani e quindi di tutti i sovrani imperi, che da questi primi antichissimi auspíci vengono tutti da Dio.

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[75] Le quali cose tutte ne dan motivo di meditare che altri uomini innanzi altri, dall’uomo di Grozio, di Pufendorfio, si ricevettero all’umanitá. E si ritruova il gran principio della prima divisione de’ campi, ordinata dalla provvedenza per mezzo della religione degli auspíci e delle sepolture, e quindi il principio onde le cittá tutte sursero sopra due ordini: uno de’ nobili, altro di plebei. Ma si fa piú sublime discoverta in ciò: che ’l mondo delle nazioni è stato ordinato da Dio, osservato principalmente per l’attributo della provvedenza, per la quale è riverito da per tutto con l’idea della divinitá, o sia di mente che vede l’avvenire (ché tanto significa «divinari»); e cosí l’importante costume di seppellire i morti, che da’ latini si dice «humare», aver insegnato l’umanitá. Dai quali due gran princípi deve prendere incominciamento la scienza delle divine ed umane cose.

[76] In conseguenza di ciò che ’l nome romano, per esemplo, ne’ primi tempi fu de’ soli padri ovvero nobili, dovette tal costume in Roma riceversi da un comun diritto delle genti del Lazio che i soli nobili nelle antichissime adunanze s’intitolassero «quiriti» — cosí detti da «quiris», che significò «asta», — che assolutamente significano «genti d’arme in adunanza» (siccome «genti d’arme» ne’ tempi barbari nostri non furono detti che soli nobili): perché, fuori di adunanza o in numero del meno, «quirite» non mai si disse. Lo che ne convince che, avendo i soli nobili il diritto delle armi e, in conseguenza, il diritto della forza, che si chiama nelle cittá «imperio civile», perché essi soli avevano la gente, essi soli trattassero naturalmente del diritto delle genti come di lor cosa propia. Cotal diritto della gente romana si è da noi dimostro altrove aver durato dentro l’ordine de’ padri infino alla legge di Filone dittatore, per la quale, essendo state giá, dopo lunghe contese, comunicate da’ padri alla plebe le nozze, i comandi sovrani d’armi, i sacerdozi, fu finalmente accomunato il titolo della romana maestá a tutto il popolo nelle grandi adunanze, nelle quali tutti, indi in poi, erano appellati «quiriti romani». Dal qual tempo «nome romano» significò «nazione di nati da uomini

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liberi in Roma, che in adunanza avevano il diritto della pace e della guerra»; per lo cui diritto le provincie, rigorosamente, non avevano nome, perché, con le romane vittorie, era stato loro tolto il diritto sovrano dell’armi, e sí esse non avevano propiamente nome a riguardo de’ cittadini romani, siccome prima la plebe romana non aveva avuto nome a riguardo de’ padri. E qui si scuopre il principio del diritto della gente romana, col quale stese le conquiste, con le differenze, che appresso si ragioneranno, nel Lazio, nell’Italia, nelle provincie.

[77] Rimanci finalmente, con buon ordine di natura, da spiegare le nostre idee dintorno al diritto delle genti per la parte importantissima de’ governi, che era l’ultima delle sette che sopra ci abbiam proposta: la quale ci costa la maggior fatica di queste meditazioni, quanta vi volle ad entrar colla forza del nostro intendere nella natura de’ primi uomini muti d’ogni favella. Perché finalmente ritruovammo che per quelle stesse naturali cagioni che fecero la lingua sagra per geroglifici o caratteri muti appo tutte le prime nazioni (come appresso piú spiegatamente si mostrerá), di cui erano sappienti i soli nobili, ed era ignorata dal vulgo de’ plebei — dalla qual lingua, creduta divina, furono dipendenze le prime antichissime leggi, — naturalmente avvenne che nel primo mondo delle nazioni i primi governi furono tutti aristocratici, o sia di ordini di nobili, i quali si ritruovano essere stati gli eroi, ne’ tempi della loro barbarie, cosí de’ latini, come de’ greci, egizi, asiani. Ma, tratto tratto venendosi tra le nazioni a formare i parlari vocali ed a crescere i vocabolari (che noi sopra ragionammo essere una gran scuola di far destre e spedite le menti umane), i plebei vennero, riflettendo, a riconoscersi di una natura eguale a quella de’ nobili; in conseguenza della qual conosciuta vera natura umana, ricredendosi della vanitá dell’eroismo, vollero essere co’ nobili uguagliati nella ragione dell’utilitá. Per la qual cosa, meno e meno sopportando il mal governo che facevano di essoloro i nobili sulla vana ragione della loro creduta eroica natura, di spezie diversa da quella degli uomini, finalmente sopra

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le rovine del diritto naturale delle genti eroiche, estimato per maggioritá di forze, insurse il diritto naturale delle genti umane (che Ulpiano appella e diffinisce), estimato per ugualitá di ragione: per lo quale, nello stesso tempo che i popoli giá naturalmente, o sia di fatto, si erano composti di nobili e di plebei, e piú di plebei che di nobili — e, con l’idee della moltitudine, [gli eroi] erano divenuti signori delle lingue, — vennero i medesimi popoli naturalmente a farsi signori delle leggi nelle repubbliche popolari, naturalmente passarono sotto le monarchie, le quali dettano le leggi con le lingue comuni de’ popoli.

[78] Cosí, nelle persone de’ monarchi si unirono gli antichissimi auspíci (che si dice la «fortuna delle condotte»), si unirono i nomi delle nazioni (che è la «gloria dell’imprese»), e, per gli auspíci e i nomi, in loro si uní il sommo impero dell’armi, con le quali essi difendono le propie religioni e le propie leggi, dalle quali si distinguono e si conservano le nazioni. E la signoria della lingua delle prime genti per geroglifici si conservò cosí, intera, appo i popoli liberi in adunanza, come appresso i monarchi ristretta ad una certa lingua dell’armi, con la qual lingua delle loro insegne e bandiere le nazioni comunicassero tra loro nelle guerre, nell’allianze, ne’ commerzi: la quale qui appresso si ritruova il principio della scienza del blasone, e la stessa si ritruova il principio della scienza delle medaglie. Che è la profonda ragione onde, nelle nazioni giá fornite di lingue convenute, i governi mutar si possono di monarchici in popolari ed a rovescio; ma nella storia certa di tutti i tempi di tutte le nazioni non mai si legge che, in tempi umani e colti, alcun de’ due siasi cangiato in aristocratico. Onde si lascia ad intendere quanto i filosofi abbiano con iscienza meditato sui princípi de’ civili governi, e quanto con veritá Polibio abbia ragionato sulle loro mutazioni!

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ii
Corollario
Contenente un saggio di pratica sul confronto de’ ragionati princípi con la volgar tradizione della legge delle XII tavole venuta da Atene.

[79] Sol tanto basterebbe per farne accorti a non fidarci per l’avvenire degli autori che sulle volgari tradizioni han ragionato de’ princípi del diritto naturale delle genti e del civile romano. Ma, perché il dovere di chi riprende sistemi intieri di altrui è di riporre altro propio, ne’ cui princípi reggano tutti gli effetti con maggiore felicitá, noi c’innoltriamo con la meditazione per soddisfare a sí fatto nostro dovere. E, innanzi di riprendere l’incominciato cammino, non inutil cosa stimiamo fare qui un saggio della veritá ed utilitá di questa nuova Scienza, per o seguitarla in appresso o abbandonarla sul cominciare.

[80] Il saggio egli è questo: se nel ragionare che abbiamo fatto i giá sopra posti princípi con la sola forza del nostro intendere, siamo entrati nella natura de’ primi uomini che fondarono le gentili nazioni, sicché, con tale da noi divisato ordine d’idee, sieno essi proceduti a condurle e compierle in quello stato nel quale l’abbiamo da essi, per mano de’ nostri maggiori, ricevute. Facciamo questo confronto: in quella guisa che, incontro ad abiti comuni invecchiati, con violentissima forza spogliandoci di quanto dell’umanitá delle nazioni e filosofi e filologi avevano innanzi ragionato e racconto, ritruovammo sí fatti princípi e ragionevoli nelle cagioni e convenevoli negli effetti; — ora, per lo contrario, usando una forza opposta, che, al paragone della prima, dovrebbe essere molto leggieri, contro queste poche nuove e singolari cognizioni, tentiamo, se possiamo, dimenticarci di questi princípi, e cosí per l’appresso, siccome

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per lo innanzi si è fatto, ci sia lecito riposare con mente tranquilla sopra le volgari tradizioni che ne hanno lasciato scritte gli antichi. Che se ci sará niegato di farlo, sará un vero sperimento che le cose qui concepute siensi medesimate con l’intima sostanza della nostra anima, cioè che abbiamo non altro fatto che spiegato la nostra ragione, talché bisogna disumanarsi per rinniegarle (che è quell’intima filosofia onde Cicerone voleva produrre la scienza di cotal diritto); e che i princípi fin qui meditati erano veri finora racchiusi in noi stessi, o oppressi dal peso della memoria di ricordarsi tante innumerabili cose sregolate che non giovavano di nulla l’intendimento, o trasformati dalle nostre fantasie d’immaginarle con le idee nostre presenti, non giá con le antichissime loro propie.

[81] Adunque — poste in disparte le fin qui ragionate cose dintorno a’ princípi delle false religioni e dei dèi che indi nacquero, delle leggi e della loro lingua da prima sacra, de’ costumi eroici e de’ loro governi, talché si abbiano per affatto non conosciute, come tante migliaia d’anni sono state in veritá sconosciute — si combinino queste cose d’istoria romana certa, quanto certa è la contesa della plebe co’ padri dintorno a contrarre le nozze con auspíci comuni: che è il diritto divino, la cui comunicazione Modestino giureconsulto fa prima e principal parte delle nozze giuste o solenni che contraggono i cittadini romani, ove esso le diffinisce che «sunt omnis divini et humani iuris communicatio». E tal contesa avviene in Roma trecensei anni dopo che era stata fondata, e, sí, tre anni dopo la legge delleXII Tavole data alla plebe. Qui si rifletta in tali tempi la plebe non aver dèi comuni co’ padri; che è tanto dire che la plebe era una nazione di uomini dall’ordine de’ nobili affatto diversa, quando certamente l’unitá delle religioni unisce le nazioni.

[82] Che dense notti di tenebre, che abisso di confusione non dee ingombrare e disperdere le nostre menti messe in ricerca di qual natura, di quai costumi, di qual sorta di governo dovette essere Roma antica, della quale non possiamo dalle nostre nature, costumi e governi fare nessuna, quantunque lontanissima, simiglianza! Impegnino pur i nostri ingegni tutta la

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loro acutezza o piú tosto arguzia per poter mantenere la riputazione alla nostra memoria, giá invecchiata in ciò: che ’l governo romano sotto i re fu monarchico mescolato di libertá popolare; che Bruto, col cacciare da Roma i re, la fondò tutta; che la legge delleXII Tavole venne da Atene, cittá certamente a que’ tempi libera, e che stabilí in Roma affatto l’egualitá; — ché resisteracci questa pubblica testimonianza d’incontrastata istoria: che i plebei, fino a sei anni dopo essa legge, non solo non erano cittadini romani, siccome quelli che non avevano le cose divine comuni coi nobili, ma nemmeno della stessa romana nazione, a’ quali i padri oppongono che essi, i quali eran nobili, avevano la gente, che certamente era la romana; ma, ciò che sbalordisce, eran tenuti di una spezie diversa dagli uomini, ché «agitabant connubia more ferarum», che duravan sol tanto quanto durava la coabitazione con le loro donne. Le quali cose, se non si può riprendere Modestino aver falsamente diffinito le nozze; se non si può pure rinnegare questo comun costume delle nazioni: che niuna cittá è divisa in parti per dèi, perché ogni cittá divisa in parti per cagion di religione o è giá rovinata o è presso alla rovina; se non si può sconoscere questa troppo strepitosa testimonianza di romana storia certa di un diritto che con pubbliche arringhe e con popolari movimenti in Roma ben tre anni si contrastò: ci vediamo gittati in una necessitá, se non piú tosto sollevati in una libertá, di troppo sconfidare della tanta accuratezza de’ critici, che a ciascheduna delle Tavole hanno fissi i propi capi di cotal legge: e ’l capo dove i plebei sieno padri di famiglia, che non possono essere che cittadini; e quello dove facciano solenni testamenti e dieno i tutori a’ figliuoli, che non è permesso ad altri fare che a’ padri di famiglia; e l’altro dove i loro retaggi vadanoab intestato agli eredi suoi, in difetto agli agnati e finalmente a’ gentili: i retaggi, diciamo, di que’ plebei che, sino a tre anni dopo tal legge data loro, non avevano gente o casato!

[83] Ma che diligenza perversa! quando i dubbi dintorno ad essa legge venuta da Atene in Roma son tali che non si possono

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a patto alcuno non ascoltare, perché da dentro la nostra mente ce ne incalzano i richiami che ne fa essa natura selvaggia e ritirata delle primiere nazioni, tra le quali non si poté avere commerzio di lingue che dopo le occasioni di guerre, di allianze, commerzi; talché sempre c’intuoneranno nel capo: — come, nel tempo che ottansei anni addietro, dentro un brieve continente d’Italia, Livio risolutamente niega, per tante nazioni di lingue e di costumi diverse, il nome famosissimo di Pittagora aver potuto da Cotrone a Roma penetrare, fu da oltremare traggittata a’ romani la fama della sapienza di Solone fino dall’Attica, che è la parte da noi piú lontana della Grecia? come i romani poterono sapere la qualitá delle leggi ateniesi tanto a minuto, che le stimarono proporzionate a sedare le contese che i plebei avevano co’ nobili, nel tempo che, venti anni innanzi, non piú, Tucidide scrive che i greci stessi, fino alla memoria de’ loro padri, non sapevano nulla delle loro cose propie? come i romani furono conosciuti a’ greci, e con qual commerzio di lingue per ambasciarie, i cui ambasciadori, censettandue anni dopo, per non essere conosciuti, perocché non avevano commerzio di lingue, dentro essa Italia, furono maltrattati da’ tarantini, dalla qual guerra cominciarono i romani co’ greci a conoscersi? forse per ciò: — perché non vi era commerzio di lingue, — gli ambasciadori romani (veramente semplicioni di Grozio ed affatto ridevoli ambasciadori di Accursio, che pur troppo discreditano la cotanto rinnomata sapienza de’ decemviri) se ne ritornarono con le leggi greche in casa senza nulla sapere che contenessero? talché, se gli autori della favola non fanno venire frattanto Ermodoro greco a fare il suo esiglio in Roma, delle portate leggi essi non arebbono saputo che farsi? come Ermodoro le tradusse con tanta latina puritá, che Diodoro sicolo giudica «nulla affatto odorare di grecismo», e noi possiamo affermare che non fu autor latino appresso, quanto si voglia in lingua greca versato, che avesse tradotto con pari eleganza alcuno de’ greci scrittori? come travestí greche idee con voci tanto propie latine che essi greci, tra’ quali è Dione, dicono che tutta la Grecia non abbia termini
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simiglianti per ispiegarle? (come la voce «auctoritas», la quale contiene una delle piú importanti parti, se non forse tutto o pur l’unico affare di quella legge, come qui appresso si mostrerá).

[84] Altrove per due intieri libri si è dimostrato cotal tradizione volgare essere favolosa, dove aprimmo il consiglio dell’ambasciaria, veramente uscita con tal colore di Roma, ma, in fatti, per tenere a bada tre anni la plebe. Ora qui, incontra all’offese di taluni che amano meglio di non intendere che dimenticarsi, ci poniamo sotto l’ombra di Cicerone, il quale non volle mai credere cotal favola e professò di non crederla. Imperciocché, innanzi di Cicerone, niuno autore né latino né greco fa menzione di cotal fatto d’istoria romana, senonsé vogliamo dar credito alla lettera che scrive Eraclito ad Ermodoro, con la quale si rallegra con essolui di aver sognato che tutte le altre del mondo venivano ad adorare le di lui leggi. La qual lettera veramente è sogno, infino da Efeso o dal deserto, dove Eraclito poi, per ischivare gli ingiusti odi degli efesi, si ritirò, scritto ad un altro in Roma per quelle poste per le quali, come dicemmo, Pittagora aveva fatto per lo mondo i lontanissimi suoi viaggi. Lettera affatto indegna di un tanto grave filosofo e di Ermodoro, principe di tanto merito che esso Eraclito stimò quei di Efeso degni tutti d’essere infino all’uno strangolati, che ’l cacciarono dalla loro cittá: che l’uno facesse, l’altro si dilettasse di cotanto sfacciata adulazione che la gloria delle buone leggi debba essere di un traduttore, quanto se un dicesse che la gloria d’una gran pace debba ridondare agl’interpetri! Perché, se tal lode conviengli perciocché esso fu l’autore che si mandasse in Atene per le leggi della libertá, come credette Pomponio, egli sembra affatto indegno di cotal lode, il quale, essendo principalissimo cittadino di Efeso, come Diogene Laerzio il racconta, non seppe a suo costo quelle leggi di libertá, per cui cosí esso dagli efesi, come dagli ateniesi fu discacciato il giustissimo Aristide, ed anche senza di quelle, giá pochi anni innanzi, da Roma era stato mandato in esiglio il valoroso Coriolano. Onde cotal anfania

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si dee stimar impostura simigliante a quelle degli oracoli di Zoroaste e degli orfici o versi smaltiti fatti da Orfeo.

[85] Nel rimanente, di cotal fatto gli autori piú antichi che ’l narrino sono Tito Livio e Dionigio d’Alicarnasso: talché tutti gli altri, che l’han seguíto, non fanno piú fede di quella che in ciò ne meritano questi due scrittori. Ma Cicerone — piú d’entrambi filosofo certamente e filologo, e della storia delle leggi di quella repubblica, che esso da sappientissimo consolo governò, informato molto meglio che un uomo privato da Padova ed un greco interessato della gloria della sua nazion boriosa, e pur senza dubbio che visse innanzi di entrambi — in uno ragionamento erudito, come quello che dá la materia a’ tre libriDell’oratore, introduce Marco Crasso a ragionare delle leggi romane in presenza di Quinto Muzio Scevola, principe de’ giureconsulti della sua etá, e di Servio Sulpizio, il quale (come pur narra Pomponio giureconsulto nella sua brieve istoria del diritto romano) funne ripreso da questo istesso Scevola, che, essendo patrizio, non sapesse egli le leggi della sua patria. E lo scrittore, quant’altri mai osservantissimo del decoro de’ dialogi, in presenza di tali uomini (ché, altrimenti, sarebbe stata una incredibile sfacciatezza) lo fa dire: che la sapienza de’ decemviri, i quali diedero la legge delleXII Tavole a’ romani, avanza di gran lunga quella di Ligurgo, che le diede agli spartani, quella di Dragone e di Solone istesso, che le diede agli ateniesi!

[86] Appresso qui scuopriremo i motivi di vero onde fu, con brutta incostanza, detta venire ora da altre cittá del Lazio, come dagli equicoli, ora dalle cittá greche d’Italia, ora da Sparta, finalmente da Atene, dove, per la fama de’ di lei filosofi, cotale divagamento finalmente ristò. Quivi si vedrá che tale egli è adivenuto alla legge delleXII Tavole quale a’ viaggi di Pittagora, che furono creduti per ciò: perché poi da’ greci le di lui oppinioni si ritruovarono simili tra le nazioni in lungo e in largo dissipate per l’universo. Perché ella — nonché in ciò: che i pareggiatori attici ne pareggiano in leggieri cose coi costumi ateniesi; altri in altre cose pur picciole con quei

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degli spartani; il pareggiatore cristiano in altri pur minuti diritti con le leggi mosaiche; — ma in tutto il corpo del diritto romano, come in questi libri dimostrerassi, ella è un testimone il piú pieno e ’l piú certo di tutta l’antichitá gentilesca (per sí fatta oppinione volgare sconosciuto finora), che ne poteva assicurare del diritto delle genti e d’Italia e di Grecia e delle altre antiche nazioni. Tanto ci ha costo di danni il fasto romano, che volle in ciò andare del pari con la boria de’ greci, che vantavano fondatore della loro nazione Orfeo, ricco di sapienza riposta, e, per arricchirnelo, ne fecero dovizia a Trimegisto e a Zoroaste, da’ quali, per mezzo di Atlante, provenisse filosofo Orfeo. Ma, non avendo essi romani un sí fatto in Italia — perché Livio niega aver Numa da Pittagora appreso, quantunque pure l’avessero essi vantato — delle leggi dettate loro dalla provvedenza, come qui appresso dimostrerassi, fecero autore il principe de’ sappienti di Grecia Solone.

[87] Per questa oppinion falsa alla legge delleXII Tavole egli è avvenuto lo stesso che avvenne alla sapienza di Zoroaste, di Trimegisto, d’Orfeo, a’ quali furono appiccate opere di sapienza riposta, la quale venne lungo tempo dopo della volgare, e venne per la volgare di Zoroaste, di Trimegisto, d’Orfeo. Perché, essendosi immaginata tutta ad un colpo venuta da Atene, cittá allora di compitissima libertá, si appiccarono alleXII Tavole moltissimi diritti e ragioni che furono alla plebe da’ nobili, dopo molto tempo e molte contese, communicate, come, sei anni dopo, i connubi, che con gli auspíci i padri si avevano riserbati nella tavola undecima, cui dipendenze sono patria potestá, testamenti, tutele, suitá, agnazioni, gentilitá.

[88] Quindi si elegga se, in tal densa notte, per sí aspro mare, in mezzo a tanti scogli di difficultá, debbasi seguire di correre sí crudel tempesta, che sconvolge dal fondo tutto l’umano raziocinio, per difendere l’ombre del tempo oscuro e le favole del tempo eroico, che piú tosto furono finte appresso che tali fossero da prima nate di getto; — o, dando alle favole per nostra ragione que’ sentimenti che essa ragion vuole (quando elleno finora hanno ricevuto ogni interpetrazione a capriccio), e faccendo

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o nostre le cose del tempo oscuro, che sono state finora di nessuno e che, ’n conseguenza, legittimamente si concedono all’occupante, in sí fatta guisa dobbiamo ischiarire queste notti, tranquillare queste tempeste, schivar questi scogli coi sopra posti princípi della natura eroica. Sopra la quale, non ragionata con l’idee de’ filosofi, non fantasticata con quelle de’ romanzieri, ma dal primo autore di tutta l’erudizione profana, Omero, fedelmente, per quanto appartiene a questi princípi, narrataci uniforme negli Achilli e ne’ Polifemi, col comporvi una legge di Ligurgo, o sia stato pur costume di Sparta, per cui era proibito agli spartani saper di lettera, perseverando perciò tra loro la ferocia, restò lo spartano governo aristocratico, come in ciò allo ’ngrosso tutti i politici il riconoscono. Repubblica, del rimanente, tutta dissimigliantissima dalle nostre, pur dall’ultima barbarie rimasteci, le quali perciò, in questa coltissima umanitá presente, debbonsi conservare con soprafina sapienza. Ma la spartana, per la ferocia, ritenne assaissimo degli piú antichi costumi eroici di Grecia, come tutti i filologi vi convengono che fu un ordine regnante di Eraclidi ovvero di razze erculee sotto due re da cotal ordine eletti a vita. Della qual forma appunto ritruoverassi il governo romano, quando in Roma, senza lettere affatto, o finché i nobili soli seppero di lettera, durò la ferocia.

[89] La natura eroica, posta in mezzo alle cose divine ed umane delle nazioni, finora ignorata (perché o rammentata solamente o immaginata altramenti), ci ha tenute nascoste le cose divine delle nazioni che vi tenevano luogo di princípi, e ci ha lasciato le cose umane senza scienza, che tutte sono nate dalle divine; e cosí ne giunse alterata e guasta, nonché la materia di lavorar sistemi del diritto naturale delle genti, ma di tutta la scienza della divina ed umana erudizione gentilesca. A questo esemplo faccendo severo esame de’ nostri pensieri sulle cose che si mediteranno appresso, riprendiamo ora l’incominciato cammino.

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Capo viii
Disegno d’una storia ideale eterna sulla quale corra in tempo la storia di tutte le nazioni con certe origini e con certa perpetuitá.

[90] Adunque, stabilite l’eternitá e l’universalitá al diritto natural delle genti per le sudette loro propietá; ed essendo cotal diritto uscito coi comuni costumi de’ popoli; ed i costumi de’ popoli essendo fatti costanti delle nazioni; e, insiememente, essendo i costumi umani pratiche ovvero usanze dell’umana natura; e la natura degli uomini non cangiandosi tutta ad un tratto, ma sempre ritenendo un’impressione del vezzo o sia usanza primiera: questa Scienza debbe portare ad un fiato e la filosofia e la storia de’ costumi umani — che sono le due parti che compiono questa sorta di giurisprudenza della quale qui si tratta, che è la giurisprudenza del genere umano — in guisa che la prima parte ne spieghi una concatenata serie di ragioni, la seconda ne narri un perpetuo o sia non interrotto séguito di fatti dell’umanitá in conformitá di esse ragioni — come le cagioni producono a sé somiglianti gli effetti; — e, per cotal via, si ritruovino le certe origini e i non interrotti progressi di tutto l’universo delle nazioni. Che, secondo il presente ordine di cose postoci dalla provvedenza, ella viene ad essere unastoriaideale eterna, sopra la quale corra in tempo la storia di tutte le nazioni. Dalla quale unicamente si può ottenere con iscienza la storia universale con certe origini e certa perpetuitá: le due cose massime che, fino al dí d’oggi, in lei sono state cotanto desiderate.

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Capo ix
Idea d’una nuova arte critica.

[91] E questa istessa Scienza ne può fornire di un’arte critica sopra gli autori delle nazioni medesime, che ne dia le regole di discernere il vero in tutte le storie gentilesche, che ne’ loro barbari incominciamenti lo han trammischiato, qual piú qual meno, di favole.

[92] Perché gli storici anche addottrinati devono narrare le tradizioni volgari de’ popoli de’ quali scrivono le storie, acciocché ed essi sien tenuti dal volgo per veritieri, e sieno utili alle repubbliche, per la cui perpetuitá essi scrivono le storie, riserbando a’ dotti il giudizio della veritá. Ma i fatti in dubbio si devono prendere in conformitá delle leggi; le leggi in dubbio si devono interpetrare in conformitá della natura: onde le leggi e i fatti in dubbio devono riceversi che non facciano assurdo o sconcezza, molto meno impossibilitá. I popoli in dubbio devono aver operato in conformitá delle forme de’ loro governi; le forme de’ governi in dubbio devono essere state convenevoli alla natura degli uomini governati; la natura degli uomini in dubbio deve essere stata governata in conformitá della natura de’ siti: altrimenti nell’isole che ne’ continenti, ché ivi provengono piú ritrosi, qui piú agevoli; altrimenti ne’ paesi mediterranei che ne’ marittimi, ché ivi riescono agricoltori, qui mercadanti; altrimenti sotto climi caldi e piú eterei che sotto freddi e pigri, ché ivi nascono di acuto e qui di ottuso ingegno.

[93] Con queste regole d’interpetrazione delle leggi anche fresche e de’ fatti pur recenti, si fanno ragionevoli le tradizioni volgari che ci son pervenute dell’umanitá de’ tempi oscuro e favoloso, che sembrano, come finora han giaciuto, assurde ed anche impossibili. E la riverenza loro dovuta per la propia antichitá si serba loro sopra questa massima: che ogni comune di uomini è naturalmente portato a conservare le memorie di

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quelle costumanze, ordini, leggi che gli tengono dentro quella o quella societá. Quindi, se tutte le storie gentilesche han conservato i loro princípi favolosi, e sopra tutte la greca (dalla quale abbiamo tutto ciò che abbiamo dell’antichitá de’ gentili), devono le favole unicamente contenerenarrazioni storichedegli antichissimi costumi, ordini, leggi delle primegentili nazioni. Che sará la condotta principale di tutta quest’opera.

Capo x
Primo. — Con certa spezie di testimonianze
sincrone co’ tempi in che nacquero esse gentili nazioni.

[94] E, primieramente, le tradizioni favolose, delle quali sono sparsi tutti i princípi delle storie gentilesche, ove si ritruovano essere uniformi in piú nazioni gentili antiche tra loro per immensi spazi di terre e mari divise, debbono esser nate da idee naturalmente tra essoloro comuni; le quali sí fatte tradizioni devono essere testimonianze sincrone ovvero contemporanee co’ princípi del diritto naturale delle genti. Come, per esemplo, è la favola degli eroi generati dagli dèi con le donne, perocché si ritruova uniforme tra gli egizi, greci e latini (i quali ultimi narrano Romolo figliuolo di Marte, fatto con Rea Silvia), deve dar da meditare nell’idea naturalmente comune a queste tre nazioni, che diede loro il principio del tempo eroico.

[95] E qui comparisce la prima particolar differenza de’ princípi della storia sagra da quelli della profana. Perché, quantunque ella, nel narrar che fa de’ giganti, contenga l’espressione de’ «figliuoli di Dio», che ’l Bocarto spiega i discendenti di Seto, però ella si è mantenuta tutta monda dalle lordure della storia profana, che narra le lascivie degli dèi con le donne. Per lo che è affatto da rifiutarsi l’interpetrazione che i giganti sieno stati generati da’ dimòni incubi, perché la storia sagra non sia contaminata da alcun’aria di paganesimo, nel quale, appo i greci, forse perciò il dimonio incubo fu detto Πάν, il dio Pane,

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che pur significa un mostro poetico, composto di natura d’uomo e di capra, che noi qui ritruoveremo significare gli uomini, nella comunione, nati da’ nefari concubiti.

Capo xi
Secondo. — Con certa spezie di medaglie de’ primi popoli,
con le quali si dimostra l’universale diluvio.

[96] E, siccome della storia certa gli piú accertati documenti son le pubbliche medaglie, cosí della storia favolosa ed oscura devono tenersi a luogo di medaglie de’ primi popoli alcuni vestigi restati in marmi, che appruovano i loro comuni costumi. Tra le quali gravissima è questa:

[97] Che tutte le prime nazioni, per povertá di parlari convenuti, si spiegarono coi corpi, che devono essere stati prima naturali, poi scolpiti o dipinti. Come degli sciti narra Olao Magno; degli etiopi il lasciò scritto Diodoro sicolo: e certamente abbiamo nelle loro piramidi descritti i geroglifici degli egizi; e dapertutto si truovano frantumi di antichitá con sí fatti caratteri di corpi scolpiti, della qual sorta dovettero essere da prima i caratteri magici de’ caldei; e i chinesi, che vanamente vantano una enorme antichitá d’origine, scrivono co’ geroglifici — onde si pruova la loro origine non essere piú che di quattromila anni, la qual si conferma da ciò: che, perché essi, sino a pochi secoli addietro, furono sempre chiusi a tutte le nazioni straniere, non hanno piú che da trecento voci articolate, con le quali, variamente articolandole, essi si spiegano (che è una dimostrazione del lungo tempo e della molta difficultá che vi volle per fornirsi di favelle articolate le nazioni: la qual cosa appresso ragionerassi piú ampiamente); — co’ geroglifici in questi ultimi tempi da’ viaggiatori si sono osservati scrivere gli americani.

[98] Questa povertá di parlari articolati delle prime nazioni, comune per l’universo, appruova di fresco loro avanti essere

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avvenuto l’universale diluvio. La quale dimostrazione veramente risolve la capricciosa rivoluzione della terra immaginata da Tommaso Burnet, della qual fantasia ebbe egli i motivi prima da Van Elmonte e poi dallaFisica del Cartesio: che, risolutasi col Diluvio la terra dalla parte del sud piucché da quella del nort, fosse questa restata nelle sue viscere piú ripiena d’aria e, ’n conseguenza, piú galleggiante, e perciò superiore all’altra opposta, tutta sommersa dall’oceano, e quindi avesse la terra alquanto declinato dal suo parallelismo col sole. Perché Idantura, re della Scizia, non arebbe per geroglifici risposto a Dario il maggiore, quando questi mandò ad intimargli la guerra. E, posto che la scienza di sí fatti caratteri si conservò arcana dentro ordini di sacerdoti appo tutte le antiche nazioni, come appresso si pruoverá, e Mosé diede a leggere a tutto il popolo la Legge scritta da Dio, nasce una dimostrazione della veritá della religion cristiana, ché dal Diluvio fu conservato Noé con la sua famiglia, che conservò nel popolo di Dio, anche nella schiavitú dell’Egitto, la letteratura antidiluviana.

[99] Con tal sorta di pruove di tutta l’umana natura si stabiliscono i princípi di questa Scienza e, insiememente, la veritá della cristiana religione: non con le sole autoritá degli scrittori, a cui vennero le tradizioni delle cose profane in sommo grado alterate.

Capo xii
Terzo. — Con fisiche dimostrazioni, con cui si dimostrano i giganti, primo principio della storia profana e della di lei perpetuitá con la sagra.

[100] Oltracciò, si fanno pruove con fisiche dimostrazioni, alle quali viene di séguito la pruova della natura delle prime nazioni.

[101] Cosí niente vieta in natura essere stati i giganti uomini di vasti corpi e di forze sformate, come di fatto furono i Germani antichi, che ritennero assaissimo della loro antichissima

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origine sí ne’ costumi come nella lingua, perché non ammisero mai dentro i loro confini imperio straniero di nazioni ingentilite; ed oggi i giganti pur tuttavia nascono nel piè dell’America. Ciò ha dato da meditare nelle cagioni fisiche e morali che, a proposito de’ Germani antichi, ne arrecano Giulio Cesare prima e poi Cornelio Tacito, le quali, in somma, si riducono a ferina educazione de’ fanciulli: di lasciargli rotolar nudi nelle loro propie lordure, fussero anche figliuoli di príncipi, e, liberi affatto dal timor de’ maestri, fussero anche figliuoli de’ poveri, lasciargli in lor balía ad esercitarsi nelle forze del corpo. E si ritruovano essere state molto maggiori queste cagioni medesime nelle razze di Caino innanzi, e di Cam e Giafet dopo il Diluvio, mandate da’ loro autori nell’empietá e quindi, dopo qualche etá, da se stessi iti nella libertá bestiale: perché pure i fanciulli germani antichi temevano i loro dèi, i loro padri.

[102] Cosí si fanno veri i giganti. De’ quali la sagra storia narra che nacquero dalla confusione de’ semi umani de’ figliuoli di Dio (che Samuele Bocarto spiega de’ discendenti di Seto innanzi, e noi supplimo di Semo dopo il Diluvio) con le figliuole degli uomini (che ’l Bocarto spiega con la discendenza di Caino innanzi, e noi anche con quelle di Cam e Giafet dopo il Diluvio); narra che i giganti furono «uomini forti famosi nel secolo»; e, narrando altresí che Caino fu il fondatore delle cittá avanti, e Nembrot gigante innalza la gran torre dopo il Diluvio, sí espone in ispiegata comparsa tutto il mondo avanti e lunga etá dopo il Diluvio in due nazioni: una di non giganti, perché di politamente educati sotto il timore di Dio e de’ padri, che fu quella de’ credenti nel vero Dio, Dio d’Adamo e di Noé, sparsi per le immense campagne dell’Assiria (come poi, per le loro, gli antichi sciti, che fu una gente giustissima); un’altra d’idolatri giganti (come di antichi Germani) divisi per le cittá, che tratto tratto poi, con ispaventose religioni e co’ terribili imperi paterni (che si descrivono appresso) e finalmente con la polizia dell’educazione (onde forse dalla stessa origine viene πόλις a’ greci «cittá» ed a’ latini «polio» e «politus»), degradarono dalla loro smisurata grandezza alla nostra giusta statura.

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[103] Con tal meditazione si apre l’unica via, finora chiusa, per rinvenire la certa origine della storia universale profana e della sua perpetuitá con la sagra, la qual è piú antica d’ogni profana, che si attaccano tra loro col principio della storia greca, da cui abbiamo tutto ciò che abbiamo della profana antichitá: la quale, prima di tutt’altro ci narra il Caos, che si ritruova appresso aver dovuto prima significare la confusione de’ semi umani, poi quella de’ semi di tutta la natura; e, vicino al Diluvio, ci narra i giganti; e, per Prometeo gigante, Deucalione, nipote di Giapeto e, lo stesso, padre di Elleno, fondator della greca gente, cui diede il nome di «elleni»: che dev’essere la razza greca provenuta da Giafet, che venne a popolare l’Europa, come Cam la Fenicia e l’Egitto e, per colá, l’Affrica. Ma, per le guaste tradizioni che n’erano state tramandate ad Omero, essendo stato preso il Caos per la confusione de’ semi della natura, e creduti l’ogigio e il deucalionio particolari diluvi (che non dovettero essere che tradizioni tronche del diluvio universale), e stimati i giganti di corpi e di forze essere stati in natura impossibili, l’origine della storia profana e la sua perpetuitá con la sagra è stata sconosciuta fino al dí d’oggi.

Capo xiii
Quarto. — Con pruove fisiche tratte dalle favole, con cui si truova ad un certo determinato tempo dopo l’universale diluvio esser nato il principio dell’idolatria e della divinazione, comune a’ latini, greci, egizi, dopo esser queste per altro principio nate nell’oriente.

[104] Di piú si compruovano questi princípi con pruove d’istoria fisica tratte dalle medesime favole. Come con questo: che egli sia ragionevole per fisiche ragioni che, dopo il Diluvio, lunga etá la terra non avesse mandato esalazioni ovvero materie ignite

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in aria ad ingenerarsi de’ fulmini; e, come le regioni furono piú vicine agli ardori dell’equinoziale, quale è l’Egitto, o piú lontane, quali sono la Grecia, l’Italia, cosí piú prestamente o piú tardi vi avesse il cielo tuonato.

[105] Quindi tante nazioni gentili cominciarono dalle religioni di tanti Giovi, de’ quali il piú antico egli fu Giove Ammone in Egitto. La qual moltiplicitá di Giovi fa tanta meraviglia a’ filologi, la qual si risolve per gli nostri princípi, perché appo tutte fu egualmente fantasticata una divinitá in cielo che fulminasse. Questi tanti Giovi confermano fisicamente il diluvio universale e compruovano il principio comune di tutta l’umanitá gentilesca, perocché Giove atterra i giganti empi con quella stessa propietá che «atterrare» è di «mandare sotterra». Imperocché la guerra de’ giganti, nella quale imposero monti e monti per discacciare Giove dal cielo, come qui appresso generalmente dimostrerassi, si truova essere stata fantasia de’ poeti certamente che vennero dopo Omero, al cui tempo bastava a’ giganti di scuotere il solo Olimpo, sulla cui cima e dorsi Omero costantemente ci narra allogati Giove con gli altri dèi.

[106] È possibile — e, dagli effetti che appresso ragioneremo dintorno alla guisa della divisione de’ campi, egli avvenne di fatto — che a’ primi fulmini di Giove non tutti si atterrarono, ma, in quello loro stupore, i piú risentiti, e quindi piú gentili, per timore del fulmine nascosti per le spelonche, incominciarono a sentire la venere umana o pudica: che, spaventati, non potendola usare in faccia al cielo, afferrarono a forza donne e a forza le strascinarono e le tennero dentro le loro grotte. Onde incomincia a spiccare la prima virtú negli uomini, con la quale ammendano la natural leggerezza delle femmine, e quindi la natural nobiltá del sesso virile, cagione della prima potestá che fu quella sopra il sesso donnesco. Con questo primo costume umano nacquero certi figliuoli, da’ quali provennero certe famiglie, sopra le quali sursero le prime cittá e quindi i primi regni.

[107] Qui nasce uguale la divinazione, appo egizi, greci, latini, sopra l’osservazione de’ fulmini e dell’aquile, che sono le armi

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e gli uccelli di Giove: le due cose certamente piú osservate nella divinitá da’ romani, e sí le prime e principali divine cose delle romane leggi. Donde appo gli egizi — da’ quali credono averle prese i toscani, e da questi finalmente i romani — restarono le aquile in cima agli scettri; ed a’ greci restò a Mercurio lo scettro alato; ed ugualmente appo i latini e greci le aquile scolpite o dipinte nell’insegne dell’armi. Ma tra gli orientali ne nacque un’altra spezie piú dilicata, che fu l’osservazione delle stelle cadenti. E la cagione della diversitá si truova unicamente perché gli assiri uscirono da’ rinniegati discendenti di Semo, i quali da’ credenti, uniti dalla religione, che loro si ritruovavano da presso, poterono intendere la forza della societá innanzi che ’l cielo fulminasse: onde i caldei provennero sappienti piú prestamente degli egizi, come vi convengono i filologi che da’ caldei, per gli fenici, agli egizi passarono l’uso del quadrante e della elevazione del polo. Talché, se i caldei furono i primi sappienti del mondo gentile, ed indi la sapienza riposta passò in Fenicia ed Egitto, e quindi nella Grecia e nell’Italia, siccome dall’Oriente si propagò per la terra tutto il genere umano, cosí, se non esso principio, almeno l’occasione di tutta la sapienza riposta si deve alla religione del vero Dio, cioè di Dio creatore d’Adamo.

Capo xiv
Quinto. — Con pruove metafisiche, con le quali si ritruova dovere alla poesia i suoi princípi tutta la teologia de’ gentili.

[108] Si usano per lo piú pruove metafisiche, e sempre, ove siamo abbandonati da ogni altra spezie di pruove. Come:

[109] Le false religioni non han potuto nascere che dall’idea d’una forza e virtú di corpo superiore all’umana, la quale da essa natura degli uomini, ignoranti delle cagioni, si fantasticò intelligente. Questo è il principio di tutta l’idolatria.

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[110] Convenevolmente a sí fatto costume umano, gli uomini, ignoranti delle cagioni, ogni cosa straordinaria in natura che richiami la loro meraviglia, sono dalla loro natural curiositá naturalmente destati a desiderar di sapere che quella tal cosa voglia significare. Questo si truova l’universal principio di tutta la divinazione in tutte le innumerabili spezie diverse usate dalle gentili nazioni.

[111] I quali princípi, entrambi, come si vede, sono fondati sopra questa metafisica veritá: che l’uomo ignorante ciò che non sa estima dalla sua propia natura. Cosí l’idolatria e la divinazione sono ritruovati di una poesia tutta, qual dee essere, fantastica, entrambe uscite con questa metafora, che fu la prima a concepirsi da mente umana civile e la piú sublime di quante se ne formarono appresso: che ’l mondo e tutta la natura è un gran corpo intelligente, che parli con parole reali e, con estraordinarie sí fatte voci, avvisi agli uomini cose di che con piú religione voglia esser inteso. Che si truova il principio universale de’ sacrifizi appo tutti i gentili, con le cui cerimonie essi proccuravano ovvero spiavano superstiziosamente gli augúri.

Capo xv
Con una metafisica del genere umano si truova il gran principio della divisione de’ campi e ’l primo abbozzo de’ regni.

[112] Ma, siccome la giurisprudenza particolare d’un popolo, quale per esemplo la romana, in forza di una civil metafisica, deve ella entrare nella mente de’ legislatori ed avere la notizia de’ costumi e del governo di quel popolo per intender bene la storia del civil diritto col quale quel popolo si è governato innanzi e tuttavia si governa, cosí questa giurisprudenza del genere umano deve condursi da una metafisica, e quindi da una morale e politica, di esso genere umano medesimo per sapere con iscienza la storia del diritto natural delle nazioni.

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[113] E, innanzi ogni altra cosa, con la metafisica del genere umano si ritruova il gran principio della divisione de’ campi, la qual è il fonte del «dominio originario» che Grozio appella, onde derivarono tutti i domíni e tutti gl’imperi del mondo: talché nella guisa che si ritruoverá fatta essa divisione de’ campi, in quella stessa si ritruoverá essere avvenuta l’origine de’ regni. Onde meritevolmente dalla divisione de’ campi Ermogeniano incomincia a narrare la somma della storia del diritto natural delle genti. Ma nella maniera che esso, con gli altri giureconsulti romani, l’hanno dagli piú antichi ricevuta ed a noi tramandata, fa infinite difficultá nella ricerca della guisa: se i primi uomini si divisero tra essoloro i campi nella copia de’ frutti spontanei della natura o nella loro scarsitá. Se nella copia: come essi, senza dura necessitá, spogliarono l’ugualitá e quindi la libertá loro naturale, la quale, in questa stessa servitú nella quale siamo nati e cresciuti, ci si fa sentire dolce quanto è la natura medesima? Se nella scarsitá: come la divisione poté avvenire senza maggiori risse ed uccisioni di quelle che dicono aver partorito la comunione medesima? Perché, siccome la copia delle cose necessarie alla vita fa gli uomini naturalmente discreti e tra essoloro comportevoli, ove non curino altro che le cose necessarie alla vita; cosí, al contrario, la scarsezza, massimamente negli ultimi bisogni delle cose necessarie alla vita, gli uomini, anche umani nonché selvaggi, quali dovettero essere i violenti di Obbes, fa divenir fieri, perché devono contendere della vita.

[114] Per le quali gravi difficultá forse non si è potuto immaginare finora la divisione de’ campi essere addivenuta che per una di queste tre guise: o che i semplicioni di Grozio s’avessero fatto reggere volentieri da alcuno de’ sappienti che vuole Platone; o che gli abbandonati di Pufendorfio fossero stati costretti col timore di uno de’ violenti di Obbes a dovervi convenire; o che gli uomini ornati delle virtú del secolo dell’oro, quando la giustizia dimorava in terra, prevedendo i disordini che arebbono potuto nascere dalla comunione, essi stessi fossero stati benigni arbitri nel dividersi i loro confini: che ad altri non toccassero

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tutti fertili, ad altri tutti infecondi; ad altri affatto assetati, ad altri abbondanti d’acque perenni; e cosí, posti i termini, finché fossero poi sorti gl’imperi civili, gli si avessero con somma giustizia e fede conservati. Delle quali tre, l’ultima guisa è tutta poetica; la prima tutta filosofica; quella di mezzo è tutta di rei politici, i quali, per fondarsi la tirannia, si facessero séguito con parteggiare la libertá e facessero i disinteressati entrare nell’idee del ben comune. Ma il costume dei giá divisi ciclopi, come Polifemo il narra ad Ulisse, fu di starsi tutti soli e divisi per le loro spelonche, curarsi ciascuno la famiglia della sua moglie e de’ suoi figliuoli, e nulla impacciarsi de’ fatti altrui. Onde, nelle faccende dell’utilitá, restò privatamente a’ romani che a niuno si acquistasse diritto per istrania persona, talché tardissimo fu inteso il contratto della proccura; e gli spagnuoli, anche nell’imminenti strepitose rovine di Sagunto e di Numanzia, non intesero la forza delle allianze per unirsi contro i romani: costumi dell’intutto convenevoli alla prima origine della bestial solitudine, nella quale non intendevano gli uomini la forza della societá, per la quale insensati, non potevano avvertire se non solamente ciò che a ciascuno particolarmente appartenesse.

[115] Per tutte queste difficultá, la divisione de’ campi si dee andare a truovare unicamente nella religione. Perché, ove sono piú feroci e fieri, e tutti eguali non per altra ugualitá che di sí fatta loro feroce e fiera natura, se mai, senza forza d’armi, senza imperio di leggi, tra essoloro convengono, non possono aver convenuto che in forza e virtú d’una natura creduta superiore all’umana, sull’oppenione che tal forza superiore avessegli costretto di convenirvi.

[116] Quivi si medita il lungo raggirato lavoro della provvedenza, onde altri semplicioni di Grozio, come in quello stupore piú desti, si scossero a’ primi fulmini dopo il Diluvio, creduti avvisi della divinitá che essi stessi si finsero; occuparono le prime terre vacue; ivi con certe donne fermaronsi e, postati, vi fecero certe razze; vi seppellirono i loro morti; e, a certe occasioni pur offerte loro dalla religione, diedero fuoco alle selve,

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l’ararono, vi seminarono del frumento; e cosí posero i termini a’ campi, sparsi di fiere superstizioni, con le quali essi, feroci per le loro attenenze, [li] difesero col sangue degli empi vagabondi, che, non intendendo la forza della societá, tutti divisi e soli andavano a rubbare del frumento, sopra esso furto ammazzandogli. A’quai termini gli empi, che provennero da quei che non si erano risentiti da prima ad avvertire la divinitá (come si erano riscossi que’ da quali erano provenuti i signori de’ campi), e si avvezzi a non intenderne gli avvisi, non vennero all’umanitá se non dopo lunghi e molti sperimentati mali che partoriva tra essoloro la bestiale comunione per le violenze de’ licenziosi di Obbes, da’ quali i destituti di Pufendorfio per esser salvi, furono naturalmente portati a ripararsi dentro i termini posti a’ campi da’ pii, i quali, mercé della provvedenza, giá frattanto si ritruovarono col vantaggio, sopra di quelli, d’esser, questi, signori de’ campi e sappienti nella immaginata divinitá. Che è appunto quello che, nella storia del diritto romano, elegantemente Pomponio, ove narra l’origine delle signorie, dice: «rebus ipsis dictantibus regna condita».

Capo xvi
Si ritruova il principio della nobiltá.

[117] Quindi deve essere provenuta una naturale differenza di due nature umane in sí fatto stato: una nobile, perché d’intelligenti; un’altra vile, perché di stupidi; e la prima nobiltá essersi guardata, con giuste idee, riposta nella intelligenza, e intelligenza della divinitá, nella quale consiste il vero uomo. Che se qui alcuni si meraviglieranno che noi, con la metafisica, tra l’ombre e tra le favole vogliamo accertare i princípi del diritto naturale delle genti e quindi del civile romano, vediamo, per non turbargli, se con le nostre fantasie e col solo aiuto della memoria possiamo uscire da questo labirinto d’inestricabili difficultá,

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il quale è chiuso dentro i termini posti a’ campi per la finora immaginata divisione che ci è stata racconta.

[118] Di che risposta ella ci fornisce a chi ne domandi: come tutte le cittá sono surte sopra due ordini, uno di nobili, altro di plebei, se le cittá sursero tutte sopra le famiglie, e le famiglie innanzi le cittá erano tante minute repubblichette libere e sovrane, come pur l’udimmo testé narrare da Polifemo ad Ulisse? come altre poterono andare nella buona fortuna d’esser signore nelle cittá, altre dovettero cadere nell’infelicitá di essere della plebe? Se dicasi: — Perché altre si ritruovavano piú ricche di campi che altre, — le piú ricche dovevano essere le piú numerose, le quali gli coltivassero, fatta una volta essa divisione con giustizia: perché la ricchezza degli Stati non mai provenne da’ campi guasti, ma sempre da’ campi colti; laonde, in campi eguali, le famiglie moltiplicate possedevano i colti, gl’incolti quelle di pochi. Ma nelle cittá i pochi sono i ricchi, la moltitudine è povera: donde quelli sono i signori; questi, col numero, fan la plebe.

[119] Dipoi, nella natura delle faccende umane, non può intendersi uomo che vada in povertá per altre che per queste cagioni: o che dilapidi le sue fortune; o che le traccuri, sicché altri se ne ponga in possesso e, col lungo possesso, ne divenga padrone; o che da altri le sieno state o con frode o con forza occupate. Ma non poterono esservi pródigi in tale primo stato di cose, nel quale erano gli uomini paghi delle cose necessarie alla vita: talché non potevano esservi ancora questi nostri commerzi de’ campi, perché non portavano nessuno uso per l’agio e molto meno per lo lusso, che ancora non s’intendevano, per le quali cagioni si sono introdotti questi nostri commerzi de’ campi. Se i poveri gli avevano lasciati in abbandono, come frattanto avean potuto vivere e moltiplicare in gran numero, senza campi che dassero loro la sossistenza? Se gli si fecero con frode tôrre, per quali altre utilitá poterono essere indotti nella frode, in quella vita semplice e parca, che non di altro era contenta che de’ frutti non compri de’ propi campi? (Quindi veda Carneade, con gli scettici, come i regni hanno potuto

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incominciare dalla frode, di cui egli fa figliuole le leggi). Se i ricchi occuparono a forza i campi de’ poveri, come egli poté avvenire, quando i ricchi di campi erano i pochi e i poveri eran gli piú? (Quindi veda Obbes come i regni hanno potuto incominciar dalla violenza, di cui fa leggi le armi).

[120] Altre maniere, nella natura della vita civile, intendere ci è niegato, onde altri nobili, altri plebei componessero le cittá sopra le nostre fantasie della volgare divisione de’ campi. Onde i nostri abiti invecchiati delle oppenioni, che non altrove profondano le loro radici che nella fantasia e nella memoria, si debbono scuotere e dileguare alla forza di questo raziocinio.

[121] Se egli non da propia dissolutezza o infingardaggine, non da altrui frode o forza ebbero origine i regni, furono da altra mente ordinati, che non è il Caso di Epicuro, che divaga tra’ dissoluti e gli scioperati; non è il Fato degli stoici, che regna con la forza o aperta della violenza ovvero occulta della frode, che entrambe togliono l’arbitrio; ma è la Provvedenza per mezzo delle religioni. La cui quantunque pregiudicata intelligenza unicamente produsse la nobiltá con queste belle arti civili che adornano tutta l’umanitá migliore, le quali sono: vergogna di sé medesimi, che è la madre della gentilezza; castitá de’ matrimoni e, con essa insieme congionta, pietá verso i difonti, che furono le due sorgive perenni delle nazioni; industria di coltivare i campi, che è l’inesausta miniera delle ricchezze de’ popoli; fortezza di difendergli da’ ladroni, che è la inespugnabil ròcca degl’imperi; e finalmente generositá e giustizia di ricevere gl’ignoranti ed infelici, insegnargli e difendergli contro l’oppressioni, che è la salda base de’ regni.

[122] Appresso si mostrerá questi primi nobili per intelligenza della divinitá essere stati gli Orfei che, col loro esemplo di venerare li dèi negli auspíci, ridussero le fiere all’umanitá con la sapienza civile. La quale fu tramandata con giusto merito di tanta venerazione a’ vegnenti, che diede poi motivi agli addottrinati di farsi credere per sapienza riposta.

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Capo xvii
Si ritruova il principio dell’eroismo.

[123] Questo principio della nobiltá si ritruova essere lo stesso appunto che è il principio dell’eroismo delle antiche nazioni, ampiamente trammandatoci da’ greci nelle loro favole, ammonitoci con gran rottami di antichitá dagli egizi ed accennatoci nell’origine di Romolo da’ latini. Ma, scoverto ad evidenza dentro la storia romana antica, come qui appresso vedrassi, ne spiega la favolosa de’ greci, supplisce la tronca degli egizi e scuopre le affatto nascoste di tutte le altre antiche nazioni.

Capo xviii
Questa nuova scienza si conduce sopra una morale del genere umano, per la quale si truovano i termini dentro i quali corrono i costumi delle nazioni.

[124] Da sí fatta metafisica, di cui primogenita è la morale del genere umano, per la quale, dalla divisione de’ campi incominciando, dalla quale esse si cominciarono a distinguere tra essoloro, si profondano i termini dentro a’ quali corrono i costumi delle nazioni. Che sono i seguenti:

i

[125] Gli uomini comunemente prima attendono al necessario, indi al comodo, poi al piacere, in oltre al lusso o superfluo, finalmente al furore di strapazzare e di buttar via le sostanze.

ii

[126] Gli uomini, che non intendono altro che le cose necessarie alla vita, sono per un certo senso o sia natura filosofi. Quindi è la moderazione degli antichi popoli.

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iii

[127] Gli uomini rozzi e robusti non estimano piaceri che con lo esercitare le forze del corpo. Quindi sono i princípi de’ giuochi olimpici a’ greci, degli esercizi della campagna a’ romani, e le giostre e gli altri giuochi cavallereschi de’ tempi barbari ultimi, e, insomma, i giuochi congionti con la virtú negli usi della guerra. Allo ’ncontro, gli uomini che esercitano la riflessione e l’ingegno amano gli aggi e i piaceri de’ sensi per ristorarsi.

iv

[128] I popoli, prima fieri, dopo feroci o ritrosi a freno o governo, appresso divengono generosi, e finalmente anche inchinati a sopportare pesi e fatighe.

v

[129] Prima ne’ costumi son barbari, poi severi, indi umani, appresso gentili, piú in lá dilicati, finalmente dissoluti e corrotti.

vi

[130] Prima stupidi, indi rozzi, poi docili o capaci ad esser disciplinati, appresso perspicaci, dopo acuti e valevoli a ritruovare, finalmente arguti, astuti e fraudolenti.

vii

[131] Prima selvaggi e soli; poi stretti in fida amicizia con pochi; indi, per fini civili, attaccati a molti; finalmente, per fini particolari d’utile o di piaceri, dissoluti con tutti e, nelle gran folle de’ corpi, ritornano alla primiera solitudine con gli animi.

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Capo xix
Questa nuova scienza si conduce sopra una politica del genere umano con la quale si truovano i primi governi nello stato delle famiglie divini.

[132] Tal disegno che, quale si è poc’anzi detto, si guida sulla morale, tale si conduce sulla politica del genere umano. Ché, nello stato delle famiglie, i padri, come piú sperimentati, dovettero essere i sappienti; come piú degni, i sacerdoti; come posti in una somma potestá, della quale piú alta non vi era in natura, i re delle loro famiglie: talché nella persona di questi padri dovettero essere una cosa stessa sapienza, sacerdozio e regno. La qual tradizione prendendo Platone di séguito alla sapienza riposta de’ primi fondatori della Grecia, desiderò con van disio questo stato di cose nel quale i filosofi regnavano ovvero filosofavano i re. Ma il regno di questi padri, insieme col sacerdozio, andò in fatti di séguito alla loro sapienza volgare: perché, come sappienti in divinitá di auspíci, essi dovevano sacrificare per proccurargli e, come intelligenti degli auspíci, essi dovevano commandare le cose che credettero voler da essi gli dèi, e sopra tutto le pene, le quali, come si truova appresso, si esiggevano col consecrare i rei agli dii (il quale antichissimo costume fu intiero intiero portato nella legge delleXII Tavole al capoDel parricidio), anche fossero i figliuoli innocenti, ma fatti rei o dovuti per voto, come fu quello da Agamennone fatto della infelice Ifigenia. Ma il vero Iddio, nel fatto del sacrificio di Abramo del di lui figliuolo Isacco, dichiarò espressamente esso non dilettarsi punto di vittime umane innocenti. Del voto di Iefte tutti i Padri confessano esser ancor nascosto il misterio nell’abisso della provvedenza divina. Basta, per le differenze che in quest’opera si pruovano degli ebrei e delle genti, che non Iefte ma Abramo fu il fondatore del popolo di Dio.

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Capo xx
Si truovano i padri primi re monarchi nello stato
delle famiglie.

[133] L’ultima propietá delle tre restò a’ padri lungo tempo tra’ romani. Appo i quali, per la legge delleXII Tavole, i padri di famiglia avevano il diritto della vita e della morte sopra le persone de’ loro figliuoli; e, ’n conseguenza di questa infinita potestá sopra le persone, ne avevano un’altra, pur infinita, sopra gli acquisti: — che tutto ciò che acquistavano i figliuoli acquistassero a’ loro padri; — e, con dominio dispotico, i padri ne’ testamenti disponevano della tutela delle persone de’ lor figliuoli come di robe (che pur intiero serbò a’ padri di famiglia la medesima legge delleXII Tavole al capoDe’ testamenti «Uti paterfamilias super pecuniae tutelaeve rei suae legassit, ita ius esto»). Che son tutti troppo espressi vestigi della loro libera ed assoluta monarchia nello stato delle famiglie.

[134] Questa forma di regni ciclopici, uscita dalla natura de’ primi padri gentili nello stato delle famiglie, ignorata, fece che Platone, sull’idea della sapienza riposta de’ fondatori dell’umanitá, non combinò questo gran principio di tutta la scienza politica con quello che pur esso avvertito aveva nel Polifemo d’Omero (ché ivi ci è discritto lo stato delle famiglie); Grozio travaglia in ispiegar la guisa delle prime monarchie con giustizia; i rei politici pratici o, con l’uomo violento di Obbes, le fondano sulla forza o, con l’uomo semplicione de’ sociniani, le fondano sull’impostura. Ma né per la forza né per l’impostura poterono nel mondo a patto veruno nascere le prime monarchie, per le insuperabili difficultá che se ne sono fatte sopra dintorno alla divisione de’ campi. Le quali oppinioni da qui innanzi si riprendono coi fatti delle seguenti scoverte, che in forza d’una severa analisi si fanno assolutamente sopra le monarchie, nate da sé nelle persone di sí fatti padri nello stato delle famiglie.

85 ―

Capo xxi
Quindi si ritruovano i primi regni, eroici,
nello stato delle prime cittá.

[135] Perché uomini di fresco passati da una sforzata libertá ad una libertá regolata non da altri che dalla divinitá e, ’n conseguenza, infinita a riguardo di altri uomini, qual era appunto de’ padri nello stato delle famiglie sotto il governo degli dèi, devono lungo tempo ritenere il feroce costume di vivere e morir liberi. E, se tal infinita libertá è conservata dalla loro patria, che loro conservi i loro dèi, per gli quali essi hanno una infinita potestá sopra altri uomini, saranno naturalmente portati a morire per le loro patrie e per la loro religione. Che è la natura degli antichi eroi, dalla quale uscirono i primi regni eroici.

[136] E qui si scuopre il principio di quello di che la storia romana narra gli effetti, ma né Polibio né Plutarco né Macchiavelli ne scoversero la cagione: che la religione fu quella che fece tutta la romana grandezza. Perché la religione degli auspíci, i quali i padri nella tavola undecima delle Dodici avevano chiusi tra essoloro, fece tutta la romana magnanimitá nella plebe di voler essere uguagliati co’ padri in casa nelle ragioni degli eroi — che erano nozze solenni, comandi d’armi e sacerdozi, tutte dipendenze degli auspíci — e quindi co’ medesimi in guerra di gareggiare in valore per meritarle. E in pace i Curzi si gittano nelle fosse fatali, in guerra i Deci a due a due si consagrano per la salvezza degli eserciti, per appruovare alla plebe, con le loro vite, che essi regnavano per gli auspíci. Ché fu a tutte le antiche nazioni in ogni guerrapro aris focisque pugnare comun costume: di vincere o morire co’ propri dèi.

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Capo xxii
Principio della virtú eroica.

[137] E qui si scuopre il principio della virtú eroica, la quale non si poteva affatto intendere che uomini barbari e feroci (propietá indivisibili di natura umana di corte idee e perciò poco valevole ad intendere universali ed eternitá) si consecrassero per le loro nazioni per disiderio d’immortal fama, che non si acquista che con grandi benefíci fatti ad intiere nazioni. Cosí sono state finora guardate le azioni degli antichi eroi dagli uomini di menti spiegate che vennero appresso dopo i filosofi: quelle che, in loro ragione, non si facevano dagli eroi degli antichi tempi che per troppo affetto particolare che avevano alle propie sovranitá, conservate loro sopra le loro famiglie dalla loro patria, che perciò fu cosí appellata, sottintesovi «res», cioè «interesse di padri». Come poi negli Stati popolari fu detta «respublica», quasi «respopulica», «interesse di tutto il popolo».

Capo xxiii
Princípi di tutte e tre le forme delle repubbliche.

[138] A sí fatta politica del genere umano s’appartengono quelle massime, o sieno piú tosto sensi umani, intorno a governare e ad esser governati: che gli uomini prima vogliono la libertá de’ corpi; poi quella degli animi, o sia libertá di ragione, ed essere uguali agli altri; appresso soprastare agli uguali; finalmente porsi sotto i superiori. In questi pochi sensi umani menarono le prime loro linee tutte le forme de’ governi. Perché dall’ultimo vengono i tiranni, dal penultimo le monarchie, dall’avantipenultimo le repubbliche libere, dal primo di tutti le repubbliche eroiche nella loro forma aristocratiche, le quali, con le contese eroiche che qui appresso si narreranno, sopra il processo di questi sensi umani, dipoi passarono in repubbliche

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libere, e finalmente si fermarono nelle monarchie, ritornando a’ loro primi princípi de’ padri monarchi. Sopra i quali princípi si pone in nuova comparsa tutta la storia romana antica.

Capo xxiv
Princípi delle prime repubbliche aristocratiche.

[139] Ma gli uomini son disposti ad usare umanitá, ove dal benefizio vedono ridondar loro alcuna propia utilitá. Dipoi i forti non s’inducono a spogliarsi degli acquisti che per forza, e, quantunque per forza, non ne rilasciano senonsé ’l meno che essi possono, e pur tratto tratto, non tutto insieme. Oltracciò, la moltitudine desidera leggi ed ugualitá, ed i potenti con difficultá soffrono pari nonché superiori. Quindi repubblica aristocratica ovvero di nobili non può nascere che da una estrema comune necessitá che gli agguagli e ponga in soggezion delle leggi. Finalmente una forma di governo che porta seco che gl’ignobili non vi abbiano parte alcuna non può reggere né durare, se essi non vi godano almeno una sicurezza de’ commodi naturali per lo mantenimento della lor vita. Su questi princípi si scuoprono i regni eroici essere stati governi aristocratici, nati dalle clientele per due antichissime leggi agrarie che quindi a poco si scuopriranno.

Capo xxv
Scoverta delle prime famiglie di altri
che di soli figliuoli.

[140] Perché dentro questi cinque testé noverati sensi politici del genere umano si ritruovano le prime antichissime famiglie essere state d’altri che di soli figliuoli, anzi propiamente dette di «famoli» o servidori, i quali κῆρυκεης restaron detti a’ greci i servidori degli eroi. Le quali famiglie non si sono finora

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potute intendere sopra la divisione de’ campi, quale finora è stata ricevuta, per le molte e gravi difficultá che sopra si sono fatte ed appresso se ne faranno. Sí fatti famoli si ritruovano essere stati quei che, tra le risse della bestial comunione (che veramente fu la comunione che partoriva le risse), per esser salvi al punto del loro bisogno, si ricoverarono alle terre de’ forti.

Capo xxvi
Determinazione delle prime occupazioni,
usucapioni e mancipazioni.

[141] Le quali, giá lunga etá innanzi, fin da’ primi fulmini del creduto Giove, in Egitto, in Grecia, in Italia, erano state occupate da quei primi che per timore della divinitá si ristarono dal bestiale divagamento, e da’ lor discendenti erano state dome con la coltura; e sí dalla religione i postati erano giá divenuti e casti e forti. Qui si scuoprono le prime occupazioni, le prime usucapioni e le prime mancipazioni delle genti. E, oltre le prime donne che erano state tratte a forza da’ primi uomini nelle grotte, che furono le prime moglimanucaptae, queste furono le prime terre anchemanucaptae, ovvero dome a forza. E le occupazioni delle terre vacue, l’usucapioni e le mancipazioni, ovvero gli acquisti fatti a forza, sono certamente tutte e tre modi di legittimare le sovrane signorie appo tutte le nazioni.

Capo xxvi
Scoverte delle prime vindicazioni e sí de’ primi duelli,
ovvero delle prime guerre private.

[142] L’avevano di piú i forti difese da’ vagabondi empi che volevano rubbare le messi, i quali, come quelli che non intendevano la forza della societá, venendo tutti soli a rubbarle, facilmente i postati animosi con le loro attenenze occidevano in

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sul furto. E queste furono le vindicazioni del primo mondo, come piú appresso si spiegherá. Nel quale antichissimo costume si scuopre l’origine de’ duelli egualmente appo gli ebrei, greci e latini: il quale, piú de’ latini e de’ greci, dovette essere appo gli ebrei, i quali, per la certa antichitá della vera religione sopra le altre tutte de’ gentili, dovettero difendere i loro campi da’ ladronecci de’ vagabondi empi. Egli è quel diritto: che sia lecito uccidere il ladro di notte in ogni modo; di giorno, se egli si difenda con armadura. Il quale non è d’uopo che né i pareggiatori del diritto ateniese da Grecia, né quello delle leggi mosaiche con le romane fin da Palestina, il traggittino in Roma, perché il dettò la natura a tutte le nazioni — ché, appo tutte, fu il primo abbozzo delle guerre, che furono le private; onde le pubbliche infino a’ tempi di Plauto furon dette da’ latini «duella» — e, ritornati i tempi barbari, fu dalla Scandinavia risparso di nuovo per tutta Europa.

[143] Di tal maniera si posero i primi termini a’ campi che bisognavano difendersi con la forza e con una fiera religione, come appresso si spiegherá. Tanto ebbe facile l’uscita la divisione de’ campi fatta di buon concerto per gl’interpetri della ragion civile romana!

Capo xxviii
Principio delle genealogie e della nobiltá
delle prime genti.

[144] In sí fatte terre propie i postati, risentiti una volta finalmente della schifezza, onde marcissero bruttamente sopra la terra i cadaveri de’ loro attenenti, dovettero seppellirgli secondo l’«ordine — che elegantemente Papiniano dice — della mortalitá» e, come altrove si è dimostro, con certi ceppi imposti sopra i cadaveri, onde φύλαξ a’ greci, «cippus» a’ latini significasepolcro ad entrambi. Per lo quale atto di pietá, appo i latini, da «humare» venne principalmente detta «humanitas»: onde forse gli ateniesi, tra’ quali Cicerone afferma che cominciò

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il costume di seppellire i difonti, furono essi gli «umanissimi di tutta la Grecia», ed Atene madre e nudrice della filosofia e di tutte le belle arti dello ingegno.

[145] Col volgere degli anni, poi, da tali ordini di ceppi, in lungo e per traverso disposti, dovettero i vegnenti avvertire le genealogie de’ trasandati e, con essi, la nobiltá delle loro prosapie. Onde da «ceppo» (φύλαξ) dovette a’ greci esser detta φύλή la tribú; e, con espressione propia dell’infanzia delle lingue, i nobili dovettero dire essere figliuoli di quelle terre ove si ritruovavan postati. Onde i giganti ci si narrano da’ poeti essere stati «figliuoli della Terra», e i nobili appo i greci si dissero «generati dalla Terra» (ché tanto lor suona «giganti»): appunto come, appo i latini antichi, detti «indigenae», quasi «inde geniti» da’ quali in accorcio restaron detti «ingenui» per «nobili».

Capo xxix
Scoverta de’ primi asili e de’ princípi eterni
di tutti gli stati.

[146] Qui si scuopre l’origine de’ primi asili. De’ quali un gran frantume di vecchissima antichitá gittò Tito Livio dentro il luco di Romolo, dove finora è stato sepolto: che diffinisce l’asilo essere stato «vetus urbes condentium consilium», con cui Romolo e i padri suoi compagni dicevano, a coloro che nella sua nuova cittá rifuggivano, esser essi nati da quel luco o bosco sacro dove egli era lor aperto l’asilo. Ciò Livio credette consiglio o arte di tutti i fondatori delle cittá, sulla falsa oppenione che tutti i regni fossero fondati dall’impostura. Quindi fu che l’attaccò sconciamente a Romolo, nel quale avvertir doveva essere troppo sciocca impostura fingere sé e i suoi compagni figliuoli di una madre che non avesse altri saputo partorire che maschi: onde, per aver donne, li fu poi bisogno di rapir le sabine. Ma, ne’ primi fondatori delle cittá del Lazio e delle altre di tutto il mondo delle nazioni, egli fu non impostura ma natura,

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e magnanima natura di eroi che non san mentire, la qual è arte codarda e vile, perché con veritá intendevano esser essi figliuoli di que’ seppelliti, da’ quali avevano ancora le loro donne. Cosí quivi, oltre l’una parte dell’eroismo, che era di atterrare i ladroni, questa è l’altra di soccorrere i pericolanti che domandano mercé. Laonde i romani furono gli eroi del mondo per queste due arti:

Parcere subiectis et debellare superbos.

[147] E qui si vendica il principio eterno de’ regni dalle due volgari accuse, una dell’impostura, l’altra della forza: perché tutta fu umanitá generosa che diede loro i primi princípi, alli quali si devono richiamare tutti gli altri appresso, quantunque con impostura o forza acquistati, perché reggano e si conservino. I quali princípi non videro i politici quando stabilirono quella massima tanto celebre: che «gli Stati si conservano con quelle arti con le quali sono stati acquistati». I quali, sempre e dapertutto, si sono conservati con la giustizia e con la clemenza, le quali, senza dubbio, non sono né impostura né forza.

Capo xxx
Scoverta delle prime clientele e l’abbozzo
delle rese di guerra.

[148] Tutte le anzi fatte scoverte bisognavano per ritruovare la prima e vera origine delle clientele, fondate tutte in ciò: che i vagabondi deboli, rifuggiti alle terre de’ forti, vi furono ricevuti sotto la giusta legge: che, poiché vi vennero per camparvi la vita, la vi sostentassero con le opere camperecce, di cui i signori arebbono loro insegnata l’arte. Onde le clientele si osservano un costume universale di tutte le antiche nazioni, delle quali particolarmente la storia romana narra con tutta la

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spiegatezza, appresso Cesare e Tacito, essere state piene le Gallie, la Germania, la Brettagna, allora ancor fresche nazioni, come di caterve di vassalli sotto certi loro príncipi e capi. E si legge espressamente costume del popolo di Dio, siccome piú de’ gentili giusto e magnanimo, dai cui patriarchi dovettero rifuggire nell’Assiria i clienti malmenati da’ caldei per godere una servitú piú benigna: poiché Abramo con la sua famiglia, che dovette essere a lui stata lasciata da’ suoi maggiori, fa guerra coi re confinanti.

Capo xxxi
Scoverta di feudi ne’ tempi eroici.

[149] Quindi si ritruova diritto universale delle genti eroiche una certa spezie di feudi. De’ quali vi sono due luoghi, pur troppo sopra ogni altro evidenti, in Omero. Uno dell’Iliade, dove Agamennone per gli ambasciatori offre ad Achille una delle sue figliuole, qual piú gli aggrada, in moglie con in dote sette terre popolate di bifolchi e di pastori. L’altro, nell’Odissea, dove Menelao dice a Telemaco, che va ritruovando il padre Ulisse, che, se egli fosse capitato nel suo reame, esso gli arebbe fabbricato una cittá e da altre sue terre vi arebbe fatto passare i vassalli, che l’avessero onorato e servito. Talché dovette essere una spezie di feudi — appunto quali le genti del Settentrione risparsero per l’Europa — da principio con quelle stesse propietá che tai feudi ritengono tuttavia nella Polonia, Danimarca, Littuania, Svezia, Norvegia, e restarono nelle leggi a’ romani di certi vassalli, che son detti «glebae addicti», «adscripticii», «censiti». Da’ quali feudi si è dimostrato altrove aver avuto incominciamento i diritti civili di tutte le nazioni. Onde Giacomo Cuiacio ritruova in sommo grado acconce tutte l’espressioni della piú elegante giurisprudenza romana a significare la natura e le propietá de’ feudi nostrali; e né pur Grozio

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seppe vederne la cagione, il qual estima che ’l diritto feudale sia un diritto novello delle genti d’Europa. Il qual è, in fatti, un diritto antichissimo, con l’ultima barbarie de’ tempi per l’Europa rinnovellato.

Capo xxxii
Punto del nascimento delle repubbliche eroiche
dalle clientele.

[150] E si ritruova qui il punto del nascimento delle prime repubbliche, delle quali da niuna delle tre spezie conosciute si poteva far innanzi nessuna immagine. Le quali sursero agli ammotinamenti di queste famiglie di clienti, attediati di coltivare sempre i campi per li signori, da’ quali essendo fino all’anima malmenati, gli si rivoltarono contro, e da’ clienti, cosí uniti, sursero al mondo le prime plebi. Onde, per resister loro, furono i nobili dalla natura portati a strignersi in ordini, che furono i primi nel mondo, sotto un capo, che naturalmente surse tra loro piú robusto, che doveva reggergli e, piú animoso, incoraggirgli. E questi sono i re, de’ quali pur ci venne la tradizione che si eleggerono per natura.

[151] Quivi, di dentro al desiderio che ebbe la moltitudine di esser governata con giustizia e clemenza, si apre la grande comune origine de’ governi civili e, ad un fiato, si scuopre la prima base di tutte le cittá, surte sopra due ordini, uno di nobili, un altro di plebei, che finora non si è potuto ragionare sopra le famiglie intese di soli figliuoli. Onde sono stati cosí confusi ed oscuri i princípi co’ quali i filosofi hanno finora ragionato della politica ovvero dottrina civile.

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Capo xxxiii
Scoverta delle prime paci e de’ primi tributi in due antichissime leggi agrarie, fonti una del naturale, altra del civile, ed entrambe del sovrano dominio.

[152] Incomincia a correre questa antichissima sorta di repubbliche sopra un’antichissima legge agraria, che i nobili dovettero accordare a’ plebei per soddisfargli: che essi avessero assegnati campi, dove sostentassero la lor vita, con pagare parte de’ frutti o contribuire in fatighe, come un censo a’ signori. Che si truova tra’ greci essere stata la decima d’Ercole e si scuoprono i primi, da’ latini detti «capite censi», che dovettero contribuire a questi signori con le loro giornate.

[153] Ma, non osservata, col volger d’anni, tal legge da’ nobili a’ plebei, si fermarono queste repubbliche finalmente e stiedero sopra un’altra legge agraria: che i plebei godessero certo e sicuro dominio de’ campi assegnati loro, con l’obbligo de’ signori a doverglivi mantenere, e col peso, a vicenda, de’ plebei che a loro spese dovessero servire a’ signori ne’ lor bisogni, e sopra tutto nelle guerre. Siccome sotto essi consoli se ne lamentano pur troppo i plebei nella storia romana.

[154] Nel fondo di queste due leggi si ritruovano le origini di tutte e tre le spezie del dominio: una, del naturale o bonitario, o sia de’ commodi o de’ frutti; altra, del civile o quiritario, o sia de’ poderi (cosí forse agl’italiani dalla forza, come a’ latini detti «praedia» da «praeda»), o sia dominio de’ suoli che possono occuparsi con l’armi, l’uno e l’altro privato; e la terza, del dominio de’ fondi, detto ora «eminente», veramente civile o pubblico, cioè sovrano di esse cittá, che risiede nell’animo delle potestá civili che le governano: che è ’l principio di tutti i tributi, stipendi, gabelle. E l’una e l’altra legge si truoveranno gli abbozzi delle paci.

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Capo xxxiv
Scoverta delle repubbliche eroiche uniformi tra’ latini,
greci, asiani, e di altri princípi de’ romani comizi.

[155] Quindi si ritruovano questi antichissimi regni eroici sotto nomi di «regni di cureti» sparsi per tutte le nazioni antiche, e, sotto nome di «regni di Eraclidi», si truovano sparsi per tutta l’antichissima Grecia, mercé di due gran frantumi di antichitá d’istoria del tempo oscuro de’ greci.

[156] Uno, che i cureti o sacerdoti armati d’aste (dalle quali son detti i «quiriti» da’ latini), — che, col fragore dell’armi percosse, attutarono i vagiti di Giove bambino, perché non fosse udito da Saturno, che divorarlosi voleva (dal quale nascondimento dissero i filologi latini, ma indovinando, essere stato appellato il Lazio), — uscirono dalla Grecia in Saturnia o Italia, in Creta (dove, perché isola, duraron piú) e nell’Asia (che deesi intendere dell’Asia greca, cioè della minore). Perciocché i greci, usciti di Grecia, osservarono, per queste antiche nazioni del mondo, regni uniformi a quelli descritti da Omero con due sorte di adunanze eroiche: altre che venivano sotto nome di βουλή, nelle quali convenivano i soli eroi; altre nelle quali i plebei si radunavano per sapere le determinazioni fatte dagli eroi, le quali erano appellate col nome di ἀγορά: delle quali una è l’adunanza che Telemaco, fatto giá maggiore, chiama affinché i suoi sudditi sappiano ciò che esso aveva risoluto di fare contro de’ proci. Co’ quali governi eroici di Omero troppo acconciamente convengono le storie di queste voci latine: con le quali «comitia curiata» furon dette le adunanze de’ sacerdoti per diffinir cose sagre, perché dapprima con l’aspetto delle divine erano guardate tutte le cose umane, nonché le sole leggi, come qui appresso diremo; — «centuriata», le adunanze nelle quali si comandavano le leggi (dalle quali certamente restarono detti «centuriones» capitani di cent’uomini d’arme), perché da coloro unicamente che avevano la

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ragione dell’armi si tenevano le adunanze nelle quali si comandavano le leggi, che erano sotto il genere di adunanza che è detta da Omero βουλή, nella quale si univano i soli eroi; — finalmente «tributa comitia» le adunanze plebee, che non avevano niuna ragion d’usar armi, ma erano obbligate a pagare il tributo, perché, come adunanze di coloro che pagavano il tributo, non avevano la ragione sovrana dell’armi, ma solo si univano per sapere che loro comandassero le leggi, sicché delle loro adunanze, che erano le ἀγοραί di Omero, dovettero da principio con tutta propietá dirsi «plebiscita», che tanto suona quanto Cicerone nelle sueLeggi gli voltarebbe «plebi nota». Talché «curia» non giá fu da’ latini dettaa «curanda republica» — che non è verisimile de’ tempi che gli uomini operavano per senso, piú tosto che riflettevano — ma da «quiris», «asta», che era unione di nobili i quali avevano il diritto d’armeggiar d’asta: siccome altrove mostrammo che da χείρ/ la «mano», dovette la voce κυρία significare lo stesso agli antichissimi greci. Dalle quali cose latine, composte con le greche di Omero, può prendere altri princípi l’intricata materiade comitiis romanis, come qui appresso sará dimostro. Da tutto ciò si ritruova il diritto de’ quiriti romani essere diritto delle genti non solo del Lazio ma della Grecia e dall’Asia, sopra il quale ebbe i suoi príncipi il governo romano: il qual diritto si osserva d’assai diversa natura ne’ suoi primi tempi da quella che restò a’ giureconsulti romani ultimi.

[157] L’altro gran rottame di greca antichitá egli è che gli Eraclidi, o sien quelli della razza d’Ercole, erano prima sparsi per tutta Grecia, anche per l’Attica, dove poi surse la repubblica libera d’Atene; ma finalmente si ridussero nel Peloponneso, dove perserverò la repubblica di Sparta, che tutti i politici riconoscono essere stata aristocratica, e tutti i filologi convengono che sopra tutti gli altri popoli della Grecia ritenne assaissimo de’ costumi eroici. La quale fu un regno degli Eraclidi ovvero di razze erculee, che conservavano il patronimico d’Ercole, al quale si eleggevano due re a vita, che ministravano le leggi sotto la custodia degli efori.

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Capo xxxv
Scoverta del regno romano eroico ovvero aristocratico.

[158] Tale appunto si ritruova il primo regno romano nell’accusa di Orazio, nella quale il re Tullo Ostilio ministra la legge del parricidio al reo sotto la custodia de’ duumviri, che gli dettino contro quella pena che essi stimassero giusta. Perché l’appellagione che Tullo permette ad Orazio condannato: — che faccia richiamo all’adunanza del popolo — quanto è consiglio di ogni altro che di re monarchico di soggettare la sovranitá alla moltitudine, tanto egli è propio di re aristocratico, che vuol soggettare l’ordine regnante alla moltitudine: come ne narra la storia che dovettero i duumviri contendere con esso reo appo il popolo dintorno alla giustizia della da loro data sentenza. Perocché, essendo Tullo di genio bellicoso, non dissimigliante da Romolo, come pure il descrive Livio, ed avendo in animo di regnare nell’armi, siccome quello che si era professato di manomettere l’Esperia tutta (i quali re sono sospetti a’ governi degli ottimati che non, istabilitasi la fazion militare, voltino contro lo Stato quelle armi che ricevettero per la di lui difesa), egli — nella condannagione indegna di cotanto inclito reo, che col suo valore e consiglio aveva esso solo, con raro esemplo, salvata la romana libertá e sottomesso a quel di Roma il regno di Alba — afferrò la plausibile occasione di provvedere per sé, perché non fosse fatto a esso il medesimo che, per un timore simigliante, era stato fatto da’ padri a Romolo, solamente per lo di lui alquanto aspro talento, che non facilmente da’ padri si maneggiava.

[159] Questo è in quanto il regno romano finora, in capo a’ filologi, ha avuto del monarchico. Vediamo ora per quanto egli è stato da’ medesimi mescolato di libertá popolare sopra il censo ordinato da Servio Tullio.

[160] Del quale è forte da dubitare non sia una decima d’Ercole imposta a’ campi de’ signori, piú tosto che l’estimamento de’

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patrimoni, quale fu quello della repubblica libera — perché di ogni altro re era consiglio che di monarca di ordinare quel censo, che è ’l primo e principal fondamento della popolare libertá degli Stati: che una determinata ricchezza di patrimoni innalzi i cittadini a poter prendere i primi onori nelle loro cittá; — se quello stesso censo che, quarant’anni dopo cacciati i re, comincia a farsi sentire in Roma, sopra ogni altra idea cominciò che sopra quella di pianta, come poi fu, della libertá popolare. Perché, come pur narra la storia, i nobili sdegnano amministrarlo, come inferiore alla loro dignitá, quando poi la piú riputata carica per dignitá fu quella de’ censori; i plebei non l’avvertiscono che pur era la porta che si apriva loro per tutte le somme cariche, la quale i nobili per tener chiusa a’ plebei, tanto si oppongono nella contesa di comunicarsi il consolato alla plebe e, dopo comunicato, usano tante arti perché i plebei non arricchiscano, affinché non vi possano pervenire, quante la romana storia pur ci narrò. Perché Giunio Bruto, certamente tanto saggio quanto la storia il racconta, nell’ordinare lo Stato, cacciati i re, il doveva richiamare a’ suoi princípi; e sí infatti egli fece. Rinforzò l’ordine senatorio con accrescervi di piú il numero, di molto scemato per gli ammazzamenti de’ senatori fatti fare dal Superbo; con l’odio de’ re abolí le leggi regie, tra le quali era pur quella dell’appellagione al popolo, che, dalla intercessione de’ tribuni in poi, fu l’altra ròcca della romana libertá; talché, morto Bruto, la rimise Valerio Publicola. (E fu fato popolare della casa Valeria, oppressa da’ nobili l’appellagione, di riporla a’ plebei due altre volte dentro i tempi stessi della repubblica sotto i consoli: la seconda, cacciati appena i decemviri; la terza, nel seicencinquansei dopo Roma fondata). E la severitá delle leggi, della quale si lamentano i giovani congiurati di riporre il Superbo è propia del governo de’ nobili, come essi meschinelli, nella libertá immaginata da’ filologi, sperimentarono sui loro capi. Tra’ quali Bruto, quanto fortissimo console tanto infelicissimo padre, fece decapitare due suoi figliuoli, col quale splendido parricidio chiuse la sua casa alla natura ed aprilla all’immortalitá.
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Perché le pene benigne sono propie o de’ re monarchi, i quali godono udir le laudi della clemenza o delle repubbliche libere. Onde Cicerone riprende, come crudele, contro di Rabirio, privato cavaliere romano, reo di ribellione, quella stessa pena: — «I, lictor, colliga manus», — la qual, dettata contro di Orazio, reo di una collera eroica, che non sopportò vedere la sorella, sulle spoglie del suo sposo Curiazio, da esso ucciso, piangere della pubblica felicitá, pure il popolo istesso, a cui esso aveva appellato, con la nobile espressione di Livio, l’assolvé «admiratione magis virtutis quam iure caussae». Ma pur, alla perfine, esso Livio apertamente cel lasciò scritto che con l’ordinamento de’ consoli annali non si cangiò di nulla il romano governo, chiamandolo «libertatis originem inde magis quia annuum imperium consulare factum est, quam quod deminutum quicquam sit ex regia potestate». Talché Bruto ordinò due re spartani, che però durassero non a vita ma un anno: come «reges annuos», nelle sueLeggi, appella i consoli, che esso ordina nella sua repubblica sull’esemplo della romana, Cicerone.

Capo xxxvi
Si scuopre il vero dintorno alla legge delle XII tavole, sopra il quale regge la maggior parte del diritto, governo ed istoria romana.

[161] Quindi si scuopre essere state tutt’altre le clientele con le quali Romolo ordinò la cittá, che esso non ritruovò ma ricevé dalle genti piú antiche del Lazio; che tutt’altro fu il censo che ordinò Servio Tullio da quello che s’introdusse nella repubblica libera e vi restò; e che con la legge delleXII Tavole si trattò di tutt’altro da quello che si è finora creduto. Romolo ordinò le clientele dentro l’asilo aperto a’ ricoverati sopra il diritto del nodo della coltura, per la quale con l’opere camperecce essi vi sostentassero la vita. Servio Tullio vi ordinò la prima legge agraria sopra il diritto del nodo del «dominio

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bonitario» (che dicesi), sotto il peso del censo, che fu la decima d’Ercole a’ greci, da pagarsi a’ signori de’ campi assegnati loro. Finalmente la legge delleXII Tavole si fissò col nodo del «diritto ottimo» (che chiamano) o sia civile ovvero solenne e certo, col peso di andare i plebei a servire in guerra a loro spese, come pur troppo essi plebei, dopo tal legge, se ne lamentano nella storia romana.

[162] Laonde tutto l’affare di cotal legge si contiene nel quanto celebre altrettanto finora non inteso capo, conceputo con quelle parole oscurate dentro le tenebre della barbara antichitá de’ romani: «Forti sanati nexo soluto idem sirempse ius esto», che, indovinando, han pur ridutto in cotal somma:De iuris aequalitate; ma, storditi gl’interpetri, per altro eruditissimi, da cento vaghe ed incerte autoritá de’ filologi, l’hanno interpetrato contenere l’egualitá de’ cittadini romani co’ soci latini ribellati e poi ridutti di nuovo all’ubbidienza. Tempi propi invero, in quello sommo rigore aristocratico — che, come sopra vedemmo, essa plebe romana era una moltitudine di non cittadini — di accomunarsi la cittadinanza agli stranieri! quando, nel tempo della libertá, nonché giá tutta stabilita, ma di piú giá incominciata a corrompersi, Livio Druso, che, per ambiziosi disegni, la promise a’ soci latini, esso e vi morí oppresso dalla gran mole di tanto affare, e ne lasciò in retaggio la guerra sociale, che fu la piú pericolosa di quante ne sostennero mai, innanzi e dopo, i romani.

[163] Servio Tullio aveva ordinato che a’ plebei, sin da Romolo attediati finalmente di coltivar sempre i campi per gli signori, questi glieli assegnassero sotto il peso del censo. Ma i nobili tratto tratto spogliandone i plebei — siccome quelli che ne avevano il dominio bonitario o naturale, che tanto essi godevano quanto col corpo gli occupavano — fin dal dugencinquansei, appena avvisata la morte di Tarquinio Superbo, che teneva in freno l’insolenza de’ nobili, cominciò ad ardere la contesa del nodo (onde essi pareggiatori attici perciò si vergognano smaltirlo per mercatanzia venute da Atene), perché avara e crudelmente l’esercitavano i nobili sopra i plebei, non solo togliendo

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loro i campi dianzi assegnati, ma per gli debiti tenendogli miseramente dentro i lavoratoi seppelliti a travagliare in loro servigio. Si sedò alquanto l’incendio con l’esiglio che la furiosa ed ingrata plebe diede al benemerito Coriolano, che, in tal contesa, i plebei — i quali non eran contenti del dominio naturale per lo censo di Servio Tullio e pretendevano il dominio civile de’ campi — aveva voluto ridurre allo stato, tutto opposto, del nodo ordinato da Romolo, che sostentasserovi la vita con l’opere camperecce. Ché tanto importava quel motto: — che i plebei andassero a zappare, — per lo quale il mandarono essi in esiglio: altrimente, che stolto fasto de’ plebei, con tanta ingratitudine — a cui seguí tanto pericolo che poi sovrastò a Roma, quanto ognun sa, dalla vendetta che ne arebbe presa Coriolano, se non le pietose lagrime della madre e della moglie placato l’avessero — risentirsi di un detto, del quale facevano pregio e vanto, in que’ tempi, tutti i nobilissimi in Roma, di esser occupati ne’ villerecci lavori!

[164] Rincrudelí l’incendio nell’anno dugensessansei, che Spurio Cassio promulgò la legge agraria seconda di assegnarsi i campi alla plebe con tutta la solennitá e sicurezza della ragion civile, e ne fu perciò condannato a morte dal senato come primo divolgatore del diritto de’ padri alla plebe e, come alcuni pur dissero, esiggendo l’empia pena esso padre: che è veramente la severitá delle leggi che odiavano i giovani congiurati di riporre il Superbo. Si crede volgarmente essersi sedati questi tumulti con una colonia di plebei menata da Fabio Massimo. Ma, come l’agraria di Cassio, cosí la colonia di Fabio non furono di quelle de’ tempi romani certi e conosciuti, messe sú da’ Gracchi per arricchire la plebe, quando erano poveri, e ne facevano vanto, essi signori, come a suo luogo qui appresso si mostrerá. Onde la colonia menossi, ma i romori non pur cessarono.

[165] Frattanto è da riflettersi che per cotal legge agraria si fanno tante mosse e tante rivolte e per la quale da Coriolano sovrastò a Roma tanto pericolo, in tempo che ella dalla ròcca del Campidoglio poteva guardare i brevissimi confini del suo imperio

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nascente, (che pochi anni innanzi oltre a venti miglia non si stendeva), il popolo si poteva numerare con gli occhi e i costumi erano semplici e parchi; e, poi che ella aveva distese le conquiste oltre l’Italia e ’l mare nelle provincie, il popolo era a dismisura cresciuto e, ’n conseguenza, il numero de’ poveri fatto maggiore — i quali, se non sentivano ancora il lusso, ammiravano la lautezza; se non erano rovesciati ne’ corrotti, almeno si compiacevano degli aggiati costumi, talché bisognava isgravar la cittá de’ poveri, che facevano a’ nobili vergogna, timore e peso, e farne fortezze delle provincie con ben agiarglivi di propi campi: — con tutto ciò, pure per lo spazio di presso a dugento anni infino a’ Gracchi, i quali altra volta mossero sú cotal nome, nelle memorie romane la legge agraria non si udí piú! Perché la colonia di Fabio andò di séguito alla legge agraria di Servio Tullio, che tanto fu lontana dalle conosciute, che poi si menarono in séguito dell’agraria de’ Gracchi, quanto fu vicina a quelle che innanzi erano menate in séguito delle clientele ordinate da Romolo, le quali voleva rimettere Coriolano: le quali sorte di colonie si scuopriranno qui appresso. Fu per fortuna in tal tempo menata da Fabio tal colonia, e, sopra l’idee dell’ultime, si è creduto con tal colonia la contesa agraria essersi rassettata, perché non si è saputo che contesa fu per la legge delleXII Tavole, che per la colonia di Fabio non rifinò.

[166] Perché, finalmente, ritornata cotesta famosa ambasceria con le leggi entro il sacco, per gli strapazzi, anche pubblici, che de’ tribuni della plebe, intorno a terminarla, facevano il senato ed i consoli, i plebei, tratti dalla disperazione, ad Appio Claudio — uomo di casa superbissima e sempre ambiziosa di sovrani comandi, sempre infesta alla plebe, sempre contraria a’ di lei desidèri (tali sono gli elogi che le dá Livio!) — si ridussero ad offerire la potenza, per servirmi della frase di Dionigio: che è tanto dire ad offerirgli la tirannia, nella quale esso infatti con altri compagni proruppe. Quindi s’intenda se l’ambasceria fu veritá o consiglio di tenere a bada la plebe!

[167] Laonde è da conchiudersi che un capo solo in tal contesa

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si dibatté, ed è quello che meno di tutti si è inteso: che a’ liberi dal nodo, quali erano i nobili, s’agguagliassero nella ragione del nodo i «forti sanati», cioè i plebei, che, come appresso vedremo, furono i primi soci del nome romano, prima ammotinati e poi ridotti all’ossequio, come in questa istessa contesa del nodo lo erano stati per la sapienza di Menenio Agrippa, che gli aveva ridutti nella cittá. Tanto che tutto l’affare, e solo o almen principale, che si trattò in cotal legge fu, con le sue dipendenze, il diritto che si dice «auctoritas», contenuto nel celebre capo scritto: «Qui nexum faciet mancipiumque», a cui non vi ha in tutta Grecia voce che le possa rispondere, come sopra ne udimmo il giudizio del greco Dione. E l’«autoritá», che spesso in quella legge si mentova, è ’l dominio solenne, certo, civile, che i latini dissero «ottimo», che in antica lingua significa «fortissimo»: che, se si avesse a voltare in greco, si arebbe a dire δίκαιον ἄριστον ovvero ἠρωϊκόν, da cui si dissero le repubbliche aristocratiche o eroiche, quale fu sopra tutte la spartana.

[168] Imperciocché secondo cosí fatta e detta autoritá regolarono i romani tutte le loro cose e pubbliche e private, in casa e fuori, nella pace e nella guerra.

[169] Prima, convenevolmente alla sua forma di governo aristocratico, fu autoritá di dominio, per la quale i padri erano sovrani signori di tutto il campo romano. Onde, nell’interregno di Romolo, per la creazione de’ re, accordarono alla plebe che essi gli eleggessero, «deinde patres fierent auctores», in maniera che le elezioni della plebe erano piú tosto desidèri o nominazioni di certi soggetti, le quali per venire a capo, dovevano loro essere proposti da essi padri, che i plebei nominassero perché seguisse l’approvagione. Onde la Fortuna di Roma, la qual dea si finge Plutarco, alquanto invidioso della romana virtú, nelle elezioni de’ re, quali bisognavano per gli princípi della romana grandezza, si deve tutta alla sapienza romana de’ padri.

[170] Dipoi, convenevolmente alla forma del suo governo libero popolare, per la legge di Filone, che perciò forse ne fu detto

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«dittator popolare», fu autoritá di tutela, per la quale il senato, col concepire esso le leggi e portarle al popolo, che in quella e non altra forma le comandasse, erano i padri, «auctores in incertum comitiorum eventum», come tutori del popolo, quasi d’un pupillo, signor dell’imperio romano.

[171] Finalmente, con acconcezza alla forma del governo monarchico, sotto gl’imperadori fu autoritá di consiglio.

[172] A quest’istessa fatta, con lo stesso ordine appunto regolarono le cose private con le clientele: che prima i nobili difendevano i plebei nella tenuta de’ loro campi come signori; dipoi come «autori laudati», quali restarono nelle vendite; finalmente come «prudenti», quali restarono «autori» detti i giureconsulti.

[173] Come essi regolassero con questa istessa autoritá le conquiste e gli affari delle provincie, si dirá appresso. Del rimanente, questa certezza di ragione privata fu quella che desiderò e riportò la plebe con la legge delleXII Tavole: che diede luogo all’error di Pomponio che l’avesse desiderato per costrignersi la libertá della mano regia a dover sempre ministrare, ove bisognava, le leggi, non piú nascoste ed incerte, ma certe e fisse nelle Tavole, come innanzi dipendé dall’arbitrio di Tullo creare o no i duumviri per ministrare la legge contro di Orazio. Perché negli affari pubblici i consoli si ritennero la mano regia per tutto il tempo della repubblica libera, dal cui arbitrio dipendeva di riferire in senato le pubbliche emergenze, perché sopra o vi determinasse esso senato co’ suoi decreti o ne concepisse le leggi da comandarsi dal popolo: dalla qual mano regia de’ consoli, che lessero bensí le lettere di Cesare nel senato, ma non vollero riferire al senato secondo le lettere di Cesare, provenne quella gran guerra. Nelle private faccende si ritennero la mano regia nel fòro i pretori, che perciò furon detti «ministri e viva voce del civil diritto»: ché, se essi non la dettavano con le loro formole, non potevano i cittadini romani sperimentar la lor ragione.

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Capo xxxvii
Principio eterno de’ governi umani
nelle repubbliche libere e nelle monarchie.

[174] Ma, a riguardo di queste scoverte d’istoria intorno al governo romano, quanto Roma fu una particella del mondo, tanto importa assai piú la scoverta del principio eterno, sopra il quale, perché sopra quello tutte son nate, tutte reggono e si conservano le repubbliche: che è ’l desiderio che ha la moltitudine d’esser retta con giustizia egualmente, conforme all’egualitá dell’umana natura. Onde l’eroismo durò appresso l’ordine de’ nobili fin quando ne mantennero soddisfatta la moltitudine; ma, poscia che gli eroi erano divenuti da casti dissoluti, da forti infingardi, da giusti avari, da magnanimi crudeli, e cosí tanti minuti tiranni, o furono dissipati nelle repubbliche libere, nelle quali l’eroismo si riunisce in un corpo nell’adunanze — ove i popoli liberi usano una mente vacua d’affetti, come divinamente Aristotile diffinisce la buona legge (la qual mente, scevra di passioni, è con tutta propietá mente eroica), e conservano la libertá sempre che comandano con tal mente le leggi; — o furono manomessi da’ monarchi, che presero a proteggere la moltitudine, e nella loro persona si uní l’eroismo (quasi essi soli sieno di superior natura di quella de’ sudditi, e, ’n conseguenza, non soggetti ad altri che a Dio), e sí conservano l’eroismo con fare a’ sudditi godere egualmente le leggi.

Capo xxxviii
Il diritto natural delle genti con costante uniformitá
sempre andante tra le nazioni.

[175] Altronde ogni giurisprudenza, nonché la romana per esemplo, deve saper la storia del giusto comandato dalle leggi della sua repubblica, che vi han dovuto variare secondo la varietá

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de’ governi. Onde questa giurisprudenza del genere umano deve saper la storia del diritto, uniformemente dalla natura dettato a tutte le nazioni, quantunque in diversi tempi, però costante in essa varietá de’ governi, co’ quali sono elleno nate e propagate.

Capo xxxix
Scoverta del primo diritto natural delle genti, divino.

[176] Ma uomini superstiziosi e fieri, ch’estimano la divinitá dalla forza e non giá dalla ragione, estimeranno altresí per cotal diritto divino giuste le vittime degl’imprudenti Agamennoni promesse in voto a’ dèi vittoriosi di Grecia delle innocenti figliuole Ifigenie, giuste ed esaudite dagli dèi le imprecazioni fatte dagl’ingannati Tesei contro i casti Ipoliti, lor figliuoli calunniati; e molto piú estimeranno far sagrifizi agli dèi de’ violenti ingiusti, che essi, per difendere contro la forza di quelli la lor ragione, sull’atto di farsi a essoloro i torti, gli ammazzeranno. I quali dall’essere inimici furono detti «hostiae» e dall’essere stati vinti furono appellati «victimae»: onde appo i latini antichi «supplicium» significò egualmente «vittima» e «pena».

Capo xl
Principio della giustizia esterna delle guerre
e di nuovo de’ duelli.

[177] E qui si truova l’origine de’ duelli per quella propietá per la quale restano estinte le controversie, ancorché vi cada estinta la parte giusta. Perché, quanto oggi, fondati i pubblici imperi, sono vietati, tanto, innanzi di porsi le leggi, furono necessari: talché dovette nascere in questi tempi che non si duellasse che

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sotto un giudizio divino, nel quale la parte oltraggiata chiamasse in testimonianza della violenza ingiusta una qualche divinitá. E qui la prima volta si concepí quella formola tra le genti latine «Audi, Iupiter», che piú innanzi dissero «Audi, fas», intendendo la «ragione» per «Giove»: dal qual punto si abbozza il celebre «fas gentium», che dá il vocabolo a tutta la materia di questa Scienza.

[178] Venute le guerre pubbliche e ritornato lo stato della forza, ritornano i governi divini e, con essi, un diritto divino delle genti, onde i sovrani ne’ manifesti chiamano Iddio in testimone della necessitá che han di venir essi all’armi per difendere le loro ragioni, e a lui appellano, giudice e vendicatore del diritto delle genti loro violato. Per la quale perpetuitá di costume umano, le guerre lungo tempo a’ romani restaron dette «duella», e ne’ tempi barbari ultimi, con questa propietá di una purgazione civile sotto il giudizio di Dio, le nazioni di Settentrione risparsero queste guerre private per tutta Europa. Ma ciò che piú importa è che qui si scuopre il principio della giustizia esterna delle guerre per entrambe le di lei parti: una, che le faccino le civili potestá, che non riconoscono superiori altri che Dio; l’altra, che le portino innanzi intimate.

Capo xli
Diritto ottimo principio delle vendicazioni ed origine
del diritto araldico.

[179] In questi antichissimi duelli si truova il comun principio di quel diritto natural delle genti (che il pareggiatore del diritto mosaico e quelli dell’ateniese col romano osservano comune tra gli ebrei, greci e latini) di uccidere il ladro, come si è detto di sopra, con la propietá, che qui or si considera: che, se ’l ladro si difenda con armadura il giorno, bisogna che precedano le grida: — Al ladro! al ladro! — (il quale costume dovette essere per natura comune alle mentovate ed a tutte le

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altre nazioni). Le quali grida fa d’uopo essere state le prime «obtestationes deorum» per difendere le messi e biade da’ ladri empi, i quali scongiuramenti, venute poi le guerre pubbliche, passarono ne’ manifesti de’ principi, come testé si è dimostrato. Talché qui si è scoperta l’origine d’intimare per gli araldi le guerre. Lo che fanno con una lingua naturale da comunicare tra loro le nazioni di articolate lingue diverse: che è una certa lingua dell’armi, propia del diritto delle genti, che nel capo seguente ritruoveremo essere il principio dell’imprese eroiche, del blasone, delle medaglie.

[180] E qui si scuopre il principio delle vendicazioni, fondato nel diritto ottimo de’ campi delle genti latine, che in antica lingua significò «diritto fortissimo»: detto «ottimo» dallo implorare «opem deorum», che facevano i forti priegando i dèi che dassero loro forza di uccidere i ladroni. Il quale in greco non si può rendere piú elegantemente che δίκαιον ἡροωϊκόν ovvero ἄριστον,/ sopra il quale poi sursero le prime repubbliche eroiche, dette «aristocratiche» a’ greci, «di ottimati» a’ latini.

Capo xlii
Diritto del nodo principio delle obbligazioni
ed abbozzo delle ripresaglie e della schiavitú.

[181] Altra principal parte di tal diritto divino fu quello appellato «del nodo», che gli stessi pareggiatori attici non osan dirlo essi traggittato di Grecia in Roma, che pur nella storia favolosa de’ greci fu detto «nesso», come qui appresso si truoverá, come «nexus» fu detto da’ latini. E restò a’ romani nel famoso capo della legge delleXII Tavole, conceputo con questi vocaboli di «prigioniero» e di «schiavo», «Qui nexum faciet mancipiumque», per lo quale i creditori imploravan prima la fede degli dèi, che fu il primo e propio «implorare deorum fidem». E la «fede», intesa per la «forza», bisognò essere in quel rozzissimo tempo una corda di vinchi (ché tal dovette

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prima nascere ne’ tempi che non vi era altr’arte che villereccia, e ne restò «vimen», pur a «vi», detto a’ latini), con la qual corda strascinati a forza i debitori, gli ligavano veramente in certi campi, perché loro soddisfacessero i debiti con le fatighe. E in quest’abbozzo di ripresaglie si ritruova il principio delle obbligazioni, che cominciò col carcere privato in casa e si spiegò con la schiavitú poi fuori nelle guerre.

Capo xliii
Primi diritti delle nazioni
guardati con l’aspetto della religione.

[182] Finalmente si scuoprono tutte le ragioni umane sparse di spaventose e crudeli religioni, ché si difendevano col terror degli dèi e con la forza dell’armi. E si diceva, per esemplo, «dèi ospitali» il diritto dell’ospizio, «dii penates» la ragione del matrimonio, «sacra patria» o «paterna» la patria potestá, «dii termini» il dominio del podere, «dii lares» quel delle case, e, di questi, nella legge delleXII Tavole ne passò quello: «ius deorum manium», per lo diritto della sepoltura. E ne’ tempi barbari ritornati sursero tante terre e castella con nomi di santi e innumerabili vescovadi si ergettero in signorie, ne’ quali tempi, nulla soccorrendo loro le leggi, spente dalla barbarie dell’armi, custodivano i loro diritti umani con la religione, che era sola restata loro.

Capo xliv
Scoverta del secondo diritto natural delle genti,
eroico.

[183] Però uomini che si estimano di divina origine sopra altri uomini, che essi sdegnano come di origine bestiale, quelli terranno questi a luogo di fiere: come niuno de’ dotti in giurisprudenza

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si è mai finora risentito che per diritto natural delle genti i signori romani tenevano gli schiavi a luogo di cose affatto inanimate, che, con l’espression delle romane leggi, venivano «loco rerum». Onde dee cessare di meravigliarci che Ulisse ad Antinoo, il suo piú caro di tutti i soci, per un sol detto per lo quale non sembra ciecamente averlo ossequiato, quantunque detto per bene di essolui, monta in una collera eroica e vuol troncargli la testa; e che Enea, per far sacrifizio, uccide il suo socio Miseno: perché questi soci degli eroi si truovano esser i clienti dell’antiche nazioni. Il qual diritto natural delle genti barbare ancor dura in Norvegia, Svezia, Danimarca, Littuania, Polonia, tra le quali nazioni si paga pochi danai la vita de’ plebei uccisi da’ loro nobili.

Capo xlv
Si ritruova tutto eroico il diritto romano antico
e fonte di tutta la virtú e grandezza romana.

[184] Sopra questo principio di diritto eroico si fa ragionevole una gran parte della storia romana antica, per questo stesso: che i romani patrizi alla plebe, che domanda le loro nozze solenni, pubblicamente oppongono che i plebei «agitabant connubia more ferarum». Perché certamente Sallustio, appo sant’Agostino nellaCittá di Dio, narra il secolo della romana virtú aver durato fino alle guerre cartaginesi; e ’l medesimo narra, appo lo stesso santo ne’ medesimi libri, che dentro questo secolo i plebei eran da’ nobili a spalle nude battuti con verghe in maniera affatto tirannica: onde finalmente bisognò la legge Porzia che allontanasse le verghe dalle spalle romane. Erano anniegati dentro un mare di usure: onde furono moderate prima in un capo della legge delleXII Tavole e poi con la legge onciaria. Dovevano servire a’ signori a loro spese nelle guerre: di che tanto si lagnano appo Livio come i nostri vassalli che si dicono «perangari». Per cagion di debiti eran

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sepolti ne’ privati carceri di essi nobili, finché assai tardi con una sollevazion popolare furono costretti liberarsene con la legge Petelia.

[185] Per le quali cose tutte — la romana virtú, che dice Sallustio, se non s’intende l’eroica, qual abbiam dimostrato di Achille, posta nella differenza della natura, creduta di spezie diversa de’ forti da quella de’ deboli — che virtú dove è tanto orgoglio? che clemenza dove è tanta fierezza? che frugalitá dove è tanta avarizia? che giustizia romana dove è tanta inegualitá? E, all’incontro, che stolta magnanimitá cotesta della plebe romana pretender nozze alla maniera de’ nobili, ambire consolati ed imperii, sacerdozi e ponteficati uomini miserissimi che eran trattati da vilissimi schiavi? Finalmente che perversitá di desidèri! Gli uomini, in questa nostra natura, prima desiderano ricchezze, indi onori e cariche, finalmente nobiltá; e i plebei romani prima desiderano nobiltá con le nozze solenni all’uso de’ nobili; quindi posti ed onori coi consolati, co’ sacerdozi; molto dopo vengono i Gracchi, che vogliono ricca la plebe con la legge agraria della libertá popolare! Queste, che son pure istorie certe romane, elleno sembran tutte essere favole piú incredibili che le medesime greche: perché di quelle non si è inteso finora che abbian voluto dire; di queste intendiamo nella nostra natura umana esser falso tutto ciò che ne narrano. Né pensarono punto farle verisimili né Polibio con le sue riflessioni, né Plutarco co’ suoiProblemi, né Macchiavelli con le sue lezioni romane.

[186] Talché, per questi princípi unicamente placar si possono tutte queste, altrimente disperate, difficultá: che i plebei, per liberare i loro corpi dal diritto eroico del nodo o sia del carcere privato, desiderarono comunicarsi loro il diritto eroico degli auspíci de’ nobili, che essi si avevan chiuso tra loro nella tavola undecima, al quale non potevano pervenire se non comunicati loro i connubi, i consolati e i sacerdozi, a’ quali tutti erano attaccati gli auspíci de’ nobili. Onde s’intenda quel motto di Livio, preso finora troppo confusamente: che con la legge Petelia dello scioglimento del nodo «aliud initium libertatis extitit».

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[187] Perché dalla fondazione di Roma insino alla legge Petelia corse tra’ romani il diritto eroico per quattrocendiecinove anni. Dal quale, ordinato da Romolo con le clientele, prima da Servio Tullio, per una qualche sollevazion di essa plebe, col censo o tributo fulle rilasciato il dominio naturale; poi da’ decemviri, per grandissimi movimenti civili della medesima, di cui pur si serbano in Dionigio alicarnasseo alcuni non leggieri vestigi, fu rilasciato a’ plebei il dominio ottimo de’ campi privato con le di lui dipendenze; appresso, con le contese eroiche prima de’ connubi, poi de’ consolati, finalmente de’ sacerdozi da comunicarsi alla plebe, furonle rilasciate le dipendenze del diritto eroico pubblico, tutte consistenti ne’ pubblici auspíci; e, ’n conseguenza de’ sacerdozi, fulle comunicata la scienza delle leggi, che a tai tempi erano gran parte della religione: onde il primo professore delle leggi fu egli Tiberio Coruncanio, e lo stesso fu il primo pontefice massimo plebeo. L’anno quattrocensedicesimo, per la legge di Filone dittatore, poiché di tutti i maestrati senatòri questo solo restava, alla plebe si comunicò ancor la censura e — acconciamente alla forma di governo, da aristocratico cangiato in popolare per l’altra parte di cotal legge: che l’autoritá del senato fosse indi in poi di tutela, come si è sopra dimostro — nella terza parte della medesima si cangiò la natura de’ plebisciti, che nelle adunanze tribunizie, nelle quali prevaleva la plebe col numero, il popolo romano gli comandasse da assoluto signore dell’imperio senza autoritá del senato, sicché «plebiscita omnes quirites tenerent». La qual voce «quirites», non avvertita qui essere stata usata con tutta la propietá, che ella pur porta seco, ha fatto perdere di veduta a’ romani critici che con questa legge si cangiò tutta la forma del romano governo. Onde i padri a ragion si lamentano che con tal legge piú essi avevano in quell’anno perduto con la pace in casa che fuori acquistato avevano con le guerre, con cui pur quell’anno avevano riportato molte e rilevanti vittorie. Con tal legge fu ordinato che i plebisciti non si potessero annullare con le leggi comandate da’ nobili ne’ comizi centuriati, ne’ quali per patrimoni essi a’ plebei prevalevano.

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Perché lo intendere «quirites» per gli romani fuori di adunanza egli è un errore da non prendersi, non giá da un legislatore romano, ma da un nostro fanciullo che apprenda lingua latina, nella quale «quirite» nel numero del meno non mai fu detto. Tre anni dopo, finalmente, per la legge Petelia fu sciolto affatto il diritto eroico del nodo: onde poté tutta surgere (ché tanto suona «existere») la libertá popolare. Tanto vi volle per isciôrsi affatto quel nodo sopra il quale Romolo aveva ordinato la cittá con le clientele!

[188] Guerreggiò dunque la plebe romana sotto il nodo di Romolo per la vita che aveva salva nel di lui asilo. Guerreggiò poi sotto il nodo di Servio Tullio per la libertá naturale che per lo censo aveva col naturale dominio de’ campi, che sarebbe a lei stata tolta con la schiavitú; e per la vita e per la libertá naturale fansi ostinatissime guerre. Ma la plebe finalmente sotto il nodo della legge delleXII Tavole, nella quale i padri, rilasciatole il dominio ottimo de’ campi, chiusero gli auspíci pubblici dentro il lor ordine, guerreggiò per la libertá civile e per fini veramente magnanimi: ché, accesa con queste contese eroiche in casa, si sforzava fuori fare dell’imprese eroiche in guerra, per appruovare a’ padri che era pur degna la plebe de’ loro connubi, de’ loro imperii, de’ loro sacerdozi, come pur una volta Sestio, tribuno della plebe, il rinfaccia a’ padri appo Livio. Perché le contese eroiche furon tutte di ragione, che i plebei volevano riportare per confession pubblica de’ medesimi nobili e con l’autoritá delle loro medesime leggi. Onde, con sí fatte contese, crebbe la romana virtú in casa e la grandezza fuori: al contrario di quelle appresso de’ Gracchi, che furono contese di potenza, per le quali la libertá prima si accese in fazioni, poi arse in tumulti, finalmente in guerre civili si incenerí.

[189] Talché il giusto punto della romana felicitá egli fu il tempo istesso che si compiè dentro la civile libertá e, con le vittorie cartaginesi, per l’imperio di tutto il mare, si gettarono fuori le fondamenta all’imperio del mondo. Fra tutto il qual tempo innanzi il senato, per tenere la plebe povera in casa, era

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magnanimo e clemente nonché giusto co’ vinti, a’ quali altro non toglieva che la licenza d’offendere, con tôrre loro la ragione sovrana dell’armi. Sicché la legge delleXII Tavole, per lo diritto ottimo privato comunicato a’ plebei e per lo pubblico chiuso tra’ nobili, fu il fonte di tutta la romana virtú e, per lei, della romana grandezza. Onde si veda se a compiacenza o per merito Cicerone anteponga il solo libretto della legge delleXII Tavole a tutte le librerie de’ greci filosofanti.

[190] Per le quali cose cosí ragionate, ad evidenza si conosce che libertá fu la romana da Bruto insino alla legge Petelia: se libertá popolare della plebe da’ nobili, qual è quella d’Ollanda, o libertá de’ signori, qual è quella di Vinegia, di Genova, di Lucca: libertá di nobili da dominio monarchico.

Capo xlvi
Scoverta dell’ultimo diritto delle genti, umano.

[191] In séguito del giá detto, per lo contrario, uomini che intendono essere uguali in ragionevole natura, che è la propia e vera natura dell’uomo, che dee essere di tutti i tempi, di tutte le nazioni — perché in una dimostrazion matematica che, come sei avvanza di quattro due, è di quattro avvanzato da dieci, che è la proporzione de’ numeri, con cui la giustizia commutativa cangia le utilitá; e come uno è a tre, cosí son quattro a dodici che è la proporzione delle misure, con cui la giustizia distributiva dispensa le dignitá (in queste due veritá ci converranno Polifemo con Pittagora, un troglodita immanissimo con l’umanissimo ateniese), — devono stimar gli uomini diritto eterno e propio degli uomini, perocché sieno della stessa spezie, di comunicare tra essoloro egualmente le ragioni dell’utilitá, sulla stessa riflessione che i deboli desiderano le leggi e i potenti non voglion pari. Che è ’l diritto delle genti umane, che, correndo a’ suoi tempi, Ulpiano, quando il vuol diffinire, con peso di parole il chiama «ius gentium humanarum».

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Capo xlvii
Dimostrazione della veritá della religion cristiana, e la stessa è riprensione degli tre sistemi di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio.

[192] E questa stessa varietá del diritto naturale delle nazioni gentili porta indivisibilmente seco una invitta dimostrazione della veritá della religion cristiana. Perché ne’ tempi certamente, come appresso dimostrerassi, ne’ quali corre tra’ greci un diritto naturale tutto superstizione e fierezza (che fu nel tempo oscuro di Grecia) e ’l popolo di Dio parla una lingua poetica di quella del medesimo Omero vie piú sublime, Iddio dá a Mosé una legge sí ripiena di degnitá circa i dogmi della divinitá e sí ricolma di umanitá circa le pratiche della giustizia, che neppure negli umanissimi tempi della Grecia l’intesero i Platoni, la praticarono gli Aristidi: con la qual legge Iddio riordinò sopra i primieri naturali costumi di Adamo il suo popolo, alquanto corrotto nella schiavitú dell’Egitto. I cui sommi dieci capi contengono un giusto eterno ed universale sulla sua idea ottima dell’umana natura schiarita, che formano per abiti un tal sappiente che difficilmente per raziocini potrebbono le massime delle migliori filosofie. Onde Teofrasto chiamò gli ebrei «filosofi per natura».

[193] Cosí permise regolarsi le cose de’ gentili la provvedenza e félle servire a’ suoi eterni consigli: che vi abbisognasse, con lungo volger d’anni, cotanto cangiar di costumi perché dal diritto ciclopico de’ Polifemi si venisse al diritto romano umanissimo de’ Papiniani. Di cui nellaDivisione delle cose si ravvisano quegli stessi princípi eterni della metafisica de’ platonici circa i sommi generi della sostanza: che le cose tutte, altre sono corporali altre incorporali, e che le corporali sono soggette a’ sensi e si toccano co’ sensi, l’incorporali s’intendono e, come i giureconsulti dicono, «in intellectu iuris consistunt»;

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e assegnano alle ragioni quell’eterna propietá d’essere indivisibili, la qual propietá affatto non può esser de’ corpi, perché la prima propietá de’ corpi, onde risulta l’estensione, è essa divisibilitá delle parti. Che è quello che sopra dicemmo: la sola filosofia platonica convenire con la giurisprudenza romana ultima. Cotanto è da ammirarsi la provvedenza divina in ciò di che Arnoldo Vinnio, sepolto dentro una eterna notte di queste cose, si burla e ride: che i diritti e le ragioni sieno platoniche idee.

[194] Ma, per lasciar Vinnio, celebratissimo interprete della romana ragione, e stare coi primi giurisprudenti della ragione universale, Grozio, Seldeno e Pufendorfio, i quali tutti e tre vogliono che sopra i loro sistemi del diritto naturale de’ filosofi sia corso dal principio del mondo il diritto naturale delle genti con costante uniformitá di costumi: tanto, quanto loro abbiam dimostro, vi bisognò che la potenza romana, illuminata dalla sapienza greca, si disponesse a ricevere la religione cristiana, perché Rufino potesse pareggiare con le leggi mosaiche le leggi romane sotto gl’imperadori. Onde cosí con le leggi romane ressero felicemente i cristiani governi, come ben resse la teologia cristiana con la platonica filosofia insino al secolo undecimo, ed indi in poi con la filosofia d’Aristotile, in quanto ella conviene con la platonica.

Capo xlviii
Idea d’una giurisprudenza del genere umano
variante per certe sètte de’ tempi.

[195] Sopra un tal morale, politica ed istoria del diritto del genere umano gentilesco è fondata una simigliante giurisprudenza, con questi princípi che la distribuiscono per tre sètte de’ tempi, che sono le sètte propie della giurisprudenza romana, assai piú acconce delle sètte de’ filosofi, che vi hanno tratte a forza gli eruditi.

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Capo xlix
Giurisprudenza della setta de’ tempi superstiziosi.

[196] E ’l principio che stabilisce la giurisprudenza de’ tempi superstiziosi egli è: che uomini ignoranti e fieri e una volta atterriti da spaventose superstizioni trattano le cose con ricercatissime cerimonie, come si narra di coloro che fanno delle stregonerie, e massimamente se eglino sien posti in uno stato che non sappiano affatto spiegarsi, come si è dimostro essere stato quello di tutte le nazioni gentili ne’ tempi vicini al passato universale diluvio.

[197] Convenevolmente adunque a tal setta di tempi, dovettero gli antichissimi giureconsulti essere tutti sacerdoti e trattare le cause con sacri riti. De’ quali restarono due bellissimi vestigi nella legge delleXII Tavole: uno al capoDe’ furti, dove si dice «orare furti» pro «agere» o sia «sperimentar ragione»; l’altro nel capoDe in ius vocando, secondo la lezione di Giusto Lipsio, dove legge «orare pacti» pro «excipere» o sia «difendersi». Ed essi dovevano essere i giudici che condennassero i rei: di che vi ha un luogo aureo appo Tacito, che osserva tra’ costumi de’ Germani antichi che a’ soli sacerdoti era lecito ligare, batter con verghe e prender altri castighi de’ colpevoli; lo che essi facevano alla presenza de’ loro dèi ed in mezzo dell’armi. Cosí le pene si prendevano precedentino le consegrazioni de’ rei medesimi, molte delle quali poi passarono nella legge delleXII Tavole: come «sacro agli dèi de’ padri» il figliuolo empio, «sacro a Cerere» il ladro delle biade in tempo di notte, «sacro a Giove» chi avesse violato il tribuno della plebe. Queste «consegrazioni» de’ latini si ritruovano l’«esegrazioni» de’ greci e delle quali, come deitadi, avevano ancora i templi. Che erano come una certa spezie di scomuniche praticate da tutte le antiche nazioni: come de’ Galli ne dá Giulio Cesare un assai distinto ragguaglio. Della qual sorta fu l’interdetto dell’acqua e del fuoco tra le genti latine, che restò finalmente a’ romani.

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Capo l
Si scuopre l’arcano delle leggi uniforme
in tutte le antiche nazioni.

[198] Qui si truova il principio delle leggi arcane sparse tutte di religione appo tutte le nazioni antiche, le quali, come cose sagre, si custodirono appo ordini di loro sacerdoti, come appo i caldei dell’Assiria, i maghi della Persia, i sacerdoti d’Egitto e di Germania, i druidi delle Gallie, e appo tutte con una letteratura sagra, ovvero secreta. Laonde da prima fu natura, non impostura, che fin cento anni dopo la legge delleXII Tavole, al narrar di Pomponio, la scienza delle leggi romane fu chiusa dentro il collegio de’ pontefici, nel quale non si annoveravano che patrizi, poiché tanto tempo vi corse che si comunicassero i sacerdozi alla plebe.

Capo li
Dimostrazione che le leggi non nacquero da impostura.

[199] Da questa giurisprudenza tutte le ragioni umane del primo mondo delle nazioni, siccome erano guardate con aspetto di cose divine, cosí erano trattate tutte con veritá, come egli conveniva alla semplicitá della fanciullezza delle medesime. Perché si acquistavano con vero uso o sia con veramente stare coi corpi lunga etá in certe terre postati: onde l’usucapione, come egli fu il primo, cosí restò il principal modo di legittimare le sovranitá appo tutte le nazioni. Tanto è lontano dal vero che fu propia de’ cittadini romani, la qual falsa oppenione finora ha turbato tutti gli autori di questa dottrina! Oltre il vero uso, acquistavano con vera «mano», con vera forza: che è ’l principio delle mancipazioni e delle cose dette «mancipi», o siano le prede di guerra, delle quali si acquistava il dominio ottimo

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o sia fortissimo. E, oltre i domíni che con vero uso, con vera mano, le obbligazioni si contraevano con vero nodo, per lo quale da’ «vincti», ovvero obbligati in casa, provvennero fuori «victi» i ligati in guerra con la schiavitú.

[200] E cosí si ritruova vero di questi tempi che ’l diritto natural delle genti non ammette finzioni, e ne dá una grave pruova che le leggi non furono ritruovati della vil impostura, ma figliuole di una veritá generosa.

Capo lii
Giurisprudenza della setta de’ tempi eroici nella quale si scuopre il principio degli atti legittimi de’ romani.

[201] Ma — sorti i governi umani, de’ quali i primi furono gli eroici, sopra questo principio: che delle forze private de’ padri, sovrani nello stato delle famiglie, si compose la forza pubblica delle cittá, che è l’imperio civile (per lo quale cessarono le forze private a piú farsi veramente tra essoloro); ed essendo cosí per natura disposto: che i costumi non ad un tratto si cangian tutti, e massimamente di uomini rozzi e selvaggi; — succedé la giurisprudenza eroica, che fu naturalmente portata a tutta occuparsi nelle finzioni, delle quali è piena la giurisprudenza romana antica, incominciando a fingere la mano e ’l nodo, che entrambi finti passarono nella legge delleXII Tavole al celebre capo «Qui nexum faciet mancipiumque»; e da entrambi provenne la mancipazione civile, la quale si truova essere il fonte di tutti gli atti legittimi, co’ quali i romani antichi celebravano tra loro tutto il diritto romano. Tanto bisognò che ’l diritto romano venisse da Atene in Roma, che fu costume uniforme a tutte le altre antiche nazioni!

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Capo liii
Principio della giurisprudenza rigida degli antichi.

[202] Aggiugnendo a questo quell’altro principio: che uomini superstiziosi e di corto ingegno sono osservantissimi delle parole circa i patti, le leggi e sopra tutto i giuramenti, massime in tempi che le nazioni scarseggiano di favellari o parlano con tutta propietá, perché loro manca ancor la copia de’ trasporti, talché devono osservarle, ancorché nell’esecuzione non solo non ne provenga loro la proposta utilitá, ma anche ne siegua un gravissimo danno ed eziandio infelicitá (siccome avvenne per la loro imprudenza agli Agamennoni co’ loro miseri voti); ed estimeranno ciò essere la lor ragione (siccome questo infelicissimo re e padre da se stesso la soddisfece). Per sí fatta oppenione attenderanno a cautelarsi, quanto piú sappiano, con certe e determinate formole di parole. E cosí la finta mano e ’l finto nodo, con sollenne formola di parole congionti, andarono naturalmente in costume di tutte le genti eroiche e, ’n conseguenza, anco di quelle del Lazio, che finalmente passarono in legge appo i romani nel celebre capo delleXII Tavole cosí conceputo: «Qui nexum faciet mancipiumve, uti lingua nuncupassit, ita ius esto». E nella resa di Collazia concepisce Tarquinio Prisco la famosa forma araldica delle rese tutte, che celebrarono ne’ tempi eroici, con una sollenne formola di stipulazione ed accettilazione, come si può leggere appresso Livio. Tanto in questi tempi le stipulazioni erano propie de’ cittadini romani, che con esse si ferma il maggior affare del diritto naturale delle genti! Onde nella storia barbara cosí prima come ultima, co’ patti delle rese, osservati con somma propietá di parole, si sono spesso o felicemente delusi i vincitori o miseramente scherniti i vinti.

[203] Della giurisprudenza eroica de’ tempi barbari antichi Omero propone alle genti greche in esemplo Ulisse, che sempre narra, promette, giura con tal arte che, salva la propietá delle parole, esso consiegua la propostasi utilitá. Il qual costume si

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ritruova incominciato ben dal tempo di essi governi divini di Grecia, poiché con questa prudenza Ulissea, né altrimente, Giunone giura a Giove non aver essa sollecitato Nettunno a muover tempesta contro i troiani — lo che, in veritá, fatto aveva per mezzo del Sonno, — e cosí ingannò esso Giove, testimone e vindicatore de’ giuramenti. Perciò, siccome tutta la riputazione de’ giureconsulti romani antichi era riposta in quel celebre lor «cavere», cosí ne’ tempi barbari ritornati tutta la stima de’ dottori fu riposta in ritruovare «cautele», delle quali la maggior parte ora sono ridevoli.

Capo liv
Scoverta de’ motivi onde la legge delle XII Tavole
fu creduta venire da Sparta.

[204] Tal giurisprudenza si ritruova crudelissima in prender le pene umane, come quella, che poi passò nella legge delleXII Tavole, che ’l debitore fallito vivo si segasse in pezzi e se ne dassero i brani a’ creditori: pena invero ciclopica, praticata ne’ tempi de’ governi divini e, quel ch’è piú, nelle persone de’ propi nipoti, come contro Ippolito strascinato da’ propi cavalli che Nettunno, avolo, aveva spaventati e, sí, miserevolmente fatto in brani. La qual pena, esercitata in casa contro i mancatori della parola, fu portata fuori contro i re che non serbarono i patti delle allianze, siccome Tullo Ostilio contro Mezio Fuffezio re di Alba, che fe’ morire diviso da due cocchi a quattro, in parti opposte lasciati a correre.

[205] Cosí fatta giurisprudenza eroica, e per lo rigore delle interpetrazioni, e per la crudeltá delle pene, quali convenivano a nazioni tutte fierezza, — onde le leggi di Sparta facevano orrore agli giá fatti umanissimi ateniesi, e ne sono perciò da Platone e da Aristotile dislodate — in altra opera fu detta «giurisprudenza spartana», da una repubblica la piú luminosa eroica che ci sia giunta alla notizia di tutte le antiche. Che

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però a’ piú antichi romani, dopo che cominciarono a conoscere i greci, avvertendo le leggi spartane simiglianti alle loro, diede motivo di credere che le leggi delleXII Tavole fossero da Sparta venute in Roma, le quali, in fatti, non furono che costumi tutti nativi delle genti eroiche del Lazio.

Capo lv
Giurisprudenza della setta de’ tempi umani
e ’l principio della giurisprudenza benigna
de’ romani ultimi.

[206] Ma uomini discreti e, perché discreti, di natura umani, eglino dalle cose istesse, non giá dalle parole, eseguono le promesse, ubbidiscono alle leggi, adempiono i giuramenti secondo l’utilitá regolata con veri e giusti raziocini. Qui si scuopre il principio dell’equitá naturale delle leggi o sia della giurisprudenza benigna de’ romani ultimi, e si determina la setta de’ loro tempi, che sovente dicono i giureconsulti romani nuovi, per la quale diffiniscono le cause di dubbia equitá naturale per lo diritto naturale delle genti umane. Che è il principio della giurisprudenza nuova, la quale tutta si rivolse ad interpetrare gli editti de’ pretori, i quali si erano tutti occupati a supplire i difetti ed ammendare i rigori della legge delleXII Tavole secondo l’equitá naturale. Il qual diritto naturale, ove Ulpiano il vuol diffinire, come il diffinisce, dalla naturale equitá, con peso di parole chiama «diritto naturale delle genti umane». Talché, siccome la giurisprudenza eroica era stata celebrata ne’ tempi del governo eroico di Roma fino alla legge Petelia sopra essa legge delleXII Tavole: cosí, indi in poi, ne’ tempi del governo umano di Roma, che cominciò dalla libertá tutta spiegata doppo le guerre cartaginesi, fu celebrata la giurisprudenza la qual perciò in altra opera fu detta «giurisprudenza ateniese» da una repubblica la piú umana di quante mai ce ne pervennero a notizia di tutta l’antichitá.

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Capo lvi
Scoverta de’ motivi onde la legge delle XII Tavole
fu creduta venir da Atene.

[207] Sí fatta giurisprudenza, osservata da’ tempi che prevalse la libertá, che fu da quelli da’ Gracchi in poi, troppo corrispondere all’umanitá degli ateniesi, fece credere a’ romani tutto l’opposto: che la legge delleXII Tavole fosse in Roma venuta da Atene; la quale oppenione restò, perché restò quest’ultima spezie di giurisprudenza, e piú sotto la monarchia de’ romani príncipi, che è l’altra spezie degli umani governi. Talché questa tradizione della legge delleXII Tavole venuta in Roma di Grecia è somigliante a quella che da Grecia uscirono i cureti in Asia, in Creta, in Saturnia ovvero Italia. L’incostanza è simile a quella della patria d’Omero, perocché ogni popolo greco ravvisava ne’ di lui poemi i suoi natii parlari. E ’l giudizio di Tacito, che vi dice essere stato raccolto «quicquid usquam gentium», è simile a’ viaggi di Pittagora, co’ quali portò in Cotrone i dogmi de’ sappienti di tutto il mondo.

Capo lvii
Scoverta de’ veri elementi della storia.

[208] Ma niuna cosa piú della legge delleXII Tavole con grave argomento ci appruova che, se avessimo la storia delle antiche leggi de’ popoli, avremmo la storia de’ fatti antichi delle nazioni. Perché — dalla natura degli uomini uscendo i loro costumi, da’ costumi i governi, da’ governi le leggi, dalle leggi gli abiti civili, dagli abiti civili i fatti costanti pubblici delle nazioni, e, con una certa arte critica, come quella de’ giureconsulti, alla certezza delle leggi riducendosi i fatti d’incerta o dubbia ragione — i veri elementi della storia sembrano essere

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questi princípi di morale, politica, diritto e giurisprudenza del genere umano, ritruovati per questa nuova scienza dell’umanitá, sopra i quali si guida la storia universale delle nazioni, che ne narra i loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini. Ma, per determinare e i certi tempi e i certi luoghi donde esse incominciarono, non ci soccorrono i due occhi, come sinora sono stati usati, della storia, che sono la cronologia e la geografia.

Capo lviii
Nuovi princípi storici dell’astronomia.

[209] Perché i greci certamente innalzarono i loro dèi alle stelle erranti e gli eroi alle fisse; e ciò essi fecero dappoi che eran passati in Grecia i dèi d’Oriente, i quali da’ caldei erano stati affissi alle stelle, come il concedono tutti i filologi. Ma ciò avvenne dopo i tempi d’Omero, al cui tempo i dèi di Grecia non istavan piú in suso del monte Olimpo. Però l’allogamento sí sconcio de’ dèi alle stelle erranti e degli eroi alle fisse non poté altronde nascer comune e agli assiri e a’ greci che dall’errore del senso degli occhi, a’ quali sembrano le stelle erranti e piú grandi e piú in suso delle fisse, le quali, per dimostrate misure di astronomia, sono sformatamente delle fisse e piú in giuso e minori.

[210] Quindi si medita ne’ princípi della prima di tutte le scienze riposte, che si truova essere stata l’astronomia volgare de’ caldei, che certamente furono i primi sappienti del nostro mondo, e che ella cominciò rozzamente con la loro divinazione di osservare le stelle cadenti la notte, dal cui traggitto, in qual parte del cielo avveniva, predicevano coi divini creduti avvisi le cose umane. Quindi, con lunghe e spesse osservazioni notturne e con l’aggio delle loro immense pianure, poi osservarono i moti delle stelle erranti, finalmente delle fisse, e ritruovarono a capo di lunga etá l’astronomia riposta i caldei, de’ quali fu principe

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Zoroaste, indi detto da «aster», che in lingua persiana significa «stella», e da «zor», che Samuello Bocarto deriva dall’ebreo «sobur», che significa «contemplare», quasi detto «contemplatore delle stelle». Ma de’ Zoroasti in Asia vi furon molti. Il primo fu caldeo ovvero assirio; il secondo battriano, contemporaneo di Nino; il terzo persiano, detto pur medo; il quarto panfilio, detto er‐armenio; il quinto proconnesio, a’ tempi di Ciro e di Creso: che fa a’ filologi maraviglia i Zoroasti essere stati tanti quanti Giovi, quanti Ercoli. Lo che ne dá motivo di credere che Zoroaste agli asiani fu un nome comune di tutti i fondatori delle loro nazioni (e se ne scioglie quel gran dubbio che gli travaglia: se i caldei fossero stati particolari filosofi o intiere famiglie o un ordine o setta di sappienti o una nazione), e che agli orientali questa voce «caldei» restò a significare «eruditi». Le quali tradizioni si ritruovano tutte vere sopra questi princípi: perché da prima i caldei furono particolari padri che con la magia volgare fondarono le famiglie d’indovini, come le famiglie degli aruspici si conservarono fino a’ tempi de’ Cesari nella Toscana; le quali famiglie poi si unirono in ordini regnanti delle cittá, un de’ quali poi in Assiria si propagò in una nazione regnante sopra altri popoli, onde si fondò il primo regno d’Assiria nella gente caldea, e ne restò «caldeo» per «erudito», come, ne’ tempi barbari a noi vicini, in Italia «padovano» per «letterato».

Capo lix
Idea di una cronologia ragionata
de’ tempi oscuro e favoloso.

[211] Ma tutto ciò ne dispera di ritruovar certi tempi da determinare il lunghissimo tratto che vi corse, per lo quale le nazioni dalla volgare astronomia vennero alla riposta, dalla quale unicamente si ha la certezza della cronologia. Quindi deonsi andare a ritruovare i tempi delle cose oscure e favolose dentro

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la nostra umana mente con essa serie delle medesime umane necessitá o utilitá, condotta sopra le sètte de’ tempi e sopra certi incominciamenti de’ costumi di esse nazioni, cosí da’ loro siti in riguardo generalmente alla natura de’ paesi, e spezialmente alla Mesopotamia, dalla quale son tutte uscite, come da’ governi delle medesime secondo i loro costumi, perché si determini da quando dovettero esse incominciare, conducendoci fino alle nazioni presenti d’ultima discoverta. Come, per esemplo che da un quattromila anni e non piú innanzi abbia cominciato la nazione chinese, che penuria ancora di voci articolate, delle quali non ha piú che da un trecento e scrive per geroglifici; lo che essi devono al recinto de’ monti inaccessibili e al gran muro con che essi si chiusero alle straniere nazioni; — ma da un tremila anni la giapponese, gente anco feroce e che nell’aria del parlare somiglia tutta alla latina; — da un mille e cinquecento quella degli americani, nel tempo della loro discoverta ritruovati governarsi con terribili religioni nello stato ancora delle famiglie; — e quivi da un mille anni incominciata quella de’ giganti nel piè dell’America, i quali appruovano che dal Settentrione di Europa vi fossero portati per tempesta uomini con donne, e verisimilmente dalla Groellanda, come pur dicono.

Capo lx
Scoverta di nuove spezie di anacronismi
e di altri princípi di emendargli.

[212] Per rinvenire poi il progresso per lo tempo oscuro e favoloso sino allo storico certo tra’ greci, perché di nulla ci possono soccorrere le successioni, che i cronologi tanto minutamente ci descrivono, dei re di Grecia del tempo oscuro e favoloso — a cagion di ciò che pur avvertí Tucidide sugl’incominciamenti della suaStoria: che ne’ primi tempi della Grecia

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i regni erano incostantissimi e che i re tuttogiorno si cacciavano di sedia l’un l’altro, come è facile rincontrarne il costume de’ re e de’ regni narratici dalle barbare ultime delle nazioni di Europa — per sí fatte dubbiezze si pongono certi naturali princípi di emendare gli anacronismi delle favole, che tutti si riducono a cinque spezie.

[213] La prima di fatti avvenuti in tempi divisi, narratici in un tempo istesso. Come Orfeo fonda la nazion greca, e si ritruova compagno di Giasone nella spedizione di Ponto, dove pur convengono Castore e Polluce, fratelli d’Elena, per lo cui rapimento, fatto da Paride, avviene la guerra troiana: talché in una stessa etá di uomo i greci, da selvaggi e fieri, quali Orfeo gli truovò, vengono in tanto lustro e splendore di nazione che fanno tanto rinomate spedizioni marittime quanto fu la troiana. I quali fatti, combinati, è affatto impossibile alla mente umana d’intendere.

[214] La seconda spezie d’anacronismi è di fatti avvenuti in uno stesso tempo che sono rapportati in tempi lontanissimi tra di loro. Come Giove rapisce Europa cinquecento anni innanzi che Minosse, primo corseggiatore dell’Egeo, impone la crudel pena agli ateniesi di consegnargli ogni anno i garzoni e le donzelle da divorarsi dal suo minotauro: che pur altri han voluto essere una nave da corso di Minosse, con cui corseggiavano i cretesi l’Arcipelago, il quale per gli molti anfratti delle sue isole si è ritruovato da noi essere il primo labirinto. Quando l’una e l’altra favola sono istoria de’ corseggi di Grecia, i quali non avvennero se non dopo fondate dentro terra le nazioni, per uno spavento che lungo tempo tutte ebbero del mare, come cel conferma della sua greca apertamente Tucidide, e gli ultimi ritruovati dalle nazioni sono la navale e la nautica.

[215] La terza spezie è di tempi narrati come vacui di fatti, i quali ne furon pienissimi. Come tutto il tempo oscuro di Grecia, nel quale, come si vedrá appresso, si devono rifonder tutte le storie greche, politiche o civili conservate da’ greci in tutte le loro favole degli dèi ed in buona e gran parte di quelle de’ loro eroi. Ché certamente sbalordisce chiunque vi rifletta

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sopra, non per ricordarsi da filologo, ma per intendere da filosofo, che, dopo regni in Grecia fondati, reali discendenze descritte, reami per guerre passati da altre in altre case, venga Orfeo e col suo liuto addimestichi gli uomini selvaggi di Grecia e vi fondi la greca nazione.

[216] La quarta è di tempi narratici pieni di fatti, de’ quali devono esser vuoti. Come il tempo eroico, che corre a’ greci per gli cronologi dugento anni, il quale o deve correre cinquecento, o trecento anni di esso si devono restituire al tempo oscuro, per l’anzi fatta difficultá di Orfeo, fondatore della greca nazione, ritruovato sincrono e contemporaneo della guerra troiana.

[217] La quinta ed ultima spezie finalmente è di quelli che volgarmente si dicono «anacronismi», in significazione di «tempi prevertiti».

[218] E si pongono come dodici minute epoche o punti fissi d’istoria i dodici dèi delle genti maggiori, stabiliti con una teogonia naturale, della quale appresso si dará un saggio, e in queste epoche si dánno i tempi loro alle antichissime cose civili della Grecia, le quali certamente dovettero nascere innanzi a quelle delle guerre.

Capo lxi
Nuovi princípi storici della geografia.

[219] Siccome non ci ha soccorso per la nostra istoria universale la cronologia ordinaria, sopra la quale con incomparabile erudizione han travagliato i Petavi e gli Scaligeri, cosí ci abbandona l’usata geografia. Perché, siccome gli uomini universalmente delle cose nuove e non conosciute giudicano e si spiegano con idee e voci da essoloro conosciute ed usate, cosí, per questa propietá della mente umana, dovettero fare l’intere nazioni.

[220] Certamente si ha da’ latini che il Lazio e l’Italia sul principio furono dentro assai piú brievi confini di quelli ne’ quali

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poi, essendosi spiegati piú e piú il diritto latino ed italico, si distesero in questa ampiezza di confini ne’ quali ci sono rimasti. Lo stesso avvenne del mar Toscano (nella qual cosa noi ci ammendiamo di ciò che abbiamo scritto altrove), che dovette essere la maremma di Toscana sola nel suo principio; ma con l’istesso nome poi i romani ne spiegarono l’idea dalle radici dell’Alpi, oggi Nizza di Provenza, come il descrive Livio, sino allo stretto siciliano, oggi detto di Messina, e sí restò detto in geografia. Alla stessa fatta, i greci, da’ quali abbiamo tutto ciò che abbiamo delle antiche nazioni gentili, dovettero con le loro prime natie idee e parlari ragionare delle cose straniere ne’ tempi primi che non vi erano interpreti né correva tra essoloro alcuna comunicazione di lingue: talché dalla somiglianza de’ siti delle terre in riguardo del mondo, dovettero appellarle con le voci delle terre greche di simiglianti siti a riguardo della loro Grecia.

[221] Qui si vanno a ritruovare nuovi princípi storici della geografia, per gli quali si difende Omero da un gran numero di errori, che in sí fatta scienza finora a torto gli sono stati imputati, e si fa piú ragionevole la geografia poetica sopra una a’ poeti convenevole cosmografia. Che il primo Olimpo fu il monte sopra la cui cima e per lo cui dorso Omero sempre descrive le case de’ suoi dèi. Il primo Oceano fu ogni mare interminato agli occhi, onde si può vedere la notte sempre sul mare la cinosura, che dovettero i greci aver appreso da’ fenici, i quali a’ tempi di Omero giá praticavano per le marine di Grecia. Come egli descrive l’isola Eolia circondata dall’Oceano, cosí si truovò acconcia la voce «Oceano» a significare il mare che abbraccia tutta la terra, che dopo piú migliaia di anni scoversero finalmente i nostri viaggiatori. Quindi la prima Tracia, la prima Mauritania, la prima India, la prima Esperia furono il Settentrione, il Mezzodí, l’Oriente e l’Occidente d’essa Grecia: onde Orfeo trace è pur famoso eroe della Grecia; all’opposto Perseo, pur famoso eroe greco, fa tutte le sue chiare imprese in Mauritania (cioè nel Peloponneso, il quale pure ci è rimasto detto Morea), della quale Erodoto non seppe che

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erano i suoi greci, il quale narra che i mori di Affrica furono un tempo e bianchi e belli.

[222] In questa Mauritania greca dovette essere il monte Atlante, che poi vi restò detto in accorcio Ato, posto tra la Macedonia e la Tracia, che Serse poi perforò; e pure in essa Tracia un fiume con simil nome di Atlante ne restò a’ greci. Tal monte, perché per la sua altezza parve sostenere il cielo, agli uomini fanciulli di Grecia fu detto «colonna del cielo»; e quel sistema mondano fu tramandato ad Omero: che ’l cielo si sostenesse sopra sí fatte colonne; appunto come Maometto, per la stessa rozzezza d’idee de’ suoi arabi, il lasciò da credere a’ turchi. Onde nell’etá d’Omero il piú alto del cielo era la cima del monte Olimpo, sopra cui esso sempre narra allogati i suoi dèi e camminare sopra un solaio pendente da sí fatte colonne, come una volta il fa dire da Teti ad Achille che Giove con gli altri dèi da Olimpo era andato a banchettare in Atlante. Quindi i greci, quando poi videro lo stretto di Gibilterra fra due alti monti, Abila e Calpe — perché osservarono cosí l’Europa divisa dall’Affrica da picciolo stretto di mare com’era nel mondo di Grecia l’Attica dal Peloponneso se non per un collo di terra somigliante, sopra cui si erge il monte Ato, onde Serse il forò — sopra questa simiglianza de’ siti spiegarono naturalmente le loro idee, e con l’idee stesero le loro prime voci, come generalmente nel seguente capo si mostrerá, e dissero «Esperia» la Spagna dall’Esperia di Attica e «Mauritania» tal parte d’Affrica dalla loro Mauritania greca, oggi pur detta Morea, e ’l monte Abila e Calpe dovettero appellare Atlante, diviso in due «colonne» che poi si dissero «di Ercole» che successe ad Atlante nel peso di sostenere il cielo: di sostenere la religione con un’altra spezie di divinazione, che or qui diremo.

[223] Perché in questa Mauritania greca dovette essere alcun primo fondatore di greco popolo, principe dell’astronomia volgare de’ greci: come certamente gli efori di Sparta, capitale del Peloponneso, indovinavano dal traggitto delle stelle cadenti la notte (che furono i Zoroasti agli orientali). Perché Atlante fece

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egli pure le sue figliuole Esperidi nella Grecia, e nel peso dell’Olimpo, che aveva portato sulle spalle, lasciò Ercole successore, eroe massimo incontrastato di Grecia, la cui razza senza dubbio regnò in Isparta; né ci fu mai Ercole spiegato da’ mitologi che avesse perpetuato alcuna scuola di sapienza riposta de’ suoi piú antichi. Ma la spezie d’indovinare degli efori ci dá grave motivo di credere che nel Peloponneso venne alcuna colonia d’Oriente, come da Pelope frigio certamente ebbe il nome di Peloponneso, che vi portò questa sorta d’indovinare propia degli orientali, perché tutti gli altri greci indovinavano dalla folgore e dal tuono, con la sola differenza da’ latini: che le parti destre a quelli erano a questi sinistre, e le sinistre al contrario. E cosí Ercole, della cui razza furono i nobili spartani che ne serbarono il patronimico di «Eraclidi», succedé ad Atlante nel peso di sostenere gli dèi della loro nazione. Però non vi provennero astronomi riposti, perché gli spartani furono da Ligurgo, come ognun sa, proibiti di saper di lettera. E, in cotal guisa, Zoroaste, che dovette essere il panfilio, confinante con la Frigia, di cui fu Pelope, venne a insegnare Atlante in sua propia casa nella Tracia; né Orfeo ebbe bisogno di andare fino a Marocco per apprendere da Atlante l’astronomia.

[224] Con questi istessi princípi può, anzi dee, Bacco aver domato l’India dentro la Grecia medesima, per le difficultá che sopra vedemmo di aver potuto venir Pittagora da Cotrone in Roma a’ tempi di Servio Tullio e di non saper i tarantini che i romani erano in Italia. Cosí Ercole riporta le poma d’oro da Esperia greca, che dovett’essere la prima a’ greci quella parte occidentale d’Attica, dentro la cui quarta parte del cielo sorge loro la stella Espero: onde poi, conosciuta l’Italia, la dissero «Esperia magna» a riguardo della «Esperia parva» (perché era una picciola parte di Grecia l’occidente dell’Attica), ed «Esperia magna» per l’«Italia» restò a’ poeti. Poi, conosciuta la Spagna, la dissero «Esperia ultima», la quale cosí restò detta. Alla stessa fatta, la prima Europa dovette essere essa Grecia a riguardo dell’Asia. Cosí la prima Ionia dovette essere questa parte di Grecia occidentale, di cui ci è

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pur restato detto il mare Ionio; e l’Asia che or si dice «minore» dovette essere la Ionia seconda, parte occidentale di Grecia a riguardo dell’Asia maggiore, che restò detta «Asia» assolutamente. Onde si fa verisimile che i greci avessero prima conosciuto l’Italia che l’Asia, e che Pittagora da questa Ionia occidentale vi avesse traggittato.

Capo lxii
Si scuopre il gran principio della propagazione
delle nazioni.

[225] Con questi princípi di cronologia e di geografia si medita nel grande oscurissimo principio della propagazione delle nazioni e dell’origine delle lingue, sopra le quali cose Volfango Lazio lavorò due ben grandi volumi, co’ quali non ci dá nulla piú di certo per la certa origine e perpetuitá della storia. Noi, come le parole van di séguito alle cose, nel libro seguente ragioneremo dell’origine delle lingue. In questo tratteremo della propagazione delle nazioni per queste quattro veritá meditate sopra l’umana natura: che gli uomini si riducono ad abbandonare le propie terre da una di queste quattro cagioni, secondo quest’ordine delle umane necessitá o utilitá, l’una succedente all’altra. Prima, da una assoluta necessitá di campar la vita; seconda, da una difficultá insuperabile di poterlavi sostentare; terza, da una grande ingordigia di arricchire co’ traffichi; quarta, da una grande ambizione di conservare gli acquisti.

Capo lxiii
Si scuopre il principio delle colonie
e del diritto romano, latino, italico e delle provincie.

[226] Ma la natura dell’autoritá, con la quale i primi fondatori delle cittá dicevano a’ ricoverati essere propie loro quelle terre ove avevano quelli ritruovato l’asilo — per la quale Romolo

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sopra il diritto eroico del nodo aveva fondato la sua con le clientele e con la quale i romani, come si è dimostro qui sopra, regolarono in casa tutte le pubbliche e private cose e, in conseguenza, dovettero anche regolarle fuori nelle conquiste — perché ella, sconosciuta finora nella legge delleXII Tavole, come ci ha per tanto tempo nascosto la propagazione della gente romana con distendere il diritto romano nel Lazio, nell’Italia, nelle provincie (che è pure il diritto delle genti per lo quale Plutarco afferma il popolo romano esser divenuto signore delle nazioni), cosí ella ci ha seppolto la fiaccola di queste cose d’istoria certa per riconoscere nell’oscura e favolosa il vero della propagazione del genere umano dall’Oriente per lo rimanente del mondo, che è giaciuto finora dentro l’ombre e le favole della piú deplorata antichitá.

[227] Imperciocché i romani da principio, convenevolmente alla fierezza de’ primi tempi, rovinavano le vicine vinte cittá e menavano in Roma i popoli soggiogati nel numero della plebe. Che ben avvertí Livio con quel motto: «Crescit interea Roma Albae ruinis»: talché Alba, per esemplo, fu «prope victa» e gli albani vennero nel numero de’ primi soci romani, come i soci degli eroi, quali vedemmo sopra Antinoo d’Ulisse, Miseno di Enea.

[228] Poi, cresciuta Roma e di campo e di plebe, ed essa utilitá frattanto mitigando la barbarie, lasciavano in piedi le cittá vinte dentro esso Lazio piú lontane, arrese con la formola araldica di Tarquinio Prisco (con la quale appunto ne’ tempi eroici di Grecia, vinto Pterela, re de’ teleboi, rende la cittá ad Anfitrione nella di lui tragicommedia appresso Plauto), perché gli arresi l’abitassero da veri e propi coloni. E queste colonie furono le prime provincie romane, le prime «procul victae» dentro il Lazio medesimo, come pure l’avvertí Floro. Qual fu, per esemplo, Corioli, dalla cui gente, ridotta in provincia, Marcio fu detto Coriolano; alla fatta che gli due Scipioni poi, per cagion pure d’esemplo, dall’Affrica distrutta e dall’Asia soggiogata furono appellati «asiatico» ed «affricano».

[229] Quindi, domato tutto il Lazio, la prima provincia fu l’Italia, e il Lazio fu distinto sopra l’Italia in civil ragione privata.

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[230] Appresso, stese le conquiste oltra l’Italia e ’l mare, le nazioni poste fuori l’Italia furono le provincie, quali restarono, sopra le quali in civil ragione privata fu distinta l’Italia. Talché quelli del Lazio, co’ municípi, divennero come un ordine di cavallieri, prossimi a passare co’ meriti nell’ordine senatorio per prendervi le cariche pubbliche; quei dell’Italia divennero come una plebe romana dopo la legge delleXII Tavole, capaci del diritto civil romano privato de’ campi del fondo italico; quei delle provincie mansuete divennero come la plebe romana a’ tempi di Servio Tullio, che avevano il dominio naturale de’ campi, di che pagavano a’ romani o vettigale o stipendio o tributo in luogo del primo censo; quei delle provincie feroci divennero la plebe romana a’ tempi di Romolo, con mandar tra essoloro le colonie romane ultime, ridotti i provinciali a sostentarsi ne’ campi, non piú loro, con le loro fatighe, o alla fatta de’ coloni antichi latini, che furono gli arresi secondo la formola araldica di Tarquinio Prisco, ovvero di coloni deditizi, quali furono i ricevuti nell’asilo di Romolo.

[231] In tal guisa sulle clientele di Romolo e le due agrarie — la prima di Tullio, la seconda della legge delleXII Tavole — il diritto della gente romana sopra le nazioni vinte si propagò, distendendo sopra le conquiste il suo celebre «ius nexi mancipiique», per lo quale i fondi a’ provinciali restarono detti «nec mancipi», perché con le vittorie eran fatti mancípi de’ romani. E col diritto del nodo, rilasciato prima al Lazio, dipoi all’Italia, finalmente da Antonino Pio a tutte le provincie, con donare successivamente loro la cittadinanza, tratto tratto tutto il mondo romano divenne Roma; e, come fu l’ultima la legge Petelia che lo sciolse tra’ romani in casa, cosí Giustiniano, che tolse la differenza delle cose «mancipi» e «nec mancipi», nelle provincie fu l’ultimo a sciôrlo fuori.

[232] Per le quali cose, tutte per lo addietro dissipate, ora sopra tre veritá civili composte in sistema, sembra da qui innanzi sopra questi princípi doversi comporre tutto ciò che del diritto de’ cittadini romani, delle colonie, de’ municípi, del diritto latino, italico e delle provincie raccolse il gran Carlo Sigonio, prima fiaccola della romana erudizione, e gli altri che ne hanno dopo lui scritto.

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Capo lxiv
Scoverta la guisa delle colonie eroiche oltramarine.

[233] Per queste istesse cose dette della propagazione della gente romana s’intende la propagazione del gener umano con due spezie di colonie eroiche oltramarine, entrambe di moltitudine di uomini con certi loro capi vinti o premuti da contrarie fazioni in eroiche turbolenze per cagion del diritto del nodo. La prima cagione: perché la moltitudine non potesse nelle terre native sostentare la vita con le camperecce fatighe. La seconda cagione: perché le plebi fossero strapazzate da’ nobili fino all’anima, come certamente la storia romana antica ci ha qui sopra fatto conoscere della plebe di Roma.

[234] Queste contese eroiche sí della prima come della seconda spezie, al riferire di Piero Cuneo nellaRepubblica degli ebrei, avvennero spesse tra’ sacerdoti e villani d’Egitto, e sempre con la peggio de’ villani, i quali, per fuggire l’ira de’ vincitori, o dalla parte di terra si spinsero dentro l’Affrica, o da quella di mare si gittarono sulle zattare del Nilo e, disperati, si commisero alla fortuna di ritruovar nuove terre. E qui si dimostra la veritá della storia sagra circa questo importantissimo punto: che ’l popolo ebreo non fu giá ella gente natia uscita da Egitto, ma popolo propio di Dio fatto schiavo dagli egizi, poiché, come piú giuso dimostrerassi, l’Egitto a quel tempo era giá passato sotto monarchi e, ’n conseguenza, quando giá era svanito il diritto eroico de’ sacerdoti. Lo stesso che delle turbolenze eroiche de’ villani e sacerdoti di Egitto ha a dirsi de’ fenici e dell’altre nazioni dell’Asia. E per queste cagioni si ritruovano le colonie della seconda spezie menate dagli egizi, da’ fenici, da’ frigi in Grecia; e, dentro il secolo degli eroi di Grecia, le colonie greche da’ greci orientali, cioè dagli attici ed eoli, menate nella piú vicina e piú esposta Ionia, ovverosia Asia minore e, poco dopo questi tempi, le colonie greche da’

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greci occidentali menate nelle piú vicine e piú esposte parti, cioè l’orientali di Sicilia e d’Italia.

[235] Appruova sí fatte colonie la natura de’ paesi dove esse furono menate. Perché l’asprezza, per esemplo, e la sterilitá dell’Attica dá motivo a Strabone di estimare gli ateniesi esser natii di Grecia e che l’attico sia uno de’ primi greci dialetti, per questa istessa cagione che ’l paese non poteva invitare stranieri ad abitarvi: il qual giudizio di Strabone conviene con quello che gli egizi vi fossero stati portati da necessitá di salvarsi. La Magna Grecia non è il piú abbondante né ’l piú ameno paese d’Italia, come il di lei oriente non lo è di Sicilia. Al contrario, i famosi porti di Atene, di Siracusa, di Brindisi dimostrano che queste colonie vi furono dalla fortuna col vento portate. Quivi si mostra ad evidenza un comune error de’ cronologi, che pongono le colonie de’ greci in Sicilia ed in Italia da trecencinquanta anni dopo, cioè a’ tempi di Numa.

[236] Di altra spezie si ritruovano le colonie de’ fenici sparse per gli liti del Mediterraneo, perfino in Cadice, per cagion di traffichi, quali ora sono quelle de’ nostri europei ne’ liti dell’Oceano e nell’Indie. Le quali comunicavano con Tiro, lor capitale, la quale cittá, innanzi al tempo degli eroi di Grecia, è posta da’ cronologi giá, da dentro terra, traspiantata sul lido del mar Fenicio, ed è molto celebre per la navigazione e per le colonie. Ed essendo sparsa da per tutte le antiche nazioni una superstizione di non abitare sui lidi del mare — del qual costume delle prime genti vi hanno bellissimi luoghi nell’Odissea: che, dovunque Ulisse o approda o è da tempesta portato, monta alcun poggio per veder dentro terra fumo che significassegli esservi uomini (il qual costume tra gli stessi suoi antichi greci riconobbe Tucidide nel principio della suaStoria, e ne rifonde la cagione nel timor de’ corseggi), — perciò i fenici, ove truovavano contrade marittime utili per gli traffichi, vi dovettero portare le loro colonie, tra le quali di tutto il mare Interno, dovettero essere le maremme d’Italia da quella di Toscana insino allo stretto di Sicilia. Onde il Giambullari, quantunque nelle cagioni egli siegua il comune errore, pruova però negli effetti

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l’origine della favella toscana, e nel suo corpo e nell’aria ed in uno sformato numero di voci, esser aramia o sia provenuta dalla Siria.

[237] Cosí egli si può far verisimile che capi di picciole brigate, con pochi battelli, senza forza d’armi (come menarono le loro ultime i romani), senza inondazioni di nazioni intiere (come i barbari usciti dalla Scandinavia), per lo non tentato innanzi Mediterraneo (che a quelli dovette essere quale ora a’ nostri europei è l’Oceano), avessero traggittato le nazioni, di Egitto e di Asia, ne’ lidi del mar Interno: onde le lingue greca, latina, italiana debbono alle orientali assai molte delle loro origini.

[238] Certamente i fenici ne menarono una dove poi fu Cartagine, perché videro quel lido comodo per gli traffichi da quella parte del loro mondo, e la lingua cartaginese ritenne moltissimo della sua orientale origine, che da essa Fenicia fu detta «punica», e i cartaginesi ne crebbero in potenza coi traffichi del mare. Quindi si difende Virgilio, il quale si ritruova dottissimo, quanto altri giammai pensar possa, dell’eroiche antichitá, che finse Didone fenicia, premuta dalla fazion del cognato, esservisi portata co’ suoi clienti ed avervi fondata Cartagine innanzi la guerra troiana.

[239] Come pur certamente in Napoli fu adorato il dio Mitra, il qual è vero essere stato il sole a’ persiani (Strabone, libroxv); ma «mithriaca sacra» apertamente Lampridio nelCommodo dice essersi fatti ad Osiri, dio senza contrasto degli egizi, ove Casaubuono li pone insieme con quelli d’Iside, pure indubitata deitá egiziana. Ma i persiani non traggittarono colonie per mare giammai, e gli egizi in questi tempi ebbero superstizione di navigare. Onde resta che i tiri, con una loro colonia, l’abbiano in Napoli traggittati. E la fondatrice [di Napoli] fu detta Sirena, che deve la sua origine senza contrasto alla voce «sir», che vuol dire «cantico» ovvero «canzone» (la quale istessa voce «sir» diede il nome a essa Siria), e poi da’ greci fu detta Partenope. Perciò si dimostra che non mai Virgilio credette Cuma fondata da’ calcidesi, per quello stesso che la chiama

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«euboica»: perché l’arebbe detta «abantica» da essi calcidesi, i quali Omero chiama abanti sempre, eubei non mai; ma la disse «euboica» dalla sibilla, da una cui simile donna indovina Plinio riferisce essere stata detta Eubea l’isola di Negroponte.

[240] Quindi si ritruova l’antichitá delle maremme d’Italia molto piú avanzata di quelle di Grecia, perché a’ tempi della guerra troiana qui truova Ulisse a’ lidi del mare le Circi che co’ piaceri de’ sensi cangiano gli uomini in porci, e le sirene che con la melodia del canto allettano i passaggieri e gli uccidono; che son gli ultimi costumi delle nazioni: mentre la Grecia era ancor severa con gli Achilli, che non vogliono mogli, quantunque grandi regine, perché straniere; severa con gli Ulissi, che impiccano i proci. Perciò si dimostra che ’l sapere d’Italia è assai piú antico del sapere di essa Grecia: perché, mentre qui Pittagora insegna le piú riposte veritá metafisiche, matematiche, fisiche intorno al sistema mondano (ci piace ora, co’ volgari cronologi, porlo a’ tempi di Numa); in essa Grecia ancora avevano a provenire i sette sappienti, che incominciarono da cento anni dopo, de’ quali uno, Talete milesio, fu il primo fisico, che pose un assai grossolano principio in natura: l’acqua.

Capo lxv
Scoverta del primo principio di questa scienza.

[241] Finalmente si truova essere state da per tutto prima le nazioni mediterranee, poi le marittime, che riconosce pur vero Tucidide. Ed investigando nelle cagioni, si medita nel piú gran principio dell’umanitá gentilesca (per la cui ricerca preposimo al libro primo quel motto: «Ignari hominumque locorumque erramus»), con rinvenire tal guisa: che dalla Mesopotamia, che è la terra piú mediterranea di tutto l’universo abitabile e, ’n conseguenza, la piú antica di tutte le nazioni

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del mondo — da dugento anni innanzi che avvenne la confusione delle lingue in Babillonia, le razze empie di Cam e Giafet, incominciando a penetrare la gran selva della terra per ritruovar pabolo o acqua o per campare dalle fiere; — e per lo terror delle fiere dividendosi gli uomini dalle donne e le madri da’ lor figliuoli, senza certe vie da potersi rinvenire; — e rimasti i fanciulli tutti soli, senza udir voce umana, nonché apprendere uman costume; — vi si dispersero dentro da per tutto in una bestial libertá e, per le cagioni molto maggiori di quelle che arrecano Cesare e Tacito della gigantesca statura degli antichi germani, vi crebbero giganti; e poi, ricevutisi alle religioni, si fondarono le loro lingue natie. E ’l tutto si riduce all’antichitá della religione del vero Dio creatore di Adamo, la cui pia generazione, innanzi e dopo il Diluvio, abitò la Mesopotamia.

Capo lxvi
Princípi della sapienza riposta scoverti dentro quelli
della sapienza volgare.

[242] Altronde la meditazione sopra i popoli finalmente condottisi alla setta de’ tempi umani colla naturale equitá delle leggi diede unicamente motivo a nascere tra loro i filosofi che meditassero nel vero delle cose, perché a’ romani giureconsulti restarono quelle formole, diverse nel suono delle parole ma una cosa stessa nel sentimento, «verum est» ed «aequum est». Quindi tra’ romani, dopo spiegata tutta la libertá, che celebra la naturale equitá delle leggi, entrarono le filosofie. Sparta, col suo governo eroico, bandí ogni sapienza riposta. Atene libera fu la madre delle scienze e dell’arti della piú colta umanitá e vi cominciarono i filosofi da Solone, principe de’ sette sappienti di Grecia, che ordinò la libertá ateniese con le sue leggi e lasciò quel motto, pieno di tanta civile utilitá: Γνῶθι/ σεαυτόν, «Nosce te ipsum», che fu scritto sopra gli architravi de’

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templi e proposto come una vera divinitá, la quale, assai meglio che i vani auspíci, avvisava gli ateniesi a riflettere nella natura della loro mente, per la quale ravvisassero l’ugualitá dell’umana ragione in tutti, che è la vera ed eterna natura umana, onde tutti s’uguagliassero nella ragione delle civili utilitá, che è la forma eterna di tutte le repubbliche.

Capo lxvii
Idea d’una storia civile delle invenzioni delle scienze,
delle discipline e dell’arti.

[243] Cosí, a quella stessa fatta appunto, dalle riflessioni politiche sulle leggi de’ tempi umani cominciò a spiccare la metafisica, come, con l’occasione delle spesse osservazioni del cielo la notte per osservare le stelle cadenti, dalle religioni era innanzi cominciata a dirozzarsi l’astronomia. Sopra i quali sí fatti princípi può tessersi una storia civile delle scienze, delle discipline e dell’arti, nate all’occasione delle communi necessitá o utilitá de’ popoli, senza le quali esse non sarebbono giammai nate.

[244] Come la scienza delle grandezze scese da quelle del cielo a queste della terra, dalla quale poi conservò il suo nome la geometria, che nacque tra gli egizi per le inondazioni del Nilo, che dileguavano i termini de’ campi. La geografia nacque da’ fenici per l’accertamento della nautica. E quantunque la medicina prima di tutte dovette nascere botanica — perché i primi uomini di Obbes, di Grozio, di Pufendorfio, tutti senso e quasi niuna riflessione, dovevano avere un senso fine, poco men che di bestie, per distinguere le piante utili a’ loro malori — però la notomia nacque con la spessa osservazione degli aruspici sull’entragne delle vittime; e l’aruspicina fu certamente celebre in Italia da’ toscani, e, quantunque non se ne abbia nessun vestigio in Omero, però Suida pur riferisce un certo Telegono averla portata tra’ greci. Sulla notomia egli è certo che regge

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la cirurgia. Fuori d’ogni dubbio la medicina osservatrice, di cui fu poscia principe l’istesso che fu di tutti i medici, Ippocrate, nacque ne’ templi, dove gli ammalati, guariti, appendevano agli dèi le storie de’ loro malori. E tutto ciò, in ordine alla dimostrazione della provvedenza: che, se non vi fossero state le religioni, non sarebbono stati affatto nel mondo filosofi.

[245] Cosí θεωρήματα, che furono da prima le cose divine della vana scienza della divinazione, terminarono nelle cognizioni eterne della mente e del vero in metafisica; e μαθήματα, che furono da prima cose sublimi in poesia, cioè le favole delle divinitá corpolente, terminarono in cognizioni astratte in matematica per intendere le misure eterne de’ corpi o sia delle utilitá de’ corpi, e quindi le due proporzioni aritmetica e geometrica che le misurino con giustizia. E la contemplazione del cielo, onde provennero gemelle l’idolatria e la divinazione — la quale pur da’ latini fu dettaa «templis caeli», che erano le regioni del cielo disegnate dagli áuguri a fin di prendere gli augúri, appunto come da «schur», «contemplari» furono detti i Zoroasti, — terminò nella contemplazione della universale natura; e quel Giove, che da’ giganti, con la massima poetica sublimitá, fu creduto la volontá del cielo, che cenna con le folgori, parla co’ tuoni, avvisa e comanda per le sue aquile, terminò da’ filosofi in una mente infinita che detta un giusto eterno agli uomini.

[246] Che è tutta la comprensione di questo libro, sopra, nell’Idea di quest’opera, tutto, come in una somma, compreso in quel motto: «Iura a diis posita», e, per questi princípi che riguardano l’idee, è una principal parte di questa Scienza, che noi proponemmo nell’Idea tutta chiusa in quel motto: «A Iove principium musae». L’altra parte principale, dintorno a’ princípi che riguardano le lingue, che comprendemmo sopra, nell’Idea, col motto «Fas gentium», o sia favella immutabile delle nazioni, dimostrerassi nel libro seguente.

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Capo lxviii
Si determina il punto eterno dello stato perfetto
delle nazioni.

[247] In cotal guisa dalla sapienza volgare, che è la scienza delle divine cose delle religioni ed umane delle leggi, uscí la sapienza riposta delle divine cose metafisiche, delle veritá matematiche e de’ princípi della fisica, e delle cose umane che si trattano dalle morali, iconomiche e civili filosofie, per le quali i buoni filosofi studiarono, tutti egualmente, formare, per massime di eterne veritá, quella mente di eroe che ’l popolo ateniese spiegava nell’adunanze col senso comune della pubblica utilitá, onde comandava le leggi giuste, che altro non sono che mente di legislatori scevra d’affetti o di passioni. E qui si determina l’ἀχμή, o sia lo stato perfetto delle nazioni, che si gode quando le scienze, le discipline e le arti, siccome tutte hanno l’essere dalle religioni e dalle leggi, tutte servono alle leggi e alle religioni. Talché, quando elleno o fanno diversamente da ciò, come gli epicurei e gli stoici, o con indifferenza a ciò, come gli scettici, o contro di ciò, come gli atei, le nazioni vanno a cadere e a perdere le propie religioni dominanti e, con esse, le propie leggi; e, poiché non valsero a difendere le propie religioni e leggi, vanno a perdere le propie armi, le propie lingue; e, con la perdita di queste loro propietá, vanno a sperdere quell’altra de’ propi nomi dentro quelli delle nazioni dominanti; e per tutto ciò, sperimentate naturalmente incapaci a governare esse se stesse, vanno a perdere i propi governi. E sí, per legge eterna della provvedenza, la quale [le] vuol in ogni conto conservare, ricorre il diritto naturale delle genti eroiche, per lo quale tra’ deboli e forti non vi ha egualitá di ragione.

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Libro Terzo. Princípi di questa scienza per la parte delle lingue

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[Introduzione]

[248] Per tali princípi finora meditati per la parte dell’idee si ha la filosofia e la storia del diritto del gener umano. Ora, per compiere l’altra parte di questa giurisprudenza del diritto naturale delle genti, per questi altri princípi si va a truovare la scienza di una lingua comune di cotal diritto a tutto il mondo dell’umana generazione.

Capo i
Nuovi princípi di mitologia e di etimologia.

[249] Μῦθος si diffinisce «narrazion vera», e pure restò a significare «favola», che è stata da tutti finor creduta «narrazion falsa». Λόγος si diffinisce «vero parlare», e volgarmente significa «origine» overo «istoria di voci»; e l’etimologie, quali ci sono pervenute finora, di assai poco soddisfano l’intendimento per le vere istorie dintorno all’origini delle cose da esse voci significate. Quindi, col meditarvi, si scuoprono altri princípi di mitologia e di etimologia, e si ritruovano le favole e i veri parlari significare una cosa stessa e essere stato il vocabolario delle prime nazioni.

[250] Perché la povertá de’ parlari fa naturalmente gli uomini sublimi nell’espressione, gravi nel concepire, acuti nel comprendere

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molto in brieve: le quali sono le tre piú belle virtú delle lingue. Qui si scuoprono i princípi della sublimitá de’ detti spartani, popolo per legge di Ligurgo proibito di saper di lettera; della brievitá e gravitá delle antiche leggi, come delleXII Tavole, scritte a’ romani ne’ loro tempi troppo ancor barbari; e dell’acutezza de’ riboboli fiorentini, tutti nati nel Mercato vecchio di Firenze ne’ tempi piú barbari dell’Italia, che fu il nono, decimo, undecimo e duodecimo secolo. Queste sono le tre virtú piú rilevanti della favella poetica: che innalzi e ingrandisca le fantasie; sia in brieve avvertita all’ultime circostanze che diffiniscono le cose; e trasporti le menti in cose lontanissime e con diletto le faccia come in un nastro vedere ligate con acconcezza.

[251] Dipoi la necessitá dello spiegarsi per comunicare le sue idee con altrui e, per inopia di parlari, lo spirito tutto impiegato a pensare di spiegarsi, fa i mutoli naturalmente ingegnosi, i quali si spiegano per cose ed atti che abbiano naturali rapporti all’idee che vogliono essi significare. Qui si truova i primi essere stati parlari muti delle prime nazioni, che dovettero significare gli antichissimi greci per la voce μῦθος, che loro significa «favola», che a’ latini sarebbe «mutus»; e «fabula» agl’italiani restò a significare «favella»; e le favole furono il primo «fas gentium», un parlar immutabile: onde Varrone da «for» disse «formulam naturae» il «fato», il parlar eterno di Dio; e i romani n’ebbero i «fasti» comuni, e per gli pretori, che con formole inalterabili rendessero ragione in pace, e per gli consoli, che con le formole araldiche la rendessero nelle guerre.

[252] Finalmente il niuno o poco uso del raziocinio porta robustezza de’ sensi. La robustezza de’ sensi porta vivezza di fantasia. La vivida fantasia è l’ottima dipintrice delle immagini, che imprimono gli oggetti ne’ sensi.

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Capo ii
Nuovi princípi di poesia.

[253] Sopra queste veritá, convenienti all’uomo di Grozio, di Pufendorfio, di Obbes, si scuoprono i princípi della poesia tutti opposti, nonché diversi, da quelli che da Platone e dal suo scolaro Aristotile, infino a’ dí nostri de’ Patrizi, degli Scaligeri e de’ Castelvetri, sono stati immaginati. E si ritruova la poesia essere stata la lingua prima comune di tutte le antiche nazioni, anche dell’ebrea; con certe differenze, però, fondate sulla diversitá della vera religione dalle gentili e di Adamo, quantunque nudo di parlari, restato però illuminato dal vero Dio.

Capo iii
Si determina il nascimento della prima favola,
che fu il principio dell’idolatria e della divinazione.

[254] Perché gli uomini ignoranti delle cose, ove ne vogliono far idea, sono naturalmente portati a concepirle per simiglianze di cose conosciute. Ed ove non ne hanno essi copia, l’estimano dalla loro propia natura. E perché la natura a noi piú conosciuta sono le nostre propietá, quindi alle cose insensate e brute dánno moto, senso e ragione, che sono i lavori piú luminosi della poesia. Ed ove queste propietá loro non soccorrano, le concepiscono per sostanze intelligenti, che è la nostra propia sostanza umana, che è ’l sommo divino artifizio della poetica facultá, col quale, a simiglianza di Dio, dalla nostra idea diamo l’essere alle cose che non lo hanno.

[255] Qui si scuopre il primo gran principio delle favole poetiche, in quanto elleno sono caratteri di sostanze corporee immaginate

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intelligenti, spiegantino i loro effetti corporei per mezzo delle modificazioni de’ nostri animi umani. E se ne addita la prima di tutte, e si spiega la guisa com’ella nacque, e si determina il tempo in che nacque: che gli uomini della bestial solitudine, almeno come in quello loro stupore piú risentiti, non sappiendo la cagione del fulmine, che essi non avevano giammai innanzi udito — come tanti fanciulli, tutti forza, che spiegavano le loro passioni urlando, brontolando, fremendo: lo che essi non facevano che alle spinte di violentissime passioni, — immaginarono il cielo un vasto corpo animato, che, urlando, brontolando, fremendo, parlasse e volesse dir qualche cosa. Quindi si medita nelle guise, l’istesse affatto che quelle con cui, come gli americani ogni cosa o nuova o grande che vedono credono esser dèi, cosí ne’ tempi superstiziosi di essa Grecia, i greci uomini coloro che con nuovi ritruovati giovassero il genere umano guardarono con aspetto di divinitá, e in cotal guisa avessero fantasticato i loro dèi.

[256] Da’ quali primi incominciamenti della greca umanitá e, al di lei esemplo, di quella di tutte le altre nazioni gentili, comincia una pruova perpetua che si conduce per tutto il tempo che furono dello ’ntutto fondate le nazioni, che gli uomini naturalmente son portati a riverire la provvedenza, e, in séguito di ciò, che la provvedenza unicamente abbia fondate ed ordinate le nazioni.

Capo iv
Primo principio della poesia divina
o sia teologia de’ gentili.

[257] Cosí nacque la prima favola, primo principio della poesia divina de’ gentili o sia de’ poeti teologi. E nacque, quale l’ottima favola dee essere, tutta ideale, che dall’idea del poeta dá tutto l’essere alle cose che non lo hanno. Che è quello che dicono i maestri di cotal arte: che ella sia tutta fantastica, come

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di pittore d’idea, non icastica, quale di pittore di ritratti; onde i poeti, com’i pittori, per tal simiglianza di Dio creatore, sono detti «divini».

[258] Nacque con tutte le sue tre principali propietá:

1. impossibile credibile, perocché ella è impossibile, perché dá mente al corpo, e, nello stesso tempo, credibile, tanto che coloro i quali la si finsero la credettero;

2. all’eccesso maravigliosa e perturbante, che indi in poi fe’ vergognare gli uomini di usar la venere allo scoverto del cielo e, per usarla, [gli] fe’ nascondere per entro alle spelonche;

3. in sommo grado sublime, quanto è il massimo degli dèi esso Giove, e Giove fulminante.

[259] E nacque finalmente tutta ordinata ad insegnare il volgo ignorante, ch’è ’l fine principale della poesia, quanto con questa prima favola gli uomini primi e ignoranti del mondo gentilesco insegnarono a se medesimi una teologia civile contenente l’idolatria e la divinazione.

[260] La quale origine della poesia, cosí con semplicitá e schiettamente narrata, ci persuaderemo che sia piú ragionevole e piú acconcia a’ princípi dell’umanitá (i quali di tutte le altre cose sono naturalmente rozzi e grossolani) che non è quella che si arreca da Platone: che i poeti teologi intesero per Giove una mente motrice dell’etere, che penetra, agita e muove tutto; che conveniva a Platone per fondare la sua repubblica, non a’ semplicioni di Grozio e destituti di Pufendorfio per fondare il genere umano gentilesco. Cosí ne’ moti de’ corpi, che i poeti teologi immaginarono innumerabili particolari divinitá, Platone v’intende una sola mente motrice infinita, che non è corpo, per la propietá di esso corpo, che è di essere mobile e quindi divisibile, non di muovere e di dividere, che è propietá di altra cosa che di corpo.

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Capo v
Discoverta del principio de’ caratteri poetici
che fu il vocabolario delle nazioni gentili.

[261] Ma sopra quello che da principio si è detto: — che intendere appena si può, affatto immaginar non si può, come l’uomo di Grozio, di Obbes, di Pufendorfio avesse pensato, nonché parlato — dopo venticinque anni ormai che corrono di una continova ed aspra meditazione, si è ritruovato finalmente ciò che tal primo principio è di questa Scienza, quale [l’] abicí è ’l principio della grammatica, quali le forme geometriche sono il principio della geometria. Perché, siccome la lettera «a», per esemplo, è un carattere dalla gramatica ritruovato per uniformarvi tutti gl’infiniti diversi o gravi o acuti suoni vocali cosí articolati; il triangolo, per cagion di altro esemplo, è un carattere disegnato dalla geometria per uniformarvi tutte le innumerabili diverse figure in grandezza di tre angoli che si aguzzano da tre linee unite in tre punti: cosí si sono ritruovati essere i caratteri poetici stati gli elementi delle lingue con le quali parlarono le prime nazioni gentili.

[262] Perché, se una nazione, per essere di mente cortissima, non sappia appellare una propietá astratta o sia in genere, e, per quella la prima volta avvertita, appelli in ispecie un uomo da quella tal propietá, col cui aspetto ha ella l’uomo la prima volta guardato; — e sia egli, per esemplo, con l’aspetto di uomo che faccia una gran fatiga comandatagli da famigliare necessitá, onde egli divenga glorioso, perocché, con quella tal fatiga, conservi la sua casa o gente e, per la sua parte, il genere umano; — e l’appelli «Ercole», da Ἥρας κλέος «gloria di Giunone», che è la dea delle nozze e, in conseguenza, delle famiglie: — tal nazione certamente, da tutti i fatti che per quella stessa propietá di fatighe sí fatte avrá avvertito essere stati operati da altri diversi uomini e in diversi tempi appresso, dará a quegli uomini il nome dell’uomo da quella tal propietá

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la prima volta appellato, e, per istare sul dato esemplo, appellerá ogni uomo di quelli «Ercole». E, come tal nazione, [che] si suppone rozza, cosí anche dee essere stupida, che non avvertisca senonsé i fatti piú strepitosi, ella tutte le azioni piú risentite, fatte da diversi uomini in diversi tempi in quello stesso genere di propietá — come, nell’esemplo proposto, di fatighe grandi fatte ai dettami di famigliari necessitá — le attaccherá al nome dell’uomo il quale appellò la prima volta da quella tale propietá, e, per l’arrecato esemplo, appellerá tutti quelli tali uomini col nome comune di «ercole». Per sí fatta natura si ritruovano tutte le prime nazioni gentili, in quanto a questa parte, essere state di poeti.

[263] Della quale antichissima lor natura troppo evidenti vestigi ci sono restati in esse lingue volgari. Come, nella latina, i romani, per esemplo, ignoranti dell’astuzie della guerra, del fasto e de’ profumi, poi che avvertirono il primo costume ne’ cartaginesi, il secondo ne’ capuani, il terzo ne’ tarantini, essi ogni uomo del mondo, nel quale dopoi rincontrarono sí fatti costumi, appellarono o «cartaginese» o «capuano» o «tarantino»: che è stata finora creduta antonomasia finta da capriccio di poeti particolari, la quale provenne da necessitá di natura di sí fattamente pensare e spiegarsi, a tutte le gentili nazioni comune. Talché di sí fatti caratteri si truova essere il vocabolario di tutte le prime nazioni gentili, che ci spiegherá il linguaggio de’ princípi del diritto natural delle genti.

[264] Dalle quali, principiando da ciò per quanto s’attiene alle lingue, incomincia a distinguersi il popolo di Dio, i cui autori, quantunque posti nella stessa povertá di parlari, eran però illuminati dalla cognizione di un vero Dio, creatore di Adamo; e perciò tutte le cose profittevoli alla loro generazione, anche non espressamente loro ordinate da Dio, tutto che diversi di loro in diversi tempi fatte avessero, le dovettero ordinare tutte ad una sola eterna divinitá provvedente. Onde avviene che nella lingua ebrea, benché sia tutta poetica, sicché vince di sublimitá quella del medesimo Omero, come il riconoscono pure i filologi, non si truova però né pure una volta la divinitá

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moltiplicata. E questa istessa dee essere una dimostrazione che i padri della sagra storia vissero veramente i molti secoli che ella narra.

Capo vi
Scoverta delle vere allegorie poetiche.

[265] Le significazioni di sí fatti parlari devono essere state sul lor principio propiamente le allegorie, che pur i greci con tal voce voglion dire «diversiloquia», cioè parlari comprendenti diversi uomini, fatti o cose. Per queste allegorie, dunque, erano da andarsi a ritruovare da’ mitologi significati univoci delle favole, e non gli analogi, con tanto di vaghezza che sembrano esserci state lasciate come prima materia di tutte le interpetrazioni degli uomini addottrinati in tutte le loro diverse spezie loiche, fisiche, metafisiche: e, se lo sono morali, politiche, istoriche, lo sono alla somiglianza de’ costumi, governi, fatti presenti, senza nulla riflettere che dovettero per necessitá di natura essere stati molto diversi i costumi, governi, fatti dell’ultima da noi lontanissima umanitá. Talché i mitologi, piú tosto, essi sembrano essere stati i poeti che fingono tante varie diverse cose sopra le favole; quando i poeti furono essi i propi mitologi, che intesero con le loro favole narrar cose vere de’ loro tempi.

[266] Ma, perché non si può dare dell’idee false, perocché il falso consiste nella sconcia combinazione delle idee, cosí non si può dare tradizione, quantunque favolosa, che non abbia da prima avuto alcun motivo di vero. Ed essendo stato sopra dimostro che le favole unicamente devono essere state istorie delle antichissime faccende umane di Grecia, perciò la parte piú difficile di questo nostro lavoro è stata di meditare ne’ motivi del vero ond’ebbero origine esse favole. Che saranno ad un fiato e i veri princípi della mitologia e i princípi delle storie de’ tempi barbari.

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Capo vii
Idea d’una teogonia naturale.

[267] E con la discoverta de’ caratteri poetici si medita da quali occasioni di umane necessitá o utilitá e a quali tempi si diedero motivi di vero alle menti greche di fantasticare prima di tutt’altro i caratteri de’ loro falsi dèi. I quali si ritruovano essere stati istorie degli antichissimi costumi superstiziosi de’ popoli della Grecia, de’ quali si descrive una teogonia naturale, che spiega le guise della loro generazione, cioè come eglino, qual si è veduto Giove, fossero naturalmente nati dalle fantasie delle genti greche.

Capo viii
Idea d’una cronologia ragionata, per la quale dalle favole degli dèi per quelle degli eroi alle cose della storia certa dovevansi perpetuare le cagioni che influirono negli effetti del mondo gentilesco conosciuto.

[268] Cosí con una cronologia ragionata — o sia condotta con l’ordine naturale secondo la serie dell’idee comuni dintorno le umane necessitá o utilitá — de’ tempi oscuro, favoloso ed istorico, che ha oscuri e favolosi i princípi, si assegnano loro i tempi ne’ quali abbiano dovuto nascere dalle greche fantasie i dèi e gli eroi, e prima gli dèi che gli eroi, siccome pure ci furono tramandati gli eroi essere stati figliuoli degli dèi. Talché, ritruovate le favole eroiche essere state istorie de’ costumi eroici della Grecia, l’opera vegna a contenere un’allegoria perpetua di tutta la storia favolosa, che, incominciando dagli dèi, continuandosi per gli eroi, si congiunga col tempo storico certo delle nazioni.

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[269] Il quale ci pone in comparsa di primo incontro tutte le parti che costituiscono tutta l’iconomia del diritto naturale delle genti, quasi nate tutte ad un tratto, come essi uomini si fingono nati quali cicale da Epicuro o ranocchie da Obbes, e tutte insiem cresciute in un vasto corpo di monarchia, qual fu di Nino, da cui incomincia la storia. Per la quale grandissima mancanza Grozio, Seldeno, Pufendorfio, disperati, trattarono del diritto naturale delle genti assai meno che per metá, cioè solo di quello che ritruovarono appartenere alla conservazione del genere umano, nulla ragionando di quello che privatamente appartiene alla conservazione de’ popoli, dal quale dovette pure uscir quello di che essi trattano. E Obbes dopo Macchiavello ed entrambi dopo Epicuro, per l’ignorazione di tai princípi, trattarono dell’altra metá con empietá verso Dio, con iscandalo verso i príncipi e con ingiustizia verso le nazioni. Ed oltre a questi, Platone, in fondar repubbliche che non ebbero uso alcuno, Polibio, sulla romana in ragionando di repubbliche giá fondate, perderono di veduta la provvedenza. E, perché niuno de’ due nella pratica delle cose umane guardò la provvedenza, entrambi errarono di concerto dintorno a due degli tre, che noi sopra proponemmo, universalissimi princípi dell’umanitá delle nazioni: cioè Polibio, il qual credette potervi essere nazione al mondo di sappienti senza alcuna religione civile; Platone, il quale stimò poter esservi repubblica di sappienti che avessero le donne comuni.

Capo ix
Sette princípi dell’oscuritá delle favole.
Primo principio: De’ mostri poetici.

[270] Ma, per venire a capo pur una volta finalmente della scienza delle cagioni che hanno fatta tutta l’oscuritá delle favole, si stabiliscono i seguenti sette princípi.

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[271] De’ quali il primo è questo. Si pongano uomini nello stato dell’uomo di Obbes, di Grozio, di Pufendorfio, sicché non sappiano astrarre propietá da’ corpi: ove vogliano unire due diverse spezie di propietá di due corpi di spezie diversi, eglino uniranno in una idea essi corpi. Come, se vogliano unire la propietá dell’uomo dall’aspetto umano con la propietá di usar con le madri, e tal atto abbiano essi osservato piú allo spesso nelle bestie mansuete piú salaci e però piú proterve o sfacciate, come i caproni (de’ quali, appo latini, restò propiamente detta «protervia» l’atto del caprone che in amore mira la capra), essi uniranno «uomo» e «capra» e fingeranno Pane e i satiri, i quali, come selvaggi, conforme ne è rimasta l’oppenione, dovettero essere i primi de’ dèi minori. Qui si scuopre il principio di tutti i mostri poetici.

Capo x
Secondo principio: Delle metamorfosi.

[272] Se questi stessi uomini non sappiano spiegare che un corpo ha preso la propietá d’un altro corpo di spezie diversa, per la quale egli abbia perduto quella della sua spezie, perché non sanno astrarre le propietá da’ loro subietti, essi immagineranno un corpo essersi in altro cangiato. Come, per significare una donna, la qual prima divagava, poi si fermò in certo luogo né piú divagò, immagineranno tal donna cangiata in pianta, con quella stessa maniera di pensare onde certamente vennero le metafore «piantarsi» per «istar fermo», «piante di case» le «fondamenta», e sopra tutto «piante di famiglie» i loro ceppi o pedali. Qui si scuopre il principio di tutte le metamorfosi o sieno poetiche trasformazioni di corpi, che era il secondo principio dell’oscuritá delle favole. Nella qual cosa noi qui ci ammendiamo di ciò che ne avevamo scritto altrove.

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Capo xi
Terzo principio: Della sconcezza delle favole.

[273] Da’ duo anzidetti si spiega con faciltá il terzo principio dell’oscuritá delle favole, che è quello della loro sconcezza, nata da menti corte, tarde e povere di parlari, per le quali cagioni gli uomini infelici in sommo grado a spiegarsi uniscono le cose allo ’ngrosso. Come sconcia e inettissima sopra tutt’altre è quella: Cadmo lancia una pietra; uccide il serpente; semina i denti; da’ solchi nascono uomini armati; questi combattono e si uccidono tra di loro: la qual favola si truoverá contenere un gran tratto di storia, che dal tempo che i padri di famiglia ridussero le terre alla coltura [giunge] fin a quello degli eroi politici, i quali fondarono le prime cittá [e] si scorge infino agli eroi delle guerre. Onde s’intenda che sorta di caratteri ritruovò Cadmo, che scrisse tanto di storia eroica con caratteri cosí fatti — ed a’ tempi di Omero, che, posto a’ tempi di Numa, viene ad essere presso ad ottocento anni dopo di Cadmo, non si erano ancora ritruovati i caratteri volgari tra’ greci; anzi famiglie di rapsòdi ne conservarono a memoria i di lui poemi lunga etá anche dopo, — per comprendere in che abisso di oscurezze andarono le favole da’ primi tempi di Grecia fino ad Omero.

Capo xii
Quarto principio: Dell’alterazione delle favole.

[274] Il quarto principio dell’oscuritá delle favole fu quello della loro alterazione. Perché, naturalmente, la mente umana, per l’indiffinita sua capacitá, le cose udite e non diffinitamente rapportate suole ricevere in modo maggiore, e cosí ricevute per lungo tratto di tempo, per mani massimamente d’uomini rozzi e ignoranti, ella deve alterare ed ingrandire all’infinito: ond’è che delle cose o antiche o lontane ci perviene per lo piú molto

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falsa la fama e sempre magnifica, la qual però fu detta «prender forza ed ingrandire per cammino». Questo è ’l principio dell’alterazione delle favole, come di quelle degli smisurati corpi e forze de’ giganti e degli eroi. E questa ancora è la cagione dell’apparenza del mondo, il quale sembra antico assai sopra il merito della veritá e della fede, il quale, nel buio finora delle sue origini, ha paruto agl’increduli della sagra storia presso che di una infinita antichitá, ove alla luce di questa Scienza si dimostra essere molto fresco.

Capo xiii
Quinto principio:
Dell’impropietá delle favole per l’idee.

[275] Il quinto principio dell’oscuritá delle favole egli è che le menti delle nazioni greche, col piú e piú spiegarsi all’infinito, naturalmente andarono ad ingrandire le favole contro la mente cortissima de’ primi loro fondatori e, con lo allontanarsene, ne vennero ad impropiare di molto le significazioni primiere. Cosí per esemplo, a capo di secoli, intesa la vera altezza del cielo e delle stelle per grandissimi spazi sopra la cima del monte Olimpo, dove fino a’ tempi di Omero erano stati allogati gli dèi, esse nazioni greche innalzarono naturalmente i loro dèi alle stelle: e quella espressione d’«innalzare il grido alle stelle» divenne iperbole, che prima si disse con veritá.

[276] Nell’istessa guisa le ale, per cagione di altro esemplo, le quali erano insegne eroiche per significare fatti o ragioni degli eroi, i quali tutte le loro cose facevano dipendenze della divinazione o sia loro scienza degli auspíci — come pure ad evidenza cel narrò la storia romana antica nelle contese eroiche de’ nobili con la plebe, ove questa da quelli pretende nozze sollenni, magistrati ed imperii, ponteficati e sacerdozi, quelli a questa niegano comunicargliele per quella ragione che sempre

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ripetono: «Auspicia esse sua»; la qual ragione i plebei riprendono con quell’altra: i padri, de’ quali Romolo compose il senato, da’ quali essi patrizi discendevano, «non esse de caelo demissos», che è tanto dire che essi non erano eroi o figliuoli di dèi, la quale, se negli auspíci non consisteva l’eroismo de’ nobili, è risposta affatto impertinente — oscuratasi poi tal favola per essersene impropiata l’idea, le ale si credettero poi date per volare in cielo ad Astrea, per portare le ambasciate da cielo in terra a Mercurio, per significare la velocitá del tempo a Saturno, per volare da per tutto alla Fama, alla Vittoria, per dinotare l’ingegno alle muse, al Pegaso, ad Amore, al caduceo; ma ad Imeneo non possono essere state date per altro uso se non che egli scenda dal cielo con gli auspíci, co’ quali i nobili romani dicono alla plebe che essi sol celebravano le nozze giuste. Onde sí fatte ale a’ primi greci tanto servirono per volare o dinotare velocitá ed ingegno quanto nell’America non si portano penne in testa che da’ nobili. E co’ barbari usciti dal Settentrione per le altre nazioni di Europa si risparse tal costume antichissimo di genti che i soli nobili caricassero di penne i cimieri: talché negli antichissimi marmi non ne osserviamo altre caricate che le imprese de’ soli sovrani príncipi e re con tre penne in capo ad essi scudi.

Capo xiv
Sesto principio: Dell’impropietá delle favole da’ parlari.

[277] Il sesto principio dell’oscuritá delle favole egli è che, col cangiar de’ costumi per lungo volger di tempi, i nostri parlari volgari medesimi s’impropiano e si oscurano da se stessi: lo che molto piú dee essere accaduto alle favole. Di che sieno esempli queste tre voci: «lira», «mostro», ed «oro».

[278] Perché la lira da principio fu la corda, pur detta χορδή da’ greci; e la prima corda dovette esser fatta di vinchi, chea

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«vi» si dissero «vimina» da’ latini, appo i quali fu detta «fides», che si truova nel suo retto antichissimo detta «fis», il cui obbliquo è «fidis», in significato di «forza» e «potestá»: onde a’ latini restarono «implorare fidem», «domandare altrui forza in aiuto», e «recipere in fidem», «ricevere sotto la potestá, protezione o imperio». E, con tale allegoria, naturale e convenevole all’etá severa de’ fondatori delle nazioni, si spiegano tutte le favole ove entra il carattere eroico della lira. Che prima fu di una corda di vinchi, significante la potestá di ciascun padre nello stato delle famiglie sotto la forza o imperio degli dèi, che dovette essere la prima e propia «fides deorum». Poi fu di piú corde, composta nello stato delle prime cittá, nelle quali si unirono per ciascheduna piú forze di padri in un ordine regnante che comandasse le leggi, e la legge ne restò a’ poeti detta «lyra regnorum».

[279] L’altra voce eroica era «mostro», che significò da principio «mostro civile», di cui una parte fosse di uomo, l’altra di fiera, come sopra si è detto di Pane e de’ satiri. Nella contesa eroica di comunicarsi le nozze con gli auspíci de’ nobili alla plebe, la storia romana apertamente, appo Livio, conferma ciò che diciamo, ove i padri oppongono a’ plebei che colui che nascesse indi in poi da loro sarebbe nato «secum ipse discors»: parte con gli auspíci sollenni de’ nobili, da’ quali nascevano uomini, cioè da’ concubiti ne’ quali certo era che i figliuoli non giacevano con le madri né i padri con le figliuole per le accertate loro discendenze; parte con gli auspíci privati e incerti plebei, co’ quali essi «agitabant connubia more ferarum». E questi sono i mostri che si gittavano dal monte Taigeta per le leggi spartane, e per le romane, in un capo delleXII Tavole, si buttavano nel Tevere: non giá mostri naturali, come si è immaginato finora, a’ quali, nella loro brievitá delle leggi, non dovevano certamente pensare i primieri legislatori, quando sono i mostri cotanto radi in natura che le cose rade in natura si dicono «mostri», e nella copia delle leggi, di cui giá travagliava sotto gli ’mperatori la romana cittá, sta disposto che le leggi si concepiscano di quelle cose che avvengono per lo piú, lasciando

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alla prudenza de’ maestrati quelle che accadono assai di rado. Con sí fatta mitologia, acconcia e ragionevole, si spiegano tutti i mostri poetici.

[280] L’oro, finalmente, della povera semplice frugalitá de’ primi uomini greci — quando era ancora in zolle né vi era ancora l’arte di ridurlo in massa, molto meno di dargli lo splendore e non se ne poteva avere idea di veruna utilitá — si ritruova essere stato il frumento: onde il Nilo fu detto χρυσοῤῥόας, «portator d’oro», e «fiumi d’oro» il Pattolo, il Tago ed altri fiumi, cioè portatori di abbondanti biade di frumento. Perché fu la stessa l’etá dell’oro de’ greci che l’etá di Saturno de’ latini, detto cosía «satis», da’ seminati, che per mietere usò la falce. Del rimanente, i dèi praticavano con gli uomini in questa etá, a quella fatta che gli eroi si dissero figliuoli degli dèi; Astrea abitava in terra, perché eran creduti regnare in terra i dèi, che con gli auspíci comandassero le umane cose; e l’innocenza era tale quale quella di Polifemo, che dice ad Ulisse esso e gli altri giganti curare le loro famiglie e nulla impacciarsi delle cose altrui. Tutte le altre idee attaccatele di un eroismo pastoreccio galante furono desidèri di ingegni dell’etá di Mosco e di Anacreonte, marci d’amore dilicatissimo. Poi l’oro non ebbe altro uso che di metallo con l’istessa indifferenza che ’l ferro. E con questa allegoria costumata si schiarisce il vero di tutte le favole ove entra il carattere d’oro o tesoro o ricchezza; e si difendono gli eroi d’Omero dalle lorde tacce dell’avarizia, che vogliono essi cangiare i loro scudi di ferro con gli altrui d’oro e, cangiati, non ne rendono contraccambio. Lunga etá dopo, dal pregio e dal colore di cosí gran frutto dell’industria e sí necessario all’umano mantenimento, il metallo fu detto «oro».

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Capo xv
Importanti discoverte del diritto della guerra
e della pace per sí fatto principio di poesia.

[281] Cosí la voce «ladrone» significò, prima di ogni altra cosa «eroe che guerreggia», quando ne’ tempi barbari facevano le guerre senza intimarle, perché le prime cittá si guardavano tra loro come eterne nemiche: onde con sí fatto titolo onorevole sui greci teatri Esone, padre di Medea, la prima volta saluta Giasone. Di che pure vi ha un bel vestigio nella legge delleXII Tavole, ove dice: «Adversus hostem aeterna auctoritas esto», che non mai si perda il dominio della robba occupata dallo straniero, sicché doveva essere una guerra eterna per ricuperarla: onde tanto bisognava significare «straniero» quanto «perpetuo nimico»; e, per essere perpetuo nimico, bastava non essere cittadino, per quella celebre divisione che le antiche genti latine facevano di «civis» e «hostis» per parti che ne’ lor tempi barbari erano sommamente opposte tra loro. Quali sorte di guerre eterne sono oggi tra le genti di Barbaria e le cristiane. Ché per ciò forse dalle cristiane questa costa d’Affrica è detta Barbaria da tal costume barbaro di questi loro eterni corseggi: siccome da’ greci restò detta Βαρβαρία la costa d’Affrica sul mar Rosso, nella quale era la Troglodizia; ma piú innanzi dovettero essere tutte le altre nazioni, da’ greci in fuori, nel tempo che avevano giá spogliato cotal costume, per quella celebre loro divisione di «greco» e di «barbaro», che, piú ampiamente per nazione, rispondeva a quella de’ latini, piú ristretta per cittadinanza, di «civis» ed «hostis». Ma in distesa incomparabilmente piú ampia di quella de’ greci, quasi infinita, il popolo di Dio, per la di lui unitá e veritá, la qual è pur una, divise il mondo delle nazioni tra ebrei e genti. Onde s’intenda con quanto senno Grozio, Pufendorfio e sopra tutti il Seldeno fondino i loro sistemi sopra un diritto comune

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ad entrambi! Dipoi «ladrone» passò a significare «soldato guardacorpo del re», nella qual significazione durava a’ tempi di Plauto. Finalmente restò a significare «assassino».

[282] Cosí l’«ospite», che prima significò «straniero guardato con l’aspetto di eterno nimico» — nel qual significato i trogloditi ammazzavano gli ospiti entrati ne’ loro confini, che fu il costume di tutte le genti barbare, — poi significò «straniero osservato con le leggi santissime dell’ospitalitá»; e dalla ricorsa barbarie agl’italiani restarono «oste» per l’«albergatore» e per gli «alloggiamenti di guerra», che dicono «oste amica» o «nimica». Sí fatte voci, di tanto impropiate negli ospizi di Giasone e di Paride, ci oscurarono le storie della spedizione degli argonauti e della guerra troiana, ed insomma il diritto della guerra di tutte le genti eroiche: anzi, sopra il dissolutissimo Paride, ci tramandarono per iscelleratissimi Giasone e Teseo, di cui fa Virgilio imitatore il suo Enea, i quali tolgono l’onore alle regine donzelle o vedove, ne ricevono benefíci immortali e poi crudelmente le tradiscono e le abbandonano, che non farebbono oggi gli piú scellerati assassini. I quali fatti, per lo diritto delle genti eroiche, furono stimati pieni di giustizia, di rapire eroine ospiti overo straniere, delle quali furono caratteri Medea, Arianna ed Elena; e, ne’ primi tempi, piú severi, dell’eroismo, usarvi come con ischiave e contrarre nozze con cittadine, come Achille professa voler fare agli ambasciadori di Agamennone, che in nome del loro re gli offrono una regina donzella straniera in moglie; o, disprezzato l’eroismo, prenderle in mogli, come fe’ Paride.

[283] Ed in ciò spicca una assai luminosa differenza tra gli ebrei e le genti, perché gli ospizi di Abramo si narrano dalla sagra storia tutti ricchi di una regale umanitá. Che è altra grave ripruova della santitá della legge di natura, che avevano infino ad Abramo osservata i patriarchi innanzi, a cui avevano lasciata sí gran famiglia che con quella fe’ guerra co’ vicini re; ed è altresí grave ripruova che le clientele appo i patriarchi si fondarono piene di benignitá inverso coloro che dal mal governo de’ caldei rifuggiavano alle loro campagne. Talché, oltre la

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patria potestá, che non consagrava innocenti figliuoli a Dio, per le clientele ancora gli ebrei vennero a distinguersi dalle genti.

[284] Or, per sí fatte cose eroiche de’ greci, si rende assai dubbia la storia romana antica in ciò che ne racconta: se i romani rapirono le sabine ricevute ad albergo dentro essa Roma, o scorrendo piú tosto essi per la Sabina (che dovettero essere i giuochi equestri di questi tempi). Se la donzella Orazia fosse stata promessa in moglie ad uno degli eroi Curiazi, di quegli albani che poco prima sdegnarono dar moglie ad esso Romolo, perché straniero, almen per rendere a lui la vece di avergli liberati dal tiranno ed aver loro restituito il loro legittimo re: o pure uno de’ Curiazi avesse quella rapita (come Paride rapí Elena), nel cui séguito ben questa piangeva il morto marito. Quindi si avanzano e si accomunano i dubbi della romana e della greca storia: se pur mai la guerra troiana fu intimata nove anni innanzi, come certamente sul principio del nono anno patteggiano Agamennone e Priamo le leggi della vittoria sopra qualunque cada delle due parti; appunto come la guerra d’Alba si patteggia dopo molti gravi e lunghi danni fattisi vicendevolmente i romani e gli albani; e, sí, egli sia stata natura di esse cose piú tosto che arte di Omero di lasciare i princípi ed incominciare a cantar l’imprese dal mezzo, piú verso il fine. Inoltre, se le prime guerre si facessero con l’abbattersi i principali offesi ed offensori in cospetto d’entrambi i popoli, come la troiana si patteggia sull’abbattimento di Menelao, marito di Elena, e di Paride, di lei rapitore tra’ greci; e tra’ latini l’albana fu quella degli tre Orazi con gli tre Curiazi: il qual costume piú conviene alle menti corte de’ primi popoli ed al costume de’ duelli poco dianzi praticati nello stato delle famiglie, de’ quali le guerre pubbliche ne ritennero il nome fino a’ tempi di Plauto. Certamente Vei sembra la Troia de’ latini, combattuta dieci anni continovi, come altra Troia da’ greci: che fu di entrambe un perpetuo assedio overo l’eterna ostilitá come ora è di quelli della costa di Barbaria con le genti cristiane e di quegli osti, contro a’ quali, per la legge delleXII Tavole, tanto

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tempo anche dopo, «aeterna auctoritas erat»; quando per tutto il tempo appresso, in maggiori forze e con piú ostinati nimici, i consoli uscivano la primavera in campagna e sul cominciar dell’inverno si ricevevano alle loro case. Che le nazioni eroiche, rozze ancore di conti e di ragione, avessero detto «dieci» come oggi diciam «cento» o «mille», per significare un numero grande indeterminato?

Capo xvi
Settimo principio: Dell’oscuritá delle favole.
Il segreto della divinazione.

[285] Il settimo e piú di tutti gli altri natural principio dell’oscuritá delle favole fu egli il secreto della divinazione, per cui i poeti si dissero μύστες che Orazio volta «deorum interpretes», onde le favole dovettero esser i loro misteri e i caratteri poetici la lingua sagra de’ greci. Cosí la serpe, per esemplo, significò a’ poeti eroi la terra, perché ha la spoglia cangiante di nero, verde e giallo, che ogni anno pur muta al sole. Onde l’idra è la gran selva della terra, che, recisa, ripullula via piú capi, detta da ὕδωρ, «acqua», del passato Diluvio, ed Ercole la spense col fuoco, come fanno ancor oggi i nostri villani ove sboscano le selve. Onde Calcante, celebre indovino appo Omero, interpetra, la serpe che si divora gli otto passarini e la madre altresí, significare la terra troiana, che a capo nove anni verrebbe in potere de’ greci, a’ quali pure da ὂφις, «serpe», restò detta ὠφέλεια la preda di guerra. E cosí può esser vero che i poeti involsero dentro i velami delle favole la loro sapienza.

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Capo xvii
Principio della corruzione delle favole.

[286] Sopra questi princípi dell’oscuritá delle favole si fonda quello della corruzione delle medesime. Perché la mutazione de’ costumi, che naturalmente in ogni Stato vanno a cangiarsi in peggio ed a corrompersi, congiunta con l’ignoranza de’ significati propi delle favole, che erano le storie delle greche religioni e dell’eroiche virtú e fatti de’ fondatori della loro nazione, le fece andare in corrottissimi sensi e tutti contrari alle religioni ed alle buone leggi e buone costumanze primiere.

[287] E, per usare tuttavia esempli propi de’ princípi che qui stiamo ragionando, nel tempo che gli uomini greci per lo stupore non dovevano sentire nausea di venere sempre usata con una donna, siccome è pur costume de’ nostri villani, che naturalmente sono contenti delle loro mogli (onde ne’ villaggi non si odono mai o assai di rado adultèri), questa favola che gli eroi erano figliuoli di Giove non poteva significare che idea severa e grave, conforme a sí fatti costumi, ne’ quali non potevano pensare adultèri di esso Giove, i quali non s’intendevano ancora fra gli uomini. Perciò si truova tal favola con poetica brievitá, propia dell’infanzia delle lingue, significare che essi eroi erano figliuoli nati da nozze certe e sollenni, celebrate con la volontá di Giove, significata a’ loro parenti con gli auspíci divini, che gli eroi romani dicevano «auspicia esse sua», e i plebei lor niegavano «esse de caelo demissos». Venuta poi l’etá della libidine riflessiva, perché naturalmente si vorrebbe peccare dagli uomini affatto corrotti con l’autoritá della religione e delle leggi, fu la favola presa per figliuoli fatti con donne da Giove adultero, e, con questa favola cosí presa, acconciamente pur presero per gelosie e per piati e risse di Giunone con Giove e per istrapazzi da Giove fatti a Giunone ed altre favole, che sono tutte appartenenti alla sollennitá

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e santitá delle nozze eroiche, e per ire di Giunone contro Ercole, a fin di spegnerlo come malvisto bastardo di Giove, quelle che si ritruovano fatighe grandi de’ primi padri, comandate con esse bisogne famigliari da Giunone, dea delle nozze. Le quali tutte, perché non contengono le allegorie o significazioni loro propie, vanno a terminare sconciamente che Ercole, il qual fu detto Ἣρας κλέος, «gloria di Giunone», tutto superando con la sua virtú assistita dal favore di Giove, egli viene ad essere, in fatti, di Giunone tutto l’obbrobrio.

Capo xviii
Scoverta di tre etá di poeti eroici innanzi Omero.

[288] Con la scorta di questi lumi si restituisce alle favole la loro luce, e si distinguono tre etá di poeti eroici: la prima di poeti tutti severi, qual conviene a’ fondatori di nazioni; la seconda, che dovette per piú secoli tratto tratto venire appresso, di poeti tutti corrotti — e gli uni e gli altri furono d’intiere nazioni poetiche overo eroiche; — la terza di poeti particolari, che da queste nazioni raccolsero le favole, o sia le loro storie corrotte e ne composero i loro poemi, nella qual terza etá è da porsi Omero, tanto che egli viene a scuoprirsi uno, ed a riguardo nostro, il primo istorico che abbiamo della greca nazione.

[289] Secondo queste tre etá di poeti, Apollo (per continovare sopra i proposti esempli a dare i saggi degli effetti che reggano sopra i ragionati princípi), il quale si ritruova essere il carattere poetico degli indovini, che furono i primi propiamente detti «divini», che prendevano gli auspíci nelle nozze, va perseguitando per le selve Dafne, carattere poetico delle donne selvagge, che per le selve vagabonde usano nefariamente co’ loro padri, co’ lor figliuoli; sicché di Apollo è un seguitare da nume, e, al contrario, di Dafne è un fuggire di fiera. Finalmente

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Dafne è fermata da Apollo; implora l’aiuto, la forza, la fede degli dèi negli auspíci; e diviene pianta, e sopra tutte della spezie del lauro: cioè, con la certa successione de’ vegnenti, pianta le genti, overo case, sempre verdi, sempre vive ne’ loro nomi o casati, che i primi greci conservavano co’ patronimici. Onde Apollo restò eternatore de’ nomi e dio della luce civile, dalla quale i nobili si dicono «incliti», «chiari» ed «illustri». Egli canta (predice, ché pure in bel latino tanto significa) con la lira (con la forza degli auspíci), ed è il dio della divinitá, dalla quale i primi poeti furono propiamente detti «divini»; ed [è] assistito dalle muse, perché dalle nozze, o sia dagli umani congiugnimenti, uscirono tutte le arti dell’umanitá.

[290] Delle quali muse Urania è la contemplatrice del cielo, detta da ὀυρανός «cielo», a fine di prendere gli auspíci per celebrare le nozze sollenni; onde Imeneo, dio delle nozze, è figliuolo d’Urania. L’altra, Melpomene, serba le memorie de’ maggiori con le sepolture. La terza, Clio, ne narra la storia de’ chiari fatti, ed è la stessa che la Fama degli eroi, per la quale essi fondarono le clientele appo tutte le antiche nazioni, le quali da questa «fama» da’ latini si dissero «famiglie», e, da’ traduttori del greco, κῆρυκες (i servi degli eroi in Omero) si voltano «famuli». (Altrove noi avevamo fatto κῆρυκες della seconda e scritto coll’οι [κιρικοί], sull’oppenione di derivarsi indi onde viene κυρία, che pur significa a’ greci «curia», che significasse famoli degli eroi, che hanno il diritto dell’armi in parlamento. Ma tal voce viene dall’essere i famoli presti a’ cenni de’ bastoni de’ loro eroi con l’aspetto di sacerdoti, quando ancora eran mutoli: la qual verga poi fu detta κηρύκειον, che Omero appella «scettro», ed è la verga di Mercurio; e ne’ tempi barbari ritornati non potevano portar bastoni altri che nobili, il qual costume ancor oggi si conserva nelle picciole terre).

[291] Quindi Giove con gli auspíci del fulmine favorisce al lauro (è propizio a’ congiugnimenti con donne certe), ed Apollo si corona d’alloro (perché su tali congiugnimenti si fondarono i primi regni paterni) in Parnaso (sopra i monti, per gli cui

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gioghi si ritruovano le fonti perenni, che bisognavano per fondar le cittá, le quali da παγή «fonte», sul cominciare si dissero «pagi» da’ latini): onde Apollo è fratello di Diana, e ’l Pegaso con la zampa fa sorgere il fonte Ippocrene, di cui beono le muse, ed è il Pegaso alato (perché lo armare a cavallo fu in ragione de’ soli nobili: come tra’ romani antichi e come a’ tempi barbari ritornati i soli nobili armavano a cavallo, e ne restarono detti «cavalieri»).

[292] Questa sembra una mitologia convenevole, spedita, acconcia, niente assurda, niente lontana, niente contorta. Poi se ne andarono oscurando i caratteri, e da’ poeti secondi la favola si corruppe talmente che a’ poeti della terza etá giunsero il seguire di Apollo come di un uomo impudico, il fuggire di Dafne come di dea, contra ogni utilitá di fondare su tal esemplo le nazioni; ed Omero ne fu notato da’ critici che egli faccia comparire gli uomini dèi e i dèi uomini.

Capo xix
Dimostrazione della veritá della cristiana religione.

[293] Sí sozzi corrompimenti delle prime tradizioni de’ fatti, coi quali fu fondato il popolo di Dio, non solo affatto non si ritruovano nella sagra storia, ma si vede una perpetuitá di civil disciplina, tutta degna della vera divinitá del suo fondatore: mentre Mosé la narra, con frase piú poetica che non è quella di Omero, da mille e trecento anni innanzi di questi, posto a’ tempi di Numa; nello stesso tempo che porta da Dio al suo popolo una legge sí dotta che comanda adorarsi un solo Dio, che non cada sotto fantasia con immagini, sí santa che vieta anche le meno che lecite brame. La qual dignitá de’ dogmi intorno alla divinitá, la qual santitá di costumi di tanto oltrepassa la metafisica di Platone, la morale di Socrate, che forse diedero motivo a Teofrasto, discepolo di Aristotile e quindi allievo di Socrate e di Platone, di chiamare gli ebrei «filosofi per natura».

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Capo xx
Prima sapienza legislatrice come fu de’ poeti?

[294] Cosí Apollo egli fu il carattere de’ sappienti della prima setta de’ tempi, la qual fu de’ poeti divini, estimati dalla divinazione o sia scienza degli auspíci, che furono le cose divine che essi contemplarono per regolare prima e principalmente le umane cose delle nozze, per le quali cominciarono gli uomini dall’error ferino a passare all’umanitá. La qual setta fu veramente de’ poeti teologi, che fondarono la teologia de’ gentili ovvero la scienza della divinitá con la contemplazione del cielo a fin di prendere gli augúri; e ne venne alla poesia la somma e sovrana lode che pure ci ha Orazio cantato nell’Arte poetica: che al mondo la prima sapienza legislatrice fu de’ poeti.

Capo xxi
Della sapienza e della divina arte di Omero.

[295] Col lungo volger d’anni e molto cangiar de’ costumi, sporcate, quanto nella favola d’Apollo vedemmo, le greche religioni, surse il grande Omero, il quale, riflettendo sopra la corruzione de’ suoi tempi, dispose tutta l’iconomia dell’Iliade sopra la provvedenza, che noi stabilimmo primo principio delle nazioni, e sopra la religione del giuramento, col quale Giove sollennemente giurò a Teti di riporre Achille in onore, il quale era stato oltraggiato da Agamennone per la ad essolui da quello tolta a forza Criseide, per lo quale regola cosí e governa le cose de’ greci e de’ troiani per tutti i molti, vari e grandi anfratti di quella guerra, che alla perfine dalle cose istesse

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vada ad uscire l’adempimento della sua giurata promessa. Insiememente, vi espone in comparsa, posti al confronto, essa virtú ed esso vizio, perché le religioni poco valevano a tenere in dovere i greci popoli, e fa vedere che l’ospizio violato da Paride e la sua incontinenza cagiona tutta la rovina al regno di Troia: allo ’ncontro Achille, il massimo de’ greci eroi, il quale porta seco la fortuna di quella guerra, che sdegna una donzella regina straniera, che gli offre in moglie il di lei padre Agamennone, principe della Grecia alliata, perché non abbia con essolei auspíci comuni, e professa voler prender moglie nella sua patria quella che ad esso darebbe Peleo, suo padre. Con gli stessi aspetti dispose l’iconomia tutta dell’Odissea sopra la prudenza e tolleranza di Ulisse, che finalmente si vendica ed impicca i proci, uomini perduti nella ghiottoneria, ne’ giuochi, nell’ozio, tutti occupati nelle violenze e danni che fanno al regal patrimonio di Ulisse e nell’assedio delle pudiche Penelopi.

[296] Sopra queste idee compariscono tutti e due i poemi di Omero con aspetto tutto diverso da quello con che sono stati finora osservati. Né si asserisce ad Omero altra sapienza che la civile, acconcia alla setta de’ suoi tempi eroici, per la quale meritò l’elogio di fondatore della greca umanitá (ma per questi princípi con veritá gli conviene quel di ristoratore), né gli si asserisce altra arte che la sua buona natura, congiunta alla fortuna di ritruovarsi ne’ tempi della lingua eroica di Grecia. Perché cotesta sapienza riposta, la quale (in séguito, anche in ciò, di Platone) vi vede Plutarco, e cotesta arte di poesia, che vi scuoprono i critici, oltre la dimostrazione la qual sopra ci accertò che Omero non vide né men l’Egitto, ci vengono entrambe contrastate dalla serie dell’idee umane e dalla storia certa de’ filosofi e de’ poeti.

[297] Perché prima vennero i filosofi grossolani, che posero princípi delle cose corpi formati con le seconde qualitá, quali si dicono volgarmente «elementi»: che furono i fisici, de’ quali fu principe Talete milesio, uno de’ sette sappienti di Grecia. Poi venne Anassagora, maestro di Socrate, che pose corpi insensibili,

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semi in ogni materia di ogni forma per forza di ogni macchina. Appresso, Democrito, che pose corpi con le sole qualitá prime delle figure. Finalmente Platone ne andò a ritruovare i princípi astratti in metafisica e pose il principio ideale. Come, ad un tratto ed anche a rovescio, scese dal cielo in petto ad Omero cotanta sapienza riposta desiderata da esso Platone? Dopo Omero certamente venne la poesia drammatica o sia rappresentativa, e cominciò sí rozzamente, come senza dubbio ci si narra della sua origine, che villani con le facce tinte di fecce d’uve, nel tempo delle vendemmie sopra i carri motteggiavano la gente. Da quale scuola dunque, ove s’insegnava solamente di eroica poesia, apprese, tanto tempo innanzi, Omero tanta arte che, dopo esser salita la Grecia in un sommo lustro di filosofi, di storici, d’oratori, non vi surse mai alcun poeta che potessegli tener dietro se non per lunghi intervalli? Le quali aspre difficultá non si possono solvere che per gli nostri sopra ragionati princípi di poesia.

Capo xxii
Come i princípi delle scienze riposte
ritruovati dentro le favole omeriche.

[298] Perché, per venire gli uomini alle sublimi metafisiche ed alle morali quindi ragionate, la provvedenza cosí permise regolarsi le cose delle nazioni: che, come gli uomini particolari naturalmente prima sentono, poi riflettono, e prima riflettono con animi perturbati da passioni, poi finalmente con mente pura; cosí il genere umano prima dovette sentire le modificazioni de’ corpi, indi riflettere a quelle degli animi e finalmente a quelle delle menti astratte. Qui si scuopre l’importante principio di quello: che ogni lingua, per copiosa e dotta che ella si sia, incontra la dura necessitá di spiegare le cose spirituali per rapporto alle cose de’ corpi. Ove dentro si scuopre

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la cagione della invano finoggi desiderata sapienza de’ poeti teologi, la quale si avvertisce dentro le occasioni e le comoditá, le quali, congiunte con la riverenza che naturalmente si porta alla religione ed all’antichitá, che quanto è piú oscura è piú venerabile, le favole diedero a’ filosofi di innalzarsi a meditare e, insieme, spiegare le loro scienze riposte. Onde essi diedero alle favole interpetrazioni o fisiche o morali o metafisiche o di altre scienze, come loro o l’impegno o ’l capriccio ne riscaldasse le fantasie: sicché essi piú tosto, con le loro allegorie erudite, le finsero favole. I quali sensi dotti i primi autori di quelle non intesero né, per la loro rozza ed ignorante natura, potevano intendere: anzi, per questa istessa loro natura, concepirono le favole per narrazioni vere, come sopra dicemmo, delle loro divine ed umane cose.

[299] Cosí, per trattenerci in esempli de’ nostri stessi princípi, d’interpetrazion fisica son quelle: il Caos per gli poeti teologi egli fu la confusione de’ semi umani: poi questa voce, oscuratasene la propia idea, diede il motivo a’ filosofi di meditare nella confusione de’ semi della natura universale ed insiememente l’aggio di spiegarla col nome «Caos». Cosí Pane, che per gli poeti significò tutta la natura degli uomini cosí ragionevoli come mescolata di ragionevoli e di bestiali, fu preso da’ filosofi a significare la natura universale delle cose. Cosí Giove, che a’ poeti fu il cielo che fulmina — onde agli atterriti giganti, ovunque guardassero, parve di vedere Giove, laonde essi si nascosero sotto i monti, — diede motivo ed aggio a Platone di meditare nella natura dell’etere, che penetra e muove tutto, e fermare la sua circompulsione su quel motto:

Iovis omnia plena.

[300] Per esemplo d’interpetrazion morale, la favola di Tizio gigante, eternalmente depredato il fegato e ’l cuore dall’aquila, che per gli poeti volle dire la terribile e spaventosa superstizion degli auspíci, fu ella acconcia ad esser presa da’ filosofi per significare i rimorsi della rea coscienza.

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[301] Finalmente per esempli d’interpetrazion metafisica: l’eroe de’ poeti, che, generato con gli auspíci di Giove, era perciò creduto da’ poeti teologi d’origine divina, diede occasione ed aggio di meditare e spiegare il loro eroe a’ filosofi: che fosse quello in cui, per forza della meditazione dell’eterne veritá, che insegna la metafisica, divenisse di una natura divina, per la quale naturalmente operasse con virtú. E quel Giove, che, co’ primi fulmini, chiamò pochi de’ giganti, come pochi in quel loro stupore dovettero essere i risentiti, a riceversi all’umanitá — onde vi riuscirono signori sopra i molti stupidi, che non vi si ricevettero che con la fuga de’ mali che loro portavano i licenziosi violenti di Obbes, che furono ricevuti da’ signori come da servi (onde le repubbliche aristocratiche furono dette «governi di pochi», come sopra si è divisato) — fu trasportato a quel Giove che a pochi dá la buona indole di divenire filosofi, e se ne impropiò il motto:

...Pauci, quos aequus amavit

Iupiter. In sí fatte guise Urania, che per gli poeti fu l’osservatrice del cielo per prendere gli auspíci a fin di celebrare le nozze con la volontá di Giove — il perché è figliuolo d’Urania Imeneo, dio delle nozze sollenni — ne’ tempi eruditi diventò l’astronomia, che noi sopra abbiam dimostro essere stata la prima di tutte le scienze riposte.

[302] Per le quali cagioni tutte, onde Platone omerizzò, Omero fu creduto platonizzare. Perché Platone sempre proccurò di spiegarsi con termini della volgare sapienza per far servire la sua filosofia riposta alle leggi; onde dalla sua Accademia quanti scolari uscirono furono tanti eroi della Grecia: quando dal Portico di Zenone non uscí altro che tumore e fasto, e dall’Orticello di Epicuro altro che buon gusto e dilicatezza. E per questa via nelle altre favole si pruova questo argomento: che, se non vi fussero state al mondo religioni, non sarebbero al mondo filosofi.

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Capo xxiii
Guisa del nascimento
della prima lingua tra le nazioni divina.

[303] Anzi senza religioni non sarebbono nate tra gli uomini né meno le lingue per quello che sopra si è ragionato: che non possono gli uomini avere in nazion convenuto se non saranno convenuti in un pensiero comune di una qualche divinitá. Onde dovettero le lingue necessariamente incominciare appo tutte le nazioni d’una spezie divina. Nel che, come abbiamo nel libro antecedente dimostro per l’idee, cosí qui truoviamo che per le lingue si distinse l’ebrea da quella delle genti: che l’ebrea cominciò e durò lingua d’un solo Dio; le gentilesche, quantunque avessero dovuto incominciare da uno dio, poi mostruosamente andarono a moltiplicarsi tanto, che Varrone giugne tra le genti del Lazio a noverarne ben trentamila, che appena tante sono le voci convenute che oggi ne compongono i grandi vocabolari.

[304] La guisa del lor nascimento, o sia la natura delle lingue, troppo ci ha costo di aspra meditazione; né, dalCratilo di Platone incominciando (del quale in altra opera di filosofia ci siamo con error dilettati), insino a Volfango Lazio, Giulio Cesare Scaligero, Francesco Sanzio ed altri ne potemmo in appresso mai soddisfare l’intendimento: talché il signor Giovanni Clerico, a proposito di simiglianti cose nostre ragionando, dice che non vi sia cosa in tutta la filologia che involva maggiori dubbiezze e difficultá. Perché vi voleva una fatiga tanto spiacente, molesta e grave, quanto ella era di spogliare la nostra natura, per entrare in quella de’ primi uomini di Obbes, di Grozio, di Pufendorfio, muti affatto d’ogni favella, da’ quali provennero le lingue delle gentili nazioni. Ma, siccome noi, forse entratici, scuoprimmo altri princípi della poesia e truovammo

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le prime nazioni essere state di poeti, in questi stessi princípi ritruovammo le vere origini delle lingue.

[305] Scuoprimmo i princípi della poesia in ciò: che i primi uomini senza niuna favella dovettero come mutoli spiegarsi con atti muti o con corpi che avessero naturali rapporti all’idee che volevano essi significare, come per questo esemplo: per significar l’«anno», non avendo essi convenuto ancora in questo vocabolo, del quale poi si serví l’astronomia per significare l’intiero corso del sole per le case del Zodiaco, eglino certamente nella loro etá villereccia dovettero spiegare col fatto piú insigne che a’ contadini in natura ciascun anno adivenga, per lo quale essi travagliano tutto l’anno; e, nell’etá delle genti superstiziose (come ancor sono ora gli americani, che ogni cosa grande, a misura della loro capacitá, credono e dicono essere dio), come assolutamente egli è un grande ritruovato dell’industria umana le messi, avessero con una falce o col braccio in atto di falciare fatto cenno di avere tante volte mietuto quanti anni volevano essi significare, e di quei primi uomini che avevano ritruovato le messi, per quello che sopra ragionammo de’ caratteri poetici, fecero carattere divino Saturno. E cosí Saturno fu dio del tempo appo latini nello stesso sentimento che fu chiamato Χρόνος da’ greci; e la falce di Saturno non piú miete vite di uomini, ma miete messi; le ale, non perché il tempo voli. Le quali allegorie morali ragionate nulla importavano a’ primi uomini contadini, che volevano comunicar tra essoloro le loro iconomiche faccende; ma era insegna che l’agricoltura e, per quella, i campi colti erano in ragione degli eroi, perché essi soli avevano gli auspíci. A questa guisa, tutti i tropi poetici de’ ritruovatori delle cose per le cose medesime ritruovate, che sono allogati sotto a spezie della metonimia, si scuoprono essere nati dalla natura delle prime nazioni, non da capriccio di particolari uomini valenti in poesia.

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Capo xxiv
Guisa delle prime lingue naturali
ovvero significanti naturalmente.

[306] Piú s’innoltra la meditazione, e si truova che questi parlari furono i piú propi, sulle false idee de’ fondatori delle gentili nazioni: che le cose necessarie o utili al genere umano, per ciò che ragionammo qui sopra della poesia divina, credettero essere sostanze, e sostanze animate e divine, onde provennero a’ poeti ultimi Giove per lo cielo che tuona, Saturno per la terra seminata, Cerere per lo grano e i trentamila dèi di Varrone. Sopra la quale falsa ipotesi o credenza può esser vera quella tradizione della quale comunemente pur fanno menzione i filologi: che i primi parlari significavano per natura. E quindi si tragge altra dimostrazione della veritá della religion cristiana: che Adamo, illuminato dal vero Dio, impose i nomi alle cose dalla loro natura: però non poté per via di sostanze divine (perché intendeva la vera divinitá), ma di naturali propietá. Onde è che la lingua santa non ha la vera divinitá replicata giammai, e, nell’istesso tempo, vince di sublimitá l’eroica del medesimo Omero.

Capo xxv
Guisa del nascimento
della seconda lingua delle nazioni eroica.

[307] Ne’ tempi appresso, dileguata la falsa oppenione sulla quale si era fantasticato dalle nazioni che ’l frumento fosse dio, e cosí essendo divenuto trasporto per metonimia quello che era stato creduto vocabolo naturale, [è da credere] avessero i villani eroi

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fatto l’istesso atto alquante volte per avventura, a fin di significare tante spighe prima, poi tante messi, finalmente tanti anni: perché le spighe sono piú particolari, le messi hanno pur corpo, ma l’anno è astratto. A questa fatta, tutti i tropi poetici della parte per lo tutto, che son posti sotto la spezie della sineddoche, si ritruovano aver dovuto essere i primi parlari delle nazioni, le quali dovettero incominciare ad appellar le cose dalle prime e principali loro parti; le quali cose andandosi poi piú componendo, i vocaboli delle parti passarono da se stessi a significare gl’intieri. Come quella del «tetto» per la «casa»: perché per gli primi abituri non bisognava altro che fieno o paglia per coprimento; onde restarono agl’italiani dette «pagliare»: appunto come nella legge delleXII Tavole, dalla qual viene l’azione «Tigni iuncti» — quali, a’ primi tempi, dovettero essere travicelli, che soli bisognavano per la materia delle capanne, — poi coi costumi del comodo umano, «tignum» passò da se stesso a significare tutta la materia che bisogna all’architettura per un edificio.

[308] Appresso, ritruovati i parlari convenuti fra le nazioni, i poeti della terza etá, i quali certamente tra’ greci (e poco appresso osserveremo appo i latini [e] per uniformitá di ragione appo tutte le nazioni antiche) scrissero prima de’ prosatori, avessero detto, come Virgilio:

Postaliquot mea regna videns miraboraristas

lo che dimostra l’infelicitá dello spiegarsi delle prime genti latine per la cortezza delle loro idee e per la loro povertá de’ parlari. Finalmente avessero detto, con alquanto di piú spiegatezza:
Tertia messis erat:

come ancor oggi i villani del condato fiorentino numerano tre anni, per esemplo, con dire: «Abbiam tre volte mietuto».

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Capo xxvi
Guisa come formossi la favella poetica che ci è giunta.

[309] In cotal guisa dalla lingua muta de’ bestioni di Obbes, semplicioni di Grozio, solitari di Pufendorfio, incominciati a venire all’umanitá, cominciossi tratto tratto a formare la lingua di ciascheduna antica nazione, prima delle volgari presenti, poetica. La quale, doppo lungo correre di secoli, si truovò appo i popoli primieri, ciascuna, in tutto il suo corpo nel quale ci provenne, composta di tre parti, come ora l’osserviamo, di tre spezie diverse.

[310] Delle quali la prima è [di] caratteri di false divinitá, nella quale entrarono tutte le favole degli dèi: de’ quali laTeogonia di Esiodo, che visse certamente innanzi d’Omero, è un glossario della prima lingua di Grecia, siccome i trentamila dèi di Varrone sono un vocabolario della prima lingua del Lazio. Che Omero istesso, in cinque o sei luoghi di tutti e due i suoi poemi, ove fa menzione di una lingua antica di Grecia, che si era parlata innanzi de’ suoi eroi, la chiama «lingua degli dèi». Alla qual lingua corrispondono i geroglifici degli egizi, overo i loro caratteri sagri, de’ quali s’intendevano i soli sacerdoti, che Tacito, quasi odorando queste nostre cose, chiama «sermonem patrium», parlar natio di quell’antichissima nazione: talché, appo gli egizi, greci e latini, sí fatti parlari divini dovettero essere ritruovati da’ poeti teologi, che furono quelli della prima etá poetica, che fondarono queste tre nazioni.

[311] La seconda è di caratteri eroici, la qual contiene tutte le favole eroiche ritruovate dalla seconda etá poetica, che fu quella de’ poeti eroi, che vissero innanzi di Omero. E, frattanto si formava la lingua divina e la lingua eroica, nascendo e moltiplicando i parlari articolati, si andò formando la terza parte della terza spezie, quale è di parlari per rapporti o trasporti naturali, che dipingono descrivendo le cose medesime che si

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vogliono esprimere. Della qual lingua si ritruovarono giá forniti i popoli greci a’ tempi di Omero, con la differenza che anche oggi si osserva nelle lingue volgari delle nazioni: che sopra una stessa idea parlasse piú poetico un popolo che un altro di Grecia. Da’ quali tutti ne scelse Omero i migliori per tesserne i suoi poemi: onde avvenne che quasi tutti i popoli della Grecia, ciascuno avvertendovi de’ suoi natii parlari, ognun pretese essere Omero suo cittadino.

[312] Alla stessa fatta Ennio dovette fare de’ parlari del Lazio, che riteneva ancor molto del barbaro: come certamente Dante Alighieri, nel cominciarvisi a mitigar la barbarie, andò raccogliendo la locuzione della suaDivina Comedia da tutti i dialetti d’Italia. Onde, come nella Grecia non provenne poeta maggior d’Omero, cosí nell’Italia non nacque poeta piú sublime di Dante, perché ebbero entrambi la fortuna di sortire incomparabili ingegni nel finire l’etá poetica d’entrambe le nazioni.

Capo xxvii
Altri princípi di ragion poetica.

[313] Ed acciocché le cose qui ragionate, particolarmente di Omero si ravvisino esser vere, con isgombrare ogni nebbia con che la fantasia aggravi la nostra ragione, bisogna qui ritendere alquanto di quella forza che femmo sul principio alle nostre nature addottrinate per entrare in quelle de’ semplicioni di Grozio, perché s’intenda che non solo da noi non si dá alcuna taccia ad Omero, ma con metafisiche pruove egli, sopra essa idea della ragion poetica, si dimostri padre e principe di tutti i poeti, non meno che per lo merito, per l’etá.

[314] Imperciocché gli studi della metafisica e della poesia sono naturalmente opposti tra loro: perocché quella purga la mente dai pregiudizi della fanciullezza, questa tutta ve l’immerge e rovescia dentro; quella resiste al giudizio de’ sensi, questa ne

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fa principale sua regola; quella infievolisce la fantasia, questa la richiede robusta; quella ne fa accorti di non fare dello spirito corpo, questa non di altro si diletta che di dare corpo allo spirito: onde i pensieri di quella sono tutti astratti, i concetti di questa allora sono piú belli quando si formano piú corpolenti; ed insomma quella si studia che i dotti conoscano il vero delle cose sceveri d’ogni passione, e, perché sceveri d’ogni passione, conoscano il vero delle cose: questa si adopera indurre gli uomini volgari ad operare secondo il vero con macchine di perturbatissimi affetti, i quali certamente, senza perturbatissimi affetti, non l’opererebbono. Onde in tutto il tempo appresso, in tutte le lingue a noi conosciute non fu mai uno stesso valente uomo insiememente e gran metafisico e gran poeta, della spezie massima de’ poeti, nella quale è padre e principe Omero. A cui Plutarco, come fa il paralello di Cicerone con Demostene, seguitato in ciò da Longino, non degnò porre al confronto Virgilio, come anche in ciò Longino ha seguito Plutarco, che che ne dica in contrario Macrobio. E, perché alcuno non ci opponga che Dante fu il padre e principe de’ poeti toscani e, insiememente, dottissimo in divinitá, rispondiamo che, essendo venuto egli nell’etá de’ favellari poetici dell’Italia, che nacquero nella di lei maggior barbarie de’ secoli nono, decimo, undecimo, duodecimo (lo che non avvenne a Virgilio), se non avesse saputo affatto né della scolastica né di latino, sarebbe riuscito piú gran poeta, e forse la toscana favella arebbe avuto da contrapporlo ad Omero, che la latina non ebbe.

[315] E tutto ciò che de’ princípi della ragion poetica abbiam qui detto ne compruovi che la provvedenza è la divina maestra de’ príncipi de’ poeti. Di che, per lasciare gli altri molti in esso altrove avvertiti, due luoghi d’Omero nell’Odissea a meraviglia il compruovano che Omero fiorí in tempo che la riflessione o sia la mente pura era ancora una facultá sconosciuta: onde ora è detta «forza sacra» o sia nascosta quella di Telemaco, ora «vigore occulto» quella di Antinoo. E dapertutto i suoi eroi «pensano nel loro cuore», «ragionano nel loro

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cuore», e piú di tutti il piú prudente, Ulisse, solo sempre «col suo cuore consiglia»: onde sono quelle poetiche espressioni rimasteci «movere», «agitare», «versare», «volutare corde» o «pectore curas», e in volgar latino sino a’ tempi di Plauto dicevano «cor sapere», onde restarono «cordatus» per «prudente», «socors» per «iscuorato», «vecors» per «iscempione», e presso alla migliore etá della lingua Scipione Nasica fu appellato «corculum senatus», perché ne fu, per comun parere di tutti, giudicato il piú sappiente.

[316] Le quali maniere di pensare gli eroi greci, di parlare i latini non possono non convenire che sopra questa natura: che gli eroi non pensavano senza scosse di grandi e violente passioni, onde essi credevano pensare nel cuore; che ora noi intendere appena possiamo, affatto immaginar non possiamo. E pure questa è una particella della natura de’ primi uomini gentili, nudi affatto di ogni lingua, ne’ quali, sul cominciar questa Scienza, andammo a ritruovare i princípi del diritto naturale delle genti. Ma tuttavia pur oggi, per ispiegare i lavori della mente pura, ci han da soccorrere i parlari poetici per trasporti de’ sensi, come «intelligere» per «conoscere con veritá», donde è esso «intelletto», che è «sceglier bene», detto de’ legumi, onde è esso «legere»; «sentire» per «giudicare», «sententia» «giudizio», che è propio de’ sensi; «disserere» per «discorrere» o «ragionare», che è «sparger semi per indi raccogliere»; e, per finirla, esso «sapere», onde è detta «sapientia», che è del palato, «dar il sapore de’ cibi».

Capo xxviii
Si ritruova la vera origine delle imprese eroiche.

[317] Ora, ripigliando il filo della nostra tela, dal ragionato esemplo di numerare gli eroi contadini nella loro etá poetica le messi per gli anni si scuoprono tre grandi princípi di cose.

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De’ quali uno è dell’imprese eroiche, da cui dipende la cognizione d’importantissime conseguenze intorno alla scienza del diritto naturale delle genti.

[318] Imperciocché bisogna che a tutti coloro che hanno delle imprese ingegnose ragionato, ignari affatto delle cose di questa nuova Scienza, la forza del vero avesse loro fatto cader dalla penna che le chiamassero «imprese eroiche», le quali gli egizi chiamarono «lingua simbolica» o sia per metafore o immagini o simiglianze. La qual lingua anche essi riferiscono essersi parlata nel tempo de’ loro eroi; ma noi qui pruoviamo essere stata comune di tutte le nazioni eroiche sparse per l’universo.

[319] Imperciocché nella Scizia il di lui re Idantura a Dario il maggiore, che gli aveva intimata per ambasciadori la guerra, siccome oggi farebbe il Persiano al Tartaro, che tra loro confinano, manda in risposta una ranocchia, un topo, un uccello, un aratro ed un arco, volendo per tutte queste cose dire che Dario contro la ragione delle genti gliel’arebbe portata.

[320]i. Perché esso Idantura era nato nella terra della Scizia, come le ranocchie nascono dalle terre dove esse si ritruovano: con che dinotava la sua origine da quella terra essere tanto antica quanto quella del mondo. Sicché la ranocchia d’Idantura è appunto una di quelle nelle quali i poeti teologi ci tramandarono gli uomini essersi cangiati nel tempo che Latona partorí Apollo e Diana presso le acque, che forse vollero dire del Diluvio.

[321]ii. Che esso nella Scizia si aveva fatto la sua casa o sia gente, come i topi si fanno le tane nelle terre dove sono essi nati.

[322]iii. Che l’imperio della Scizia era suo, perché ivi esso aveva gli auspíci. Talché per l’uccello d’Idantura un re eroico di Grecia arebbe mandato a Dario due ale, un re eroico latino gli arebbe risposto: «auspicia esse sua».

[323]iv. Quindi che ’l dominio sovrano de’ campi della Scizia era pur suo, perché esso vi aveva doma la terra con ararla.

[324]v. Finalmente che per ciò esso vi aveva il diritto sovrano dell’armi per difendere le sue sovrane ragioni con l’arco.

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[325] Con la lingua, con cui parla la gente eroica della Tartaria, parla appunto Tearco, re di Etiopia. Il quale a Cambise, che pur gli aveva intimata per ambasciadori la guerra (nella quale esso Cambise perí), i quali avendogli presentato da parte del loro re molti vasi d’oro, Tearco, non riconoscendone alcuno naturale uso, gli rifiutò, e comandò gli ambasciadori che ragguagliassero il loro re di ciò che esso faceva loro vedere. E tese un grande arco e ’l caricò di una pesante saetta, volendo significare che esso gli arebbe di persona presentato la forza, perché non l’oro ma la virtú facesse tutta la stima de’ príncipi: che potrebbe portarsi in una sublime impresa eroica, rappresentante vasi d’oro per terra rovesciati e un braccio nerboruto che avventa con un grand’arco una gran saetta. La quale è sí spiegante col solo corpo, che non ha di nulla bisogno di motto che l’animi: che è l’impresa eroica in sua ragion perfettissima, siccome quella che è un parlare muto per atti o segni corporei, ritruovato dall’ingegno, nella povertá de’ parlari convenuti, necessitato, quanto è dalla guerra, a spiegarsi.

[326] Simigliante ad un tal parlare d’Idantura e di Tearco fu ordinariamente quello degli spartani, proibiti saper di lettere, i quali, anche dopo ritruovati i parlari convenuti e le lettere, parlavano cortissimo, come ognun sa: quegli spartani che dicono comunemente i filologi aver conservato assaissimo de’ costumi eroici di Grecia. Come di quello con cui lo spartano allo straniero che si meravigliava come Sparta non era cinta di mura, come non lo furono tutte le cittá eroiche di Grecia per testimonianza di esso Tucidide, rispose additando il petto: con che, anche senza articolar voce umana, poté fare intendere allo straniero questo sublime sentimento, del quale, vestito con parole convenute, ogni gran poeta eroico si pregiarebbe:

Son le mura di Sparta i petti nostri.

Il qual sentimento con parlari dipinti sarebbe una grande impresa eroica, rappresentante un ordine di usberghi eroici con questo motto: «Mura di Sparta»; la qual impresa significarebbe

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non solo che le vere armerie sono i forti cittadini, ma ancora che la salda ròcca de’ regnanti è l’amore de’ sudditi. Cosí quell’altro con cui lo spartano ad altro straniero che voleva sapere fin dove Sparta stendeva i confini, avventando un’asta, rispose: — Fin dove questa si stende: — delle quali parole poteva far guadagno, se non pur lo fece, e farsi intendere senza parlare. Del qual sentimento, vestito di parole, Omero, Virgilio, Dante, Ariosto, Torquato non potrebbero formarne uno piú grande quanto egli sarebbe questo:

Dove giugne quest’asta è nostro impero;

e l’istesso, dipinto, si cangerebbe in questa sublime impresa: un braccio che avventa un’asta col motto: «Confini di Sparta».

[327] Dal natural costume degli antichi sciti, etiopi e, tra’ greci, degl’illitterati spartani, non è punto dissimigliante quel de’ barbari latini, che traluce nella storia romana, in cui deve essere un’impresa eroica quella di una mano che con una bacchetta tronca cime di papaveri che sovrastano ad altre umili erbette, con la quale rispose Tarquinio Superbo al figliuolo che aveva mandato da essolui a consigliarsi che esso si dovesse fare in Gabi, cioè che uccidesse i principali della cittá. La qual istoria o è del tempo piú antico delle genti latine, attaccata al Superbo, perché tal risposta, nel tempo de’ parlari convenuti, è anzi pubblica che secreta; o a’ tempi del Superbo si parlava ancora in Roma con caratteri eroici.

[328] Per le quali cose dette si dimostra ad evidenza nell’imprese eroiche contenersi tutta la ragion poetica, la quale si riduce qua tutta: che la favola e l’espressione sieno una cosa stessa, cioè una metafora comune a’ poeti ed a’ pittori, sicché un mutolo senza l’espressione possa dipignerla.

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Capo xxix
Altri princípi della scienza del blasone.

[329] Il secondo principio è quello della scienza del blasone, che si truova essere la prima lingua del diritto naturale delle genti, che noi, sull’incominciare, dicemmo bisognarvi per ragionare con iscienza de’ suoi princípi. Il parlare del qual diritto fu il celebre «fas gentium», che, chiamando Giove in testimone ad alta voce nell’intimare le guerre e concepire le paci, gli araldi latini gridavano: — «Audi, Iupiter, audi fas»; — che era un parlare sollenne e certo per segni manifesti e naturali, qual è appunto il parlar dell’imprese eroiche, che è una lingua dell’armi, con cui spiegano i manifesti, co’ quali rispondono Idantura a Dario, Tearco a Cambise. Onde da se stessa esce in primo luogo e si scuopre la vera origine dell’imprese gentilizie, che furono una certa lingua armata delle famiglie: le quali imprese furono innanzi l’araldiche, siccome i nomi delle attenenze o i casati furono innanzi delle cittá e le cittá innanzi delle guerre, nelle quali combattono le cittá. Perché certamente gli americani, che si governano ancor per famiglie, dagli ultimi viaggiatori si osservano usare i geroglifici, co’ quali si distinguono tra loro i capi di esse: onde tale si dee congetturare essere stato il loro primo uso appresso le antiche nazioni.

Capo xxx
Nuova scoverta dell’origini delle insegne gentilizie.

[330] Ed invero i princípi della scienza del blasone, sui quali all’ingegno di taluni si è applaudito finora che le imprese nobili sieno uscite dalla Germania col costume de’ tornei per meritare l’amore delle nobili donzelle col valore dell’armi, agli

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uomini di acre giudizio facevano rimorso di acconsentirvi, tra perché non sembrano aver potuto convenire a’ tempi barbari ne’ quali si dicon nati, quando popoli feroci e crudi non potevano intendere questo eroismo di romanzieri; e perché non ne spiegano tutte le apparenze e, per ispiegarne alcune, bisogna sforzar la ragione.

[331] Le parti che compongono l’intiera iconomia di questa scienza sono scudi, campi, metalli, colori, armi, corone, manti, fregi, tenenti, le quali tutte si ritruovano esser parlari dipinti de’ tempi eroici significántino ragioni di signoria. Perché, primieramente, egli è necessario che le antiche attenenze o case, che furono le genti maggiori, avessero preso i nomi da quelle terre ove esse case si ritruovano piantate e, per le genealogie de’ loro maggiori, che vi avevano, come ivan morendo, seppelliti, erano accertati esserne essi i sovrani signori per quegli auspíci che i loro ceppi avevano seguíti nell’occuparle vacue. Onde «terrigenae» agli ateniesi ed «ingenui» a’ romani significarono da prima «nobili»; appunto come ne’ tempi barbari ritornati gran parte delle nobilissime case, e le sovrane quasi tutte, prendono il nome dalle terre da loro signoreggiate; onde pure agli spagnuoli restò «casa solariega», o sia di suo solaro o campo, per dire «casa nobile». Da sí fatte case piantate in certe terre con sí fatte attenenze overo genti da’ latini i nobili si dissero «gentiles», perché essi soli da prima, come pur Livio il narra, avevano la gente; ed altronde appo gl’italiani, francesi, spagnuoli restò «gentiluomo» a significar «nobile». E per rigore di legge araldica non possono alzare impresa altri che i soli nobili; e quindi ancora si dissero «genti d’armi» i soldati, perché prima i soli nobili, ch’avevano la gente, avevano il diritto dell’armi: onde dopo a noi ne’ diplomi reali antichi restò «miles» per «nobile».

[332] Per tutto ciò, nello scudo, che è il fondamento dell’impresa gentilizia, quello che si spiega si dice «campo», il quale è propiamente «terra arata» e poi passò a significare «terra ingombrata da alloggiamenti e da battaglie». Perché le genti maggiori, che, con ararle, avevano ridotte le prime terre a’

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campi di semina, fecero le medesime campi d’arme, quando le difesero dagli empi ladroni delle biade o delle messi, che essi signori uccidevano sopra il furto; e l’imprese restarono egualmente a significare i nomi delle case nobili e i fatti d’armi, e gli scudi se ne dicono «armi», come lo sono di difesa, e «divise di nobiltá».

[333] Con sí fatti princípi si rende facile la significazione de’ metalli e de’ colori co’ quali si distinguono l’imprese nobili.

[334] L’oro è ’l piú nobile de’ metalli, ma quello che da prima significò l’oro de’ poeti, il frumento: come a’ romani restò di dare in premio a’ forti soldati certa misura di farro, che fu il primo frumento romano. Cosí il piú nobile di tutti i colori è l’azzurro, significante il colore del cielo, dal quale furono presi i primi auspíci, co’ quali furono occupate le prime terre del mondo; onde vennero le insegne reali ne’ secoli barbari, quali si veggono ornate in capo con tre penne, e ne restarono le penne a’ cimieri d’insegne nobili: talché il colore azzurro significa signoria sovrana ricevuta da Dio.

[335] I rastelli, de’ quali in gran copia sono caricati gli scudi nobili, significano gli antenati aver dome le loro terre; e i vari, che son pure frequenti divise di nobiltá, significano i solchi delle terre arate, da’ quali nascono gli uomini armati di Cadmo, che egli seminò co’ denti dell’ucciso serpente, volendo dire con legni duri curvi, co’ quali dovettero le terre essere arate innanzi di truovarsi l’uso del ferro, che, con bella metafora, dissero «denti della gran serpe» (della terra); e ’l «curvo» si disse «urbum», da «urbs», a’ latini.

[336] Perché le fasce e le bande si è detto pure innanzi da altri che fossero le spoglie de’ nimici, delle quali i soldati vittoriosi caricavano i loro scudi in segno del loro valore. Siccome certamente tra’ romani i soldati che si erano segnalati ne’ fatti d’armi solevano i premi loro distribuiti da’ loro imperadori riportare sopra gli scudi, tra’ quali i piú riputati erano l’aste pure o non armate di ferro, quali erano state quelle con che armeggiarono gli eroi innanzi di sapersi l’uso del ferro: come armeggiavano i barbari con aste d’alberi bruciate in punta, perché

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fossero aguzze a ferire, che i romani storici dicono «praeustas sudes», con le quali appunto furono ritruovati armeggiare nella loro scoverta gli americani. Onde ci vennero tra’ greci Minerva, Pallade, Bellona armate d’asta; appo i latini Giunone e Marte appellati «quirini» da «quiris», «asta», e «Quirino» Romolo; come gli eroi, appo Omero e Virgilio, armati d’aste; e l’asta restò armadura propia spartana, la gente eroica di Grecia; e ne’ tempi barbari ritornati solo le genti d’arme, overo i nobili, armeggiaron con esse: il qual costume oggi è restato loro ne’ soli tornei. Talché queste aste devono essere i pali, che frequenti si vedono nelle nobili imprese. Laonde tutti gli scudi caricati di sí fatte spoglie ed armi devono essere state veramente imprese eroiche dell’etá nuda di lingue, che con essi corpi parlavano.

[337] Degli altri colori è piú ragionevole che i Germani l’avessero essi da queste loro antichissime origini. De’ quali certamente, come anche de’ Galli e de’ britanni, racconta la storia romana che i príncipi di queste nazioni, per esser forse cospicui nelle battaglie, guerreggiavano con gli scudi dipinti e con vesti di vari colori, i quali, in abiti sí fatti menati in trionfo, davano la piú bella veduta al popolo romano spettatore.

[338] I manti dell’imprese dovettero appo gli eroi essere quelle che si dissero da’ latini «personae» — non giá da «personare», co’ volgari etimologi, dal rimbombare la voce dell’istrione dentro la maschera, acciocché fosse udito da tutto il teatro, onde la maschera fosse detta «persona» (la quale origine non conviene a piccioli teatri de’ popoli ancor minuti); — ma da «personari», che, come noi altrove ritruovammo, significa «vestirsi di pelli di fiere uccise». Quale certamente ci fu dipinto Ercole coverto della pelle del leone, ed altri eroi, appo Omero e Virgilio, vestono pelli d’orsi e di tigri: delle quali ultime fiere le macchiate pelli i sovrani poi forse cangiarono in zibbellini distinti di codette nere, come i romani nobili distinsero le loro toghe bianche con simiglianti codette di porpora, che dalla forma chiamavano «clavos». E da queste loro «persone» ne’ tempi barbari ritornati forse i grandi signori ci restarono detti «personaggi».

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Sí fatte pelli o manti eroici erano divise di nobiltá, significanti che i soli eroi avevano il diritto dell’armi, e quindi della caccia con le fiere, che fu la prima scuola delle future guerre con gli uomini: come in Germania ancor oggi serbasi questo eroico costume che la caccia è in ragione de’ soli nobili. Quindi, appo Omero, spesso circondano gli eroi i cani che i traduttori voltano «mensales», che devono essere stati cani da caccia, che imbandivano le carni selvaggine sulle mense eroiche. Queste ragionate cose possono render ragione perché de’ tempi barbari ultimi si osservano tuttavia gli scudi sembrar coverti di cuoi, le cui estremitá formano i cartocci, che loro al capo, a’ piè, a’ fianchi fanno acconcio ed ornato finimento, e a’ piedi degli scolpiti difonti nobili si osservano due cani per significare la loro nobiltá.

[339] Poté anche nel tempo delle famiglie fingersi per tenente dell’imprese gentilizie la Fama, dalla quale, come sopra si è dimostro, furono dette le famiglie, che si componevano di famoli, che sono κῆρυκες d’Omero, detti «clienti», quasi «cluenti», dall’antico «cluer», ch’è «splendor d’armi», donde gli eroi si appellano «incliti», da cui i clienti furon detti, quasi risplendenti con la gloria de’ loro incliti. Alla qual voce latina «cluer», cui somiglia il greco κλέος, «gloria», dalla quale Ercole fu detto Ἣρας κλέος, «gloria di Giunone», risponde Clio, la musa che con la tromba canta le storie degli eroi: ond’è il verbo «cluere», il «rifulgere con le armi», alla quale origine deve il suo nome certamente esso «clypeus», lo scudo.

[340] Finalmente, quando avvennero le prime turbolenze eroiche, per le quali i clienti si ammotinarono in plebi e i nobili si strinsero in ordini, sopra i quali sursero le prime cittá, alle quali per richiamarsi i plebei bisognò ritruovare le ambascerie, vennero gli ornamenti e le corone alle imprese nobili. Ché, in quella semplicitá, mandarono gli araldi cinti il capo e coverti le spalle di erba santa, che sono le verbene (con che si armavano di superstizione, perché forse era tenuta erba a’ soli nobili lecita di toccare), della qual erba vestiti, fussero sicuri tra

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essi infesti nimici. E ne restò ad essa erba il nome di «santa», d’«inviolabile», con la cui santitá furono sante le mura, che erano i primi recinti delle picciole cittá come siepi, quali si ritruovarono quelle dell’America, dalle quali mura si coglievano, come certamente gli araldi romani coglievano le verbene dalla ròcca del Campidoglio; e dalla stessa erba santa furon detti «santi» gli ambasciadori che la vestivano, «sante» le leggi che essi ambasciadori portavano.

[341] Fornirono altresí il caduceo di ale, e di ale ornarono le tempia e i piedi, come poi ne restò dipinto Mercurio, dio dell’ambascerie, per significare che venivano mandati da’ nobili, de’ quali erano gli auspíci; e ne vennero all’imprese le corone co’ raggi, che sono i lati e gli angoli delle foglie, e le frondute, che sono quelle de’ príncipi, e i lambrequini, che sono fogliami, che, cadenti da’ cimieri, cuoprono le spalle delle armi e le penne sopra essi cimieri.

Capo xxxi
Altre origini dell’insegne militari.

[342] Sopra questi princípi s’innalberarono le insegne militari, che sono una certa lingua armata delle cittá, con la quale, come prive di favella, fansi intendere tra loro le nazioni ne’ maggior loro affari del diritto naturale delle genti, che sono le guerre, le allianze, i commerzi.

[343] Quindi le aquile si dipinsero nelle insegne romane, co’ cui auspíci Romolo prese il luogo dove e’ fondò Roma. Le aquile nell’insegne greche fin da’ tempi di Omero, che poi si unirono in un corpo con due capi dappoi che Constantino fece due Rome capi dell’impero romano. Le aquile nell’insegne degli egizi, il cui Osiri fu dipinto un corpo umano col capo di aquila.

[344] Con questa condotta si può soddisfare la meraviglia di tanti lioni che alzano per imprese tante case nobili dell’Europa, tante

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cittá, tanti popoli e nazioni, e, quel che fa piú meravigliare, altri azzurri, altri d’oro, altri verdi, altri neri, i quali, siccome non si leggono nella naturale, cosí difficilmente ci narrano alcuna storia civile, senonsé quelli significano le terre o prese con gli auspíci del cielo o ridotte alla coltura, di cui sono i tre colori: nero nel seminarsi, verde nel germogliare, d’oro nel raccôrne le messi. Perché in uno sformato numero le prime cittá furono dette «are», come si può osservare nell’antica geografia per una stessa idea di fortezza, onde «ari» in lingua siriaca significa «lione», dal quale essa Siria fu detta Aramia o Aramea, di cui tutte le cittá furono dette «Aram», con l’aggiunta del propio di ciascheduna o innanzi o dopo, come osserva il Cellari. Ed ancor oggi nella Transilvania si dicono «Are de’ Cicoli» le cittá abitate da un’antichissima gente unna, tutta di nobili, che, unitamente con due altre d’ungari e sassoni, compongono tutta quella nazione. E nel cuor dell’Affrica ci restarono, appo Sallustio, famose le «are de’ fratelli Fileni», detti i confini dell’imperio cartaginese e del regno cirenaico. Da un simigliante «ari», lione siriaco, forse Marte, appo greci, fu detto Ἄρης; e, come «aram» appo i siri fu il nome generale delle cittá, cosí appo i latini universalmente la cittá fu appellata «urbs», che diede la sua origine alla voce antica «urbum», la curvatura dell’aratro, nelle cui prime sillabe entra la voce «ara». Talché, se Ercole egli uccise il lione di cui vestiva la pelle, senza dubbio il lione, il quale col fuoco che vomita brucia la selva nemea, ucciso da Ercole, dovette in lingua eroica significare in altra parte di Grecia quello che in altra parte significarono le serpi che Ercole uccide bambino in culla (cioè sul nascente eroismo), in altra l’idra, in Esperia il dragone. E ’l dragone d’Esperia vomita fiamme, e l’idra è uccisa con fuoco, come il lione nemeo con le sue fiamme dá fuoco a quella selva: le quali favole tutte debbono significare una spezie di fatiga di vari Ercoli greci, cioè la selva della terra ridotta col fuoco a coltura, come pur ora i nostri villani col fuoco sboscano le selve che vogliono seminare.

[345] Con questo antichissimo linguaggio dell’armi si spiegano

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le imprese pubbliche, le quali si caricano o si fregiano con dragoni: dipinti spinosi e squallidi, qual era la gran selva della terra; sempre vegghianti, come l’idra recisa sempre in piú capi ripullula e vive; con la pancia solcata dai solchi di Cadmo tra le quali bellissima è quella dello Stato di Melano, celebre reggia de’ goti, che alza la nobilissima casa Visconti, che è un dragone che divora un fanciullo, appunto quale il Pitone (che è la gran selva incolta della Grecia, e forse l’Orco de’ poeti, che divora gli uomini della vita bestiale, che non lasciano con le certe discendenze niuna memoria di sé), che poi fu ucciso da Apollo, eternatore de’ nomi, come si è detto; — e i dragoni nell’imprese armati di ale, che, come tante volte abbiam detto, furono insegne di eroi.

Capo xxxii
Origini eroiche dell’insigne ordine
del toson d’oro e del blasone reale di Francia.

[346] Come di due dragoni che vomitano fuoco fregia ben due cimieri la casa reale di Spagna, dopoi che derivossi nella casa di Austria de’ duchi di Borgogna: che devono essere due tenenti dell’insigne ordine del Toson d’oro, pendente da una collana di pietre focaie, sfavillanti fuoco, ciascuna percossa da due focili. Sicché l’ordine del Toson d’oro è una medaglia eroica del tempo di Ercole scitico, che nel Settentrione si parlava con imprese eroiche, come si è sopra dimostro che Idantura, re della Scizia, con cinque corpi, overo cinque parole eroiche, rispose a Dario il maggiore, che gli aveva intimata la guerra. La quale impresa eroica dimostra che i primi fondatori dell’augustissima casa discesero dalla Scandinavia e fin da quel tempo erano signori sovrani di terre colte, ed avevano ragione libera di predar greggi dagli stranieri, che, come si è pur sopra dimostro, da prima furono perpetui nimici; e, in

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conseguenza, che l’augustissima casa d’Austria gode una perpetuitá di quattromil’anni di sovrana signoria.

[347] Sulla quale impresa istituí l’ordine Filippo il Buono in Bruges a’ 10 gennaio l’anno 1429, per Chifflezio, cioè trecento anni addietro, che la Fiandra era ancor barbara né poteva intendere queste imprese pompose erudite: tanto piú che ancor penano i dotti ingegni ritruovarne l’allegoria; onde finora si è dubitato se tal impresa alluda al vello d’oro di Giasone, come attesta il Pietrasanta. [Ma] se alcun pur siegua a dire che questa impresa sia stata tolta per alcun duca di Borgogna dalla greca favola di Giasone, rispondiamo, domandando: da qual parte le greche favole pervennero a’ giapponesi, che fregiano da per tutto il soglio del loro imperadore di dragoni? da qual parte a’ chinesi, che ebbero fino a due secoli fa impenetrabili i lor confini agli stranieri, i cui imperadori hanno istituito un ordine di cavalieri dell’abito del Dragone?

[348] Procedendo con l’istesso ordine di combinare, dovettero nelle loro insegne esser portate tre ranocchie d’Idantura, delle quali poco sopra si è ragionato, da tre príncipi de’ Franchi, quando con l’altre nazioni scesero dalla Scandinavia: che poi si unirono in un corpo — che è ’l blasone di Francia — e, formate rozzamente, furono credute tre rospi, che appresso si cangiarono in tre gigli d’oro, che pure verso il guscio si dividono in due frondi, contro la natura di sí fatto e di ogni qualunque fiore, perché rappresentano i piedi di dietro delle ranocchie, come le tre frondi in cima [i] due piedi dinanzi e i capi. Laonde fin da Idantura, che sarebbe stato tra’ greci dal nascimento di Apollo e di Diana, nel quale gli uomini si cangiarono in ranocchie, come si è poco sopra dimostro, il blasone di Francia spiega quella real casa godere quattromil’anni di continovata sovranitá.

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Capo xxxiii
Altri princípi della scienza delle medaglie.

[349] Il terzo principio è della scienza delle medaglie, che furono geroglifici overo imprese eroiche, con le quali gli eroi conservarono le loro storie. Onde forse ebbero appo latini il nome di «monete» cheammonissero a’ vegnenti le antichitá de’ trasandati; e appo greci la moneta fu detta νόμισμα, che, quasi indovinando, Aristotile disse venire da νόμος, «legge», che fossero le monete il parlare delle prime leggi. Onde si possono osservare tante medaglie delle greche cittá, per insistere sempremai in esempli di queste istesse cose che ragionamo, nelle quali sono impresse o un’ara o una serpe o un dragone o un treppiè; donde rendevano gli oracoli i poeti overo indovini eroi. Perché i regni eroici, come vedemmo dentro la storia romana antica, tutti si contenevano negli auspici, e dal greco ne trasportò Orazio quel motto con cui chiama i treppiedi «virorum praemia fortium».

Capo xxxiv
Con la lingua dell’armi si spiegano i princípi del diritto naturale delle genti che trattano i giureconsulti romani.

[350] Conviene questa lingua dell’armi al comun costume delle antiche nazioni che ebbero di convenire armate nell’adunanze, e di convenirvi i soli eroi, che soli avevano l’imperio dell’armi, come l’abbiam dimostro qui sopra coi cureti sparsi in Italia, in Grecia, in Asia, e de’ Germani del suo tempo cel narra Tacito. Ora, perché i soli eroi avevano l’imperio dell’armi, perciò essi soli l’avevano delle leggi: le quali avendo

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essi altronde sparse di superstizione, quindi le religioni comparivano col viso dell’armi in casa, e fuori tutte di religione erano sparse le guerre, onde combattevano per gli dèi delle loro patrie, nelle quali le nazioni vinte perdevano le pubbliche religioni con perdere i loro dèi, che gli araldi avevano innanzi ad alta voce invitati ad uscirsi nello intimarle. Di sí fatto costume delle genti eroiche è forse reliquia quello delle genti cristiane: che le campane delle vinte cittá vengano tra le prime prede della guerra.

[351] In séguito di ciò, le genti vinte non potevano piú celebrare nozze sollenni e civili, perché, avendo perduti gli dèi, avevano perduti gli auspíci pubblici, co’ quali si celebravano le nozze civili e sollenni, e, sí, contraevano matrimoni naturali, onde non avevano piú patria potestá tale quale l’avevano i cittadini romani. E sí rallentossi per le provincie quell’imperio ciclopico che esercitavano i padri eroi sulle vite ed acquisti de’ loro figliuoli di famiglia.

[352] Con la perdita degli auspíci pubblici, che credevano essere la volontá degli dèi commessa all’ordine degli eroi, che in conseguenza rendeva la volontá di essi ordini sovrana con un’assoluta libertá, perdevano l’imperio delle leggi e dell’armi: sicché non potevano piú i vinti popoli convenire armati nell’adunanze. Perciò perdevano il dominio armato, che i romani dicevano «quiritario»: onde, come vivi non avevano piú patrimonio, cosí morti non lasciavano ereditá, ma quella che in romana ragione chiamasi «bonorum possessio», che è una ereditá naturale o un ammasso di tutti i beni del difonto, la quale, perché non era conosciuta dal diritto eroico de’ popoli che avevano la gente e, in conseguenza, era sconosciuta alla legge delleXII Tavole, era ministrata fuori di ordine da’ pretori.

[353] Per cosí fatte cagioni perdevano il diritto del nodo, che, nel tempo delle nazioni mute ancor di favella articolata, era un’impresa eroica significante che i domíni privati, soggetti di quel popolo che aveva suo il nodo, erano dipendenze di un dominio pubblico sovrano di sua ragione, di sua signoria, di sua libertá: che poi, ritruovati i favellari convenuti, passò nella

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formola della revindicazione, cosí conceputa: «Aio hunc fundum meum esse ex iure quiritium», nella propia significazione di questo nome di ragion civile, che è vero fondamento di tutti gli altri: — «fundus» — quale abbiamo qui sopra dimostro che è in dominio delle sovrane potestá. Laonde con tal formola «ex iure quiritium», o nel consegnare il podere con la solenne consegna del nodo, o per la consegna fatta del nodo nel vendicarlo, volevano dire che, in forza e ragione del dominio eminente, che prima i soli padri, poi tutto il popolo romano in adunanza aveva di tutto il largo fondo romano, essi privatamente avevano il dominio civile de’ poderi che consegnavano o vendicavano, i quali appellarono «praedia» con sí fatta significazione natia di tal nome di civil ragione: che col nodo de’ poderi i cittadini sono «praedes reipublicae», cioè con le robe stabili sono obbligati al pubblico erario, perché delle prime prede eroiche si composero le plebi delle prime cittá, come si è disopra dimostro. Che è la ragione, come appresso vedremo, delle gabelle overo de’ dazi, e, oltre a ciò, perché le servitú s’imponevano «praediis», che erano di natura soggetti, che perciò si dicono «iura praediorum», ma non a’ fondi, che per loro natura sono in dominio libero de’ sovrani. Onde in natura sono tre spezie e non piú di signori con tre spezie diverse di domíni sopra tre spezie diverse di cose: cioè i padroni utili, signori de’ commodi che si sostengono da’ poderi; i padroni diretti, signori de’ poderi che si sostengono da’ fondi; i sovrani, signori de’ fondi che sostengono questo mondo civile delle nazioni. E tutto ciò, per quell’autoritá di dominio commessa da Dio alle potestá civili nel governarlo. Sicché il nodo era l’impresa eroica della pubblica libertá appo tutte le antiche nazioni, come dimostreremo nella mitologia di Ercole al libro ultimo.

[354] Perché nell’etá poetica tanto era dire «popolo di suo nodo» quanto dopoi «populus suae potestatis», popolo di cui è propia δύνανις «potestas»; onde è δυναστεία «popolo che ha propia sovranitá». Come l’araldo romano per la formola di Tarquinio Prisco stipola il nodo: — «Est ne populus collatinus suae potestatis?

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» — ed i plenipotenziari di Collazia rispondono: — «Est». — Con perdere l’impresa eroica del nodo perdevano la gente e quindi anche l’agnazione, che è parte della gente, perché ciascuna famiglia è parte del casato, donde si diramò. Or, come contraevano matrimoni naturali e divenivano padri naturali de’ figliuoli, padroni naturali de’ campi con quella spezie di dominio che in ragion romana chiamasi «bonitario», cosí i popoli vinti restavano «cognati» o sien congionti per sangue, e sí per sola natura.

[355] Avendo le provincie perduti i dèi, perdevano anche il «fas deorum», o sia il parlare sagro col quale si dicevano «nuncupari vota», e quindi il parlar pubblico, che concepivano sempre con aria di religione, col qual parlare Tarquinio Prisco stese la formola della resa di Collazia, per dirla alla latina, «nuncupatis verbis», con parole sollenni di stipulazione e di accettazione, come appo Livio si può vedere. Cosí i popoli vinti, spogliati del diritto delle genti eroiche nel capo della legge delleXII Tavole contenuto: «Qui nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto», per lo quale ne’ tempi eroici né meno la vendita e compra, che è il principe de’ contratti, era osservata di buona fede, poiché nell’atto della consegna del nodo, con cui sollennemente si consegnava il venduto podere, bisognava stipulare la «dupla» perché si prestasse l’evizione — e tale era da osservarsi nelle rese delle cittá perché si osservassero i patti di esse rese, — per tutto ciò le provincie non potevano piú contraere obbligazione sollenne e civile per mezzo della stipulazione. Laonde le leggi romane, siccome dentro non assistevano a’ meri fatti di possessione (talché ne conoscevano fuori di ordine i pretori con gl’interdetti) né a’ patti non istipulati nell’atto della consegna del nodo; cosí fuori per diritto delle vittorie non assistevano alle possessioni né a’ contratti provinciali, ma i pretori gli sostenevano per equitá.

[356] Quindi e non altronde vengono i contratti che i romani giureconsulti dicono «iuris gentium», ed Ulpiano, con peso di parole, aggiunge «humanarum»: ma dagl’interpetri, con idee

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tutte opposte, si sono intesi che i romani l’abbiano ricevuti dalle nazioni libere straniere, che erano tutte barbare; perché la greca, a petto di cui essi romani si riputavano barbari, come si è sopra dimostro, era nazione loro soggetta, con la quale la gente romana non era tenuta con un diritto egualmente comune. Ma i romani, per lo diritto delle vittorie, fecero sí che tai contratti tra le nazioni ridotte in provincie non reggessero che sul pudore del vero, sulla buona fede, sull’equitá naturale. Cosí permettendo regolarsi le cose gentilesche la provvedenza, la quale i giureconsulti romani pur diffiniscono ordinatrice del diritto naturale delle genti: che, come dal loro diritto divino era nato il diritto eroico, per la ragione degli auspíci posto nella differenza delle due nature, come si è qui a lungo ragionato; cosí dal diritto eroico nascesse il diritto delle genti umane, nel quale poi finalmente il popolo romano vittorioso fosse addottrinato all’umanitá da esse provincie vinte, come il maggior corpo del diritto romano poi si compose del diritto ministrato negli editti provinciali. Appunto come i padri eroi privatamente nelle contese eroiche erano stati addottrinati a leggi piú eque dalla medesima plebe. Onde altrove osservammo che tutte le leggi tribunizie overo plebisciti sono ricolmi di naturale equitá e che, siccome la plebe romana, rinnegando l’eroismo che vantavano i padri, volle essere uguagliata con essi in civil ragione (onde in appresso il popolo comandò leggi piú conformi alla naturale equitá); cosí esso popolo romano vittorioso, spogliando dell’eroismo le genti vinte, vi uguagliò in ragione gli eroi con le plebi, che è essa ragion naturale, e ne surse per le nazioni un diritto comune a tutto il genere umano.

[357] Ma i romani príncipi finalmente, volendo nella monarchia essere essi soli distinti in civil natura, vollero nella loro persona unito tutto l’eroismo romano, cioè gli auspíci di Roma e, con gli auspíci, l’imperio dell’armi e delle leggi, e quindi la fortuna e la gloria dell’imprese, e tutto il nome e la gente romana, incominciando da Tiberio Cesare, da cui cominciò rigorosamente la romana monarchia; e sí tolsero a’ romani il

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diritto delle genti eroiche di convenire nell’adunanze col titolo di «quiriti», col quale s’intitolavano «signori dell’armi», e le trasportarono nel gabinetto. Che è la vera legge regia, con la quale il popolo romano si spogliò della sua sovranitá e consegnò il suo nodo al romano principe. E ’l diritto romano privato, essendo spogliato dell’armi, divenne veramente «nudum ius quiritium», un nudo nome, una mera sollennitá, la quale non produceva quasi veruna utilitá negli effetti: perché i romani príncipi vollero eguagliati i cittadini romani con gli uomini delle provincie; onde presero a promuovere il diritto naturale delle genti umane in quella distesa che ’l romano principe si diceva «rector humani generis» — e in volgar latino, nell’etá di Augusto e del fasto romano tutto spiegato, si diceva «orbis terrarum» per lo «’mperio romano» — e per quel fine per lo quale i príncipi cristiani si dilettano udire il titolo di «clementi». Che è la ragion politica per che le monarchie sono le piú conformi alla natura umana, e perciò la forma piú durevole degli Stati.

[358] Cosí la sapienza delle genti si andò disponendo a ricevere la sapienza de’ filosofi per mezzo di quel medesimo volgo che, come profano, prima aveva sdegnato e tenuto lontano dalla sua vana sapienza in divinitá. Perché, in conseguenza della naturale libertá che i romani lasciavano alle provincie, quelle divenivano tali appunto qual era stata la plebe romana innanzi della legge delleXII Tavole. Onde lasciarono loro tutti i modi di acquistare il dominio, perciò detti «di ragion naturale delle genti», a riserva dell’occupazion bellica e dell’usucapione: che son pure tutti modi d’acquistarlo nati privatamente appo ciascun popolo. Ché degli altri tutti Grozio pure l’avvertisce e ’l concede, e dell’occupazione ed usucapione noi qui sopra l’abbiam dimostro.

[359] Per le quali cose ragionate si può conchiudere che i romani, con la distesa delle vittorie, propagarono sui vinti popoli il diritto romano vittorioso, e gli strinsero al loro diritto eroico del nodo, col quale tennero al loro imperio ligato e stretto il mondo da essi soggiogato. Onde si veda con quanta

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scienza Grozio intenda il diritto delle genti di cui parlano i giureconsulti romani, che in ciò da per tutto egli riprende, ove piú tosto esso è degno di esser ripreso: quando questa fu l’unica, somma e veramente sovrana scienza di quel popolo immortale dintorno la giustizia della guerra e della pace. E con quanta scienza altresí gl’interpetri intendano quel motto «ragion civile», ove dicono che le nozze, la patria potestá, le agnazioni, l’ereditá, le mancipazioni, le usucapioni, le stipulazioni sono propie de’ cittadini romani.

Capo xxxv
La lingua dell’armi è necessaria
per intendere la storia barbara.

[360] Con la medesima lingua delle persone armate — che, come a’ tempi eroici primi furono di eroi coverti di cuoi di fiere uccise, cosí a’ tempi barbari ricorsi erano [di] nobili chiusi nel ferro, che furono propiamente le genti d’arme — si fanno intelligibili i fatti della storia favolosa, che finora han sembrato impossibili. Che narra, per esemplo, le smisurate forze degli eroi, come Aiace «torre de’ greci», di cui non è meno incredibile Orazio Coclite, che solo sostenne un intiero esercito di toscani sul Ponte: come de’ tempi barbari ricorsi, ove racconta le stupende forze e corpi de’ Rolandi overo Orlandi e di altri paladini di Francia; e quella del Reame di Napoli, che quaranta Guiscardi eroi battono eserciti intieri di saraceni. Perché essi príncipi delle cittá solamente si dicevano far le guerre, come oggi i soli monarchi; e le loro famiglie o caterve di vassalli si sperdevano di veduta nello splendore de’ nomi e degli scudi de’ loro incliti padroni, da cui, come si è sopra dimostro, si dissero «clienti», quasi «cluenti», cioè «rifulgenti», che è propio de’ corpi opachi illuminati, non pure de’ luminosi. Sí ne restò in ragion romana pubblica che le provincie,

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nelle quali, come si è sopra qui detto, stesero i romani il diritto delle clientele eroiche, nel far le guerre si confondevano sotto il nome romano e si sperdevano dentro la luce della romana gloria, e perciò furono appellati «soci de’ romani»: come i vassalli di Ulisse, i vassalli di Enea, quali certamente Virgilio gli ci descrive quando Enea gli raccolse per l’imbarco, furono detti soci di questi eroi; ed in ragion romana privata i servi e figliuoli di famiglia si nascondono sotto le persone de’ loro padri e signori. Talché questi sono i veri caratteri poetici civili di persone o maschere, come di generi che comprendono molti uomini per la propietá della gente o casato, come, in veritá, a chi vi rifletta, altro non sono le armi gentilizie. Onde poi i poeti particolari furono fatti accorti ad intendere i generi de’ costumi, e ne fecero caratteri poetici morali, per insegnare il volgo incapace d’intendergli per generi quali gl’insegnano i filosofi. La qual cosa, se sta cosí, porta di séguito cinque importanti veritá:

i

[361] Che la poesia fu l’abbozzo sul quale cominciò a dirozzarsi la metafisica, che è la regina delle scienze riposte. Tanto è lontano dal vero che dalla sapienza riposta provenne la poesia!

ii

[362] Che i falsi poetici sono gli stessi che i veri in generale de’ filosofi, con la sola differenza che quelli sono astratti e questi vestiti d’immagini: perché si avvertisca quanto egli sia malizioso, se l’intende, o quanto ignorante, se non l’intende, chiunque scrive che a’ filosofi disconvenga la lezion de’ poeti; quando il vero de’ poeti è in un certo modo piú vero del vero degli storici, perché è un vero nella sua idea ottima, e ’l vero degli storici sovente è vero per capriccio, per necessitá, per fortuna.

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iii

[363] Che le significazioni di sí fatti caratteri d’entrambi i generi, sí politici come militari, sono veramente le poetiche allegorie overo parlari contenenti diversi uomini o costumi o fatti sotto una immagine.

iv

[364] Che, essendo tale l’uso de’ caratteri poetici fatti per arte, tale dovette innanzi pur essere per natura che esse prime nazioni, essendo incapaci d’intendere i generi delle cose, naturalmente furono portate a concepirgli per caratteri poetici, come si è piú sopra dimostro.

v

[365] E finalmente s’avvera quello che altrove dicemmo: che ’l diritto romano antico fu un poema drammatico serioso. E noi qui, acconciamente alla scienza che qui si ragiona, diciamo che, se prima non fosse stata celebrata in piazza, la poesia drammatica non sarebbe poi salita sopra i teatri.

Capo xxxvi
Della terza parte della locuzion poetica,
che è di parlari convenuti.

[366] Mentre si formano le due parti principali della lingua poetica, l’una di caratteri divini, l’altra di caratteri eroici, s’andò formando frattanto la terza parte, di parlari convenuti, come se n’andavano formando le voci. Il cui corpo tutto si compone di metafore attuose, immagini vive, simiglianze evidenti, comparazioni

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acconce, espressioni per [gli] effetti o per le cagioni, per le parti o per gl’intieri, circonlocuzioni minute, aggiunti individuanti e di propi episodi: che sono tutte maniere nate per farsi intendere chi ignora appellar le cose con voci propie o parla con altrui con cui non ha voci convenute per farsi intendere. Oltrecché, gli episodi sono propi delle donnicciuole e de’ contadini, che non sanno trascegliere il propio delle cose che lor bisogna e tralasciare ciò che non appartenga al loro proposito. Ma le frequenti ellissi, o sieno parlari difettuosi, i pleonasmi o parlari soverchi, le onomatopee o imitazioni di voci o suoni, gli accorciamenti delle voci che ancora si usano nella poesia italiana, le parole congiunte che si osservano frequentissime nella lingua tedesca, a chi vi rifletta ben sopra, sembreranno tutte maniere propie dell’infanzia delle lingue: siccome i parlari antichi, di che si servono i poeti, certamente in lingua latina è lecito rincontrargli co’ parlari usati nelle comedie e nelle formole sollenni e nelle leggi antiche, che senza dubbio dovettero esser presi da mezzo a essa latina favella volgare. Il parlare contorto egli è naturale effetto di chi non sappia o sia impedito spiegarsi tutto, come si può osservare negl’irati e rispettosi, che profferiscono il retto e l’obbliquo, che loro appartiene, e tacciono i verbi. E certamente la lingua tedesca è raggirata piú della latina, come la latina lo è piú della greca: su che noi qui ci ammendiamo di ciò che ne avevamo scritto altrove.

Capo xxxvii
Scoverta de’ princípi comuni a tutte le lingue articolate.

[367] Per questa istessa origine della poesia da noi discoverta si scuoprono i princípi comuni a tutte le lingue articolate sopra questa osservazione dell’umanitá: che i fanciulli nati in questa copia di lingue e che, da nati appena, incominciano ad udir voci umane, quantunque forniti di fibre mollissime e sommamente

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cedevoli, pur cominciano a pronunziare le parole monosillabe e con grande difficultá. Or quanto in grado quanto si voglia maggiore egli è lecito intendersi della difficultá di pronunziare che sperimentar dovettero i primi uomini di Obbes, di Grozio, di Pufendorfio, e con veritá quelli delle disumanate razze di Caino innanzi, di Cam e Giafet dopo il Diluvio, anzi di esso Adamo, che pose i nomi alle cose, i quali tutti furono con organi duri di voce, perché di corpi robusti. Ci compruovano la congettura le interiezioni e i pronomi: quelle, che sono le prime voci articolate all’impeto di violenti passioni o di timore o di gioia o di dolore o d’ira; i pronomi, che sono le prime voci per significare l’idee umane, che non sapevano ancora con voci convenute appellare: le quali voci d’entrambe le spezie sono presso che tutte monosillabe in tutte le lingue. Certamente la lingua tedesca, senza dubbio lingua originaria, è prodotta da radici tutte monosillabe. E qui nasce da sé una dimostrazione dell’ultima antichitá della lingua santa, niente alterata da’ suoi primi princípi, che compongano quasi tutto il suo corpo voci di una o due sillabe.

Capo xxxviii
Scoverta delle vere cagioni della lingua latina
ed al di lei esemplo delle altre tutte.

[368] Poiché adunque è una gran pruova delle prime origini delle lingue la scabrezza e semplicitá delle voci che dovettero nascere da prima nelle nazioni — perché è propio degli elementi lo essere semplici e rozzi, — perciò le cagioni della lingua latina si ritruovano di gran lunga diverse da quelle che ingegnosamente ne pensò Giulio Cesare Scaligero, i princípi tutt’altri di quelli che acutamente ne divisò Francesco Sanzio, al cui esemplo lo stesso dee dirsi di quelli che della greca ne meditò Platone nelCratilo, sulle cui orme noi ingenuamente

205 ―
professiamo ora di avere in altra nostra opera errato. Imperciocché nella latina lingua si ritruovano tutte monosillabe e di aspra pronunzia e tutte natie del Lazio, che non devono della loro origine nulla affatto alle lingue straniere.

[369] Poiché nel numero delle cose che furono prima da avvertirsi in natura innanzi di tutte, fu il cielo che fulminò, il quale, innanzi di convenirvi ad appellarlo con voce propia, si disse «hoc»:

Aspice hoc sublime cadens, quem omnes invocant Iovem;

e restò in volgar lingua antica, come si ha dalle comedie:
Luciscit hoc iam

in significazione del «cielo»: poi vi si cominciò a convenire nel di lui propio nome con la voce monosillaba «cael», appunto come dalla barbarie d’Italia restò «ciel» agl’italiani poeti. Il padre e re degli dèi e degli uomini, per onomatopea dal fragore del tuono, a’ latini detto «Ious», come Ζεύς a’ greci dal fischio del fulmine. Il piú cospicuo delle create cose «sol», e la piú gioconda e risvegliante «lux» — che di genere maschile significò da prima il «giorno», come «hoc luci» per «hoc die»; — e ’l di lui opposto «nox». Le parti piú risentite nell’uomo: «os oris» (per la faccia e la bocca), «os ossis», «dens», «frons», «cor», «splen», «crus», «pes», «calx», «cus»; ed è necessario essersi da principio detto «pen penis», come restò «ren renis»; la mano, per ciò che or ora si dirá, dovette cominciare «man». Le cose dell’uomo piú propie: «vox», «mens», «spons spontis», ond’è «mea», «tua sponte» la «volontá». Le cose piú necessarie: «fons» l’acqua perenne, «frux» per gli pomi (che poi fu preso per le biade), «glans», «nux»; il fuoco si disse «fax» o pure «lux», come si appella ancor oggi dalle donnicciuole di Napoli, superstiziose di dire «fuoco». Il pane si dovette dire da prima «pan» per ciò che or ora si dirá; il piú semplice e grossolano de’ cibi

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cotti «lens»; il cibo piú grossolano composto «puls», vivanda di farina e cascio. La prima stagione «ver»: oltre il fulmine e ’l tuono, che si disse «Ious» per gli nostri princípi, «nubs nubis», «nix», «ros», che dovette da principio significare la pioggia. Le delizie del secolo dell’oro «lac», «mel»; e ’l contrario di questi «fel». Le parti che compongono l’iconomia delle pianti «stirps», «tralx», «flos», «frons», «frux», ond’è «fructus» e «frutex», ed indi «frui» e quindi «fruticari». Gli animali piú utili «bos», «sus», pur detto σῦς a’ greci: forse «ovis» si disse prima da’ latini monosillaba «ovs» per quello che quindi a poco dirassi. La prima virtú degli uomini tutti feroci e fieri detta con divino vocabolo «Mars», onde forse si disse «mas». Il genere di tutti i mestieri «ars»; la materia di tutta la pastoreccia «grex», di tutta la villereccia «rus» e ’l suo piú riputato stromento «falx»; il recinto de’ campi «seps», comune a’ greci, σῆψ. La casa con divino vocabolo detta «Lar»; la principal materia dell’architettura «trabs», «calx», e della navale «trabs», «pix»; e della calce e della pece esso genere «glus», ond’è «gluten» e «glutinum». Il vocabolario degl’infanti «res». Il primo frumento «far», il primo condimento «sal». La prima suppellettile «vas», ond’è «convasare», termine militare, «imbaliciare», e tra le piú necessarie sue parti «lanx». Il primo metallo «aes»; la prima moneta «as», ed «as» l’intiero, di cui diviso è «pars». Il piú rozzo degli dèi «Pan». Il privato premio della virtú «laus». Il piú semplice degli onori agli dèi «thus». La prima delle passioni «spes»; l’ultima delle cose terribili «mors». Fonda la societá di essi dèi «Styx», l’acqua profonda o sia la sorgiva delle fontane, per la quale essi sollennemente giuravano. L’inegualitá de’ luoghi che poté sentirsi dagli scempioni «mons» e «scrobs». La pietra, dalla qual battuta i primi eroi cacciarono il fuoco, «cos». Il genere di tutte le lordure «fex». I princípi della civiltá «vir», che restò a’ romani a significare «marito», «sacerdote» e «maestrato»; «dos», con la quale gli eroi comperavano le mogli, e ne restò a’ romani antichi il matrimonio sollenne, che celebravano «coëmptione
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et farre»; di piú «gens», «urbs», «arx», «rex», «dux». La preghiera de’ rifuggiti agli asili «prex», ond’è «precium», che ’l primo fu il vitto a’ rifuggiti per le loro opere camperecce. «Ops», con vocabolo divino, detto l’aiuto che porsero gli eroi a’ rifuggiti nelle loro terre, onde furono detti «optimi» nello stato delle famiglie, «optimates» nelle prime repubbliche. «Merx», ond’è «mercari», e i primi commerzi furono de’ campi (Perché si ponga uno stato di uomini semplice e rozzo, che non curino altro che ’l necessario alla vita, ed altri sien ricchi di campi, altri non ne abbiano: i primi commerzi tra costoro saranno i censi, quale fu il censo di Servio Tullio. E, col ritornare i tempi barbari, restati i campi incolti per gli guasti delle guerre, e divenuti signori di larghi fondi i conquistatori, e rimasta priva della sussistenza la moltitudine, i primi contratti che ritornarono furono l’enfiteusi, i censi, le precarie e i feudi che si dicono «rustici»). «Pax», onde viene «pacisci» e «pactum»: di piú «fraus», «vis», «nex», «fur», «sons», «lis» sono tutta la materia de’ giudizi; «ius», «fas», «mos», «lex», tutto il subbietto della giurisprudenza. «Fis», onde sono «fidis» e «fides», forse detta dal fischio del fulmine, significa «corda», «forza», «potestá» ed «imperio». «Sors» il caso, «fors» l’utilitá; onde «fors Fortuna» la buona riuscita, e l’antico «fortus» per «bonus», «utile». «Trux» propio della fierezza ciclopica. «Crux» spezie di pena antichissima, e la forca fu un albero detto «infelice», a cui è condannato Orazio da’ duumviri. «Praes praedis», onde vengono «praeda» e «praedari», e «praedium» è l’obbligato nella roba stabile, perché per gli nostri princípi i plebei avevano da prima i predi, di cui i nobili erano signori de’ fondi. E la ricchezza con divino vocabolo detta «dis», perché la prima ricchezza fu de’ campi colti; e «Dis» dio della terra profonda, onde poi fu preso per dio dello inferno, lo stesso che Plutone, che rapisce Cerere o Proserpina, la semenza del frumento, e Cerere poi ritorna a vedere il cielo con le messi (Cosí i ricchi che erano signori de’ fondi nello stato delle famiglie, uniti poi nelle repubbliche, andarono a comporre il
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dominio eminente che hanno le civili potestá de’ fondi de’ loro Stati, per lo quale possono disporre ne’ pubblici bisogni di tutto ciò che da’ fondi proviene, ne’ fondi si sostiene, co’ fondi si mantiene — ch’è il finora sotterra, con esso Dite, nascosto principio de’ vettigali, de’ tributi, degli stipendi; — cosí di esse cose come de’ lavori e di essi sudditi nelle pubbliche necessitá, e disporne delle loro vite o in pace con le pene o in guerra con le milizie: talché l’uso del dominio eminente è esso imperio sovrano). E finalmente, per por fine a questo ragionamento, «vas vadis» uniforme appo i greci βάς e tedeschi «Wass», onde viene «vassus» e «vassallus» l’obbligato di seguire nella persona, la quale obbligazione dicesi «vadimonium»: lo che dimostra prima delle lingue essere nati i feudi appo i greci, latini e tedeschi.

[370] Per tutte queste origini è da intendersi che i nomi dovettero incominciare tutti monosillabi, e sopra tutto quelli della terza coniugazione, de’ quali il retto non cresce nell’obbliquo: come «vestis» da «vest», «hostis» da «host», «sudis» da «sud», e cosí «ovs ovis», da prima la pecora, come «Iovs Iovis». Cosí «fis fidis» la corda o forza, e «quir» l’asta, onde sono «quirites» a’ latini, come da Χείρ, la mano, «curetes» a’ greci. Onde si vede la lingua latina ne’ suoi princípi somigliantissima alla tedesca. Cosí «bene», «canis», «donum», «filum», «finis», «solus», «verum», «vinum», «unus», e, alla stessa fatta, «panis», «manus», dovettero dirsi da’ primi latini «ben», «can», «don», «fil», «fin», «sol», «ver», «vin», «un», e nella medesima guisa «pan» e «man», come certamente da’ tempi barbari secondi cosí accorciati restarono a’ poeti italiani.

[371] De’ verbi poi «sum» significa ogni essere: «sto» è verbo della sostanza, e l’essere e la sostanza sono i sommi generi delle cose. «Fio» dovette incominciare «fo», del quale gli analogi sono «fis», «fit»: come «fo» restò attivo agl’italiani; e dovette prima sentirsi «fio», che è patire, che «facio». Il verbo «for» è di quel parlare ond’è detto «fas gentium», che è tutta la materia di questo libro. Il verbo «flo», propio

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della vita, onde forse fu detto «flos», quasi fiato della pianta. «No» perché per gli nostri princípi il primo «natare» fu de’ fanciulli per terra, da’ quali sforzi provenivano robusti e grandi, perché, con dilatare i diametri de’ muscoli in altre parti per restrignerli in altre, tra essi sforzi prendevano piú alimenti le carni da’ nitri delle fecce tra le quali si rotolavano, onde provenivano giganti: poi «no» fu trasportato in mare, perché da’ latini e dall’altre nazioni tardi si andò ad abitare nelle marine.

[372] Le particelle certamente, nonché nella latina, in tutte le lingue sono monosillabe, e tra queste principalmente le preposizioni, che sono gli elementi significanti delle parole che esse vanno a comporre: come «a», «ab», «e», «ex», «de», «di», «ad», «in», «sub», «super», «se», «prae», «ob», «am», «circum».

[373] Per questi princípi o radici sarebbe meglio fatto da oggi innanzi spiegare le cagioni e naturali e vere, come si è fatto della latina, ad esemplo della latina, delle altre lingue.

Capo xxxix
Scoverta de’ princípi del canto e de’ versi.

[374] Sopra sí fatta origine delle lingue articolate reggono molti importanti princípi di cose. De’ quali il primo è che ’l canto e i versi sono nati per necessitá di natura umana, non da capriccio di piacere: che, per immaginargli nati da capriccio di piacere, si sono dette tante inezie, anche da’ piú gravi filosofi, come dal Patrizio ed altri, che ci vergognamo qui riferirle.

[375] Perché i mutoli naturalmente profferiscono le vocali cantando, e gli scilinguati pur cantando mandano fuori i suoni articolati di difficil pronunzia; e i chinesi, che non han piú che da trecento parole, le quali con la diversitá di pronunziarle moltiplicano, pronunziano con un certo canto.

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[376] Poi è lecito osservare che la prima sorta di verso nacque eroico egualmente appo gli ebrei, greci e latini sul principio d’incerte misure. Dell’ebrea lingua san Geronimo attesta il «Libro di Giobbe», istoria piú antica di quella che scrisse Mosé, che egli è scritto in versi eroici: cosí si dimostra e la veritá di tal libro sagro e l’antichitá della lingua santa. Per la lingua greca e latina vi spiccano due erudizioni volgari, che finora non sono state avvertite né hanno arrecato alcun uso per l’anticipazione di altri princípi di poesia, gittati prima da Platone, poi confermati da Aristotile, indi adornati da tutti gli altri scrittori della ragion poetica, come i Patrizi, i Mazzoni, gli Scaligeri, i Castelvetri.

[377] Una [pensavamo che fosse] che i popoli greci, quando implorarono l’aiuto d’Apollo contro il Pitone, profferirono il primo verso eroico, e perché erano illanguiditi dallo spavento, il batterono tardo ovvero spondaico

ἱῶ παιάν, ἱῶ παιάν, ἱῶ παιάν%h%: poi, quando acclamarono al dio vittorioso, per l’allegrezza batterono lo stesso verso presto, cioè dattilico, battendo la vocal lunga omega divisa in due brevi omicron, come anche appo i latini antichi pronunziavano le vocali lunghe come due volte battendole, e sciogliendo il dittongo αι in due sillabe: cosí che di sei spondei se ne vennero a formare sei dattili; e dal Pitone ucciso il verso eroico restò detto «verso pizio»; ma piú comunalmente si disse «eroico», come quello col quale parlavano gli eroi. Ma la ragione vera è che ’l verso eroico nacque prima spondaico per la difficultá e tardezza del pronunciare de’ primi uomini: dipoi vie piú sciogliendo la lingua, provenne dattilico, che pur comincia da sillaba tarda. Cosí il primo verso appo i latini fu pur eroico, detto «verso saturnio», che non poté altronde esser detto che perché nacque nell’etá di Saturno, a’ tempi che l’Italia era ancor selvaggia. Ed Ennio pur ci lasciò ne’ suoi frammenti che con versi eroici cantarono i fauni: se non pure alcun altro Orfeo latino, colmo di sapienza

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riposta e ben istrutto d’arte poetica, avesse ridutti all’umanitá gli aborigini, da’ quali le genti latine provennero.

[378] Che con tal sorta di verso fossero state concepute le prime leggi, ne sono due storie due voci: νόμοι, che significa e «leggi» e «canti» appo i greci; e «carmina», che significarono appo i latini e «versi» e «formole sollenni di leggi». E si conservò pur la tradizione che gli arcadi d’Italia nacquero cantori: onde forse da questi eroici carmi fu detta Carmenta la madre di Evandro arcade. Ma, per Dio! Cicerone, nel dare le leggi alla sua repubblica, le quali egli certamente dettò in conformitá della legge delleXII Tavole, le concepisce con un’aria di verso eroico. Imperciocché, se certamente i decemviri usarono la voce «deivei» nel capoDel parricidio, secondo la lezione del Revardo, dovettero essi incominciare le due prime leggi con due mezzi versi eroici:

Divos caste adeunto Pietatem adhibento,

che, nonché in materia sí grave, come egli è dar le leggi, ma in una pístola altrimenti sarebbe stato gravissimo errore parlare in prosa con versi cosí sonori, nella quale sono da schivare anche i giambi, che piú di tutti altri dissimulano il canto né ’l fan sentire.

[379] Quindi s’intende che entrambe queste nazioni dal verso eroico passarono alle prose per mezzo del verso giambo, che tanto fu naturale a cadere inavvedutamente ragionando, che i diligenti scrittori di prose dovevano porre tutta l’attenzione di non farglisi cadere scrivendo; e sul principio nacque di misure incerte, come sono i versi di Plauto e di Terenzio e, piú che di Terenzio, di Plauto. Talché fu natura, non arte, perché l’arte non arebbe imitato la natura che la tragedia (alla cui maestá sconviene il giambo, che è piede presto) e la comedia antica, le quali certamente vennero dopo Omero, fossero da prima state scritte in versi giambi, se in sí fatti versi veramente non avessero parlato gli uomini di entrambe le nazioni: perché prima i greci cantarono spondaico, tutto tardo; poi dattilico,

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incominciando a spedire la lingua; finalmente giambico, poi che fu spedita affatto. Ma poi, come in molte altre cose è avvenuto per una cieca riverenza all’antichitá, il comun errore passò in precetto.

[380] Per le lingue viventi, innanzi al mille e cento non fu scritto alcuno libro né francese né italiano, come osserva Genebrando ed altri cronologi, e giá vi fiorivano i poeti provenzali e siciliani. Nella Silesia, nazione di contadini, nascono tutti poeti.

Capo xl
Idea d’un etimologico comune a tutte le lingue natie.

[381] Il secondo principio è di un etimologico comune a tutte le lingue natie, perché, essendo tutti i princípi delle cose quelli da’ quali cominciansi le cose a comporre e ne’ quali vanno ultimamente a risolversi, ed essendosi sopra ritruovate tutte le prime voci, che dovettero prima di tutt’altro pronunziare i latini, essere tutte di una sillaba, su questo esemplo, dentro sí fatti monosillabi si deono universalmente ritruovare l’origini delle lingue natie. Ed essendo le parole suoni umani articolati, e portandosi i fanciulli naturalmente a spiegare le cose con imitare il suono che esse dánno, a sí fatte onomatopee monosillabe gran parte di voci in ogni lingua devono la loro primiera origine; come, a proposito di questi stessi princípi che si sono ragionati, prima di tutti, appo i latini e greci, egli ci si conferma che Giove, il primo degli dèi, dal fischio del fulmine fu detto da’ greci Ζεύς, dal fragore del tuono da’ latini fu detto «Ious», il cui genitivo è «Iovis».

[382] Bisogna ancora costantemente farlo procedere secondo l’ordine naturale dell’idee. Siccome furono prima le selve, poi i tuguri, indi i campi, greggi ed armenti, appresso le cittá e le nazioni, finalmente i filosofi; cosí l’etimologico di ciascuna lingua spieghi l’origini e i progressi delle voci per questi gradi.

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Come, per esemplo, «lex» la prima di tutte fu una raccolta di ghiande: onde fu detto «ilex», come da Plauto fu detto «lectus ilex», alla stessa fatta che «aquilex» raccoglitore di acque. Dipoi una raccolta di legumi, onde vennero «legumina». Appresso una raccolta di uomini, e prima di tutti de’ clienti ammotinati, a cui furono portate le prime leggi agrarie. Poi l’unione de’ cittadini in parlamento, che bisognò innanzi d’essersi truovata la scrittura, per essere informati delle pubbliche deliberazioni. Ritruovata poi la scrittura, «lex» fu una raccolta di lettere, onde è il volgar «legere» che ci è rimasto; onde finalmente è detta «lex» la legge scritta.

Capo xli
Idea d’un etimologico delle voci d’origine straniera.

[383] Il terzo principio è pur di etimologia: che, essendo da per tutto state prima le nazioni mediterranee, poi le marittime, ritruovatesi qui sopra le voci prime latine non aver nulla di greca origine — e pur era il Lazio nell’Italia, e nell’istesso tempo de’ princípi di Roma, fiorendo nelle marine d’Italia la Magna Grecia, — le voci d’indubitata origine straniera devono essere voci seconde, introdotte dopo che le nazioni si conobbero tra loro con l’occasione di guerre, allianze, commerzi. Sí fatto principio ne può tranquillare molte e gravi difficultá che s’incontrano nella storia romana antica.

[384] Imperciocché, posta la comune povertá delle prime lingue e la difficultá de’ primi popoli d’astrarre le qualitá da’ subbietti, amendue questi costumi umani dovetter produrre l’antonomasia de’ nomi delle nazioni, le quali in certe qualitá si distinsero per significare tutti gli uomini osservati appresso con quelle tali qualitá. Cosí i romani, che ignoravano i dilicati costumi, poi che gli osservarono la prima volta ne’ tarantini, dissero «tarantino» per «dilicato». Perché non conoscevano fasto,

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poi che l’avvertirono ne’ capuani, dissero «capuano» per «superbo». E cosí di altre antonomasie sí fatte. A questa guisa, l’asilo di Romolo s’empiè di trasmarini di Frigia, quando Anco Marzio fu il primo che distese i confini di Roma in mare nel piú vicino lido di Ostia. Ma i romani, ignoranti delle loro propie origini (perché in ciò non dovettero essere piú felici de’ greci), poi che conobbero i greci, da’ quali seppero in Italia esser venute colonie trasmarine di Frigia (il qual vero diede il motivo a’ tempi appresso di credere la gente romana venuta da Enea troiano), dissero la colonia mediterranea di Romolo essere trasmarina della Frigia. Cosí ella si consola la gran dissavventura di Roma, che non ebbe del suo corpo uomini da eleggersi un propio re: che Numa ed Anco Marzio vengono da Sabina, Servio Tullio da Grecia, e che un regno aristocratico sia stato governato da una donna. Perché devono queste tutte essere state antonomasie; e da’ religiosi costumi de’ sabini avessero detto «sabini» Numa ed Anco, che molto somigliò il zio nella pietá; dall’astuto ingegno, nel quale valsero i greci, dissero «greco» Servio Tullio; e dai di lui effeminati costumi dissero «femmina» Tanaquille, come anche ne’ tempi nostri per queste stesse cagioni diciamo «femmine» gli uomini effeminati.

Capo xlii
Idea d’un etimologico universale
per la scienza della lingua
del diritto naturale delle genti.

[385] Tutte le anzi fatte discoverte per lo compimento de’ princípi di questa Scienza dalla parte delle lingue sono a ciò ordinate: che, come i romani giureconsulti, per esemplo, essi tenevano la scienza delle lingue del diritto civile e la storia de’ tempi ne’ quali le parole della legge delleXII Tavole altro ed altro significarono, cosí i giureconsulti del diritto naturale

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delle genti essi l’abbiano con un etimologico universale. Il quale qui si disegna sulla natura de’ proverbi, che sono certe massime di vita sperimentate utili dalla sapienza del genere umano, ma, guardate con diversi aspetti dalle nazioni, sono da esse con diverse espressioni spiegate. Alla fatta de’ proverbi, uomini o fatti o cose, gli stessi [e] le stesse in lor natura, guardandosi con diversi aspetti dalle nazioni, devono avere avuti diversi vocaboli: come anche al dí d’oggi cittá di Ungheria, l’istesse affatto, con vocaboli tutti nel suono delle voci diversi, sono appellate altramente dagli ungheri, altramente da’ tedeschi, altramente da’ turchi, le quali tre nazioni con tre diversi aspetti sogliono appellare le cittá. Quindi è che tante cittá di barbari sono appellate nella storia romana con tanta grazia latina che sembrano cittá fondate nel Lazio. Col qual principio i critici sagri alleggiar possono il tanto travaglio che si dánno ove osservano con infinita diversitá appellarsi dalla storia profana i personaggi i quali co’ loro propi nomi appella la lingua santa. Cosí Rampse, re potentissimo degli egizi, da essi sacerdoti cosí nominato a Germanico appo Tacito, dovette essere il famoso Sesostride detto a’ greci, il quale ridusse le tre altre dinastie di Egitto tutte sotto la sua tebana. Nella stessa maniera appunto il dio Fidio, che fu l’Ercole de’ romani, fu uno degli Ercoli che osservarono i greci in tutte le nazioni antiche, de’ quali Varrone ebbe la diligenza di noverare sino a quaranta. Fu egli da’ latini detto «Fidio» con l’aspetto della fede, che è ’l fondamento primo e principale delle nazioni, onde egli era il nume de’ giuramenti a’ latini. Ma, poi che questi ebbero conosciuti i greci, com’è costume di dilettarsi delle cose straniere, per tale istessa idea usarono il nome d’Ercole — come anche Castore e Polluce, che dovettero a’ greci, oltre di Ercole, essere testimoni divini de’ giuramenti; — e ne restarono a’ romani «mehercules», «edepol», «mecastor», «mediusfidius» tutte formole di giurare, delle quali le tre prime sono straniere, la quarta sola è natia. Alla fatta che Fidio latino restò poi cangiato in Ercole tebano, cosí il carattere eroico delle genti del Lazio dell’etá campereccia, che dovette avere altro nome natio,
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si cangiò in Evandro, arcade della Grecia, il quale nel Lazio ricevé ad albergo Ercole da cinquecento anni innanzi che né meno il nome di Pittagora poteva da Cotrone penetrare in Roma per tante nazioni di lingue e di costumi tra lor diverse. Cosí le deitadi maggiori affisse da’ caldei alle stelle, quali certamente avevano altri nomi per l’Oriente, poi che i fenici ebbero praticato molto nella Grecia, vi ritruovarono acconci i dèi natii a improntare agli stranieri i propi nomi greci: lo che avvenne senza dubbio dopo di Omero, nella cui etá tutti i dèi se ne stavano nella cima e dorso del monte Olimpo.

[386] Con questa certa istoria di lingua latina e ragionata di greca si dá il certo lume all’origine della lingua greca napoletana: che fosse ella stata una spezie di lingua ellenistica, mescolata di natia siriaca o egiziana e di greca straniera dappoi che i greci vi si portarono per gli traffichi: onde Tiberio si dilettava piú della greca napoletana che dell’attica stessa di Atene. E sí, in questa varietá di cangiare i nomi propi da’ vari aspetti le nazioni, si scuopre il principio dell’eterne notti sparse sulla storia civile e geografia degli antichi e della naturale de’ fossili, delle piante, degli animali.

Capo xliii
Idea di un dizionario di voci mentali
comune a tutte le nazioni.

[387] E qui si pone fine a questo libro delle lingue con questa idea di un dizionario di voci, per cosí dire, mentali comune a tutte le nazioni, che, spiegandone l’idee uniformi circa le sostanze, che, dalle diverse modificazioni che le nazioni ebbero di pensare intorno alle stesse umane necessitá o utilitá comuni a tutte, riguardandole per diverse propietá, secondo la diversitá de’ loro siti, cieli e quindi nature e costumi, ne narri l’origini delle diverse lingue vocali, che tutte convengano in una lingua ideale comune.

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[388] E, per istare sempre sopra gli stessi esempli propi de’ nostri princípi, si noverino tutte le propietá de’ padri nello stato delle famiglie ed in quello delle indi surte prime cittá:

1. del fantasticare deitadi,

2. del fare certi figliuoli con certe donne con certi auspíci divini,

3. perciò d’origine eroica overo di Ercole,

4. per la scienza che avevano degli auspíci o sia divinazione,

5. per gli sacrifici che facevano essi nelle loro case,

6. per lo infinito imperio che essi avevano sopra le loro famiglie,

7. per la fortezza con cui uccisero le fiere, domarono le terre incolte e difesero i loro campi dagli empi vagabondi ladroni delle biade,

8. per la magnanimitá di ricevere ne’ loro asili gli empi vagabondi che vi rifuggivano, nella bestial comunione pericolanti tra le risse co’ violenti di Obbes,

9. per la fama nella quale eran saliti colla virtú di opprimere i violenti e di soccorrere a’ deboli,

10. per lo sovrano dominio de’ loro campi, che naturalmente ne avevano per sí fatte imprese acquistato,

11. e, in conseguenza, per lo imperio sovrano delle armi, che va sempre col sovrano [dominio] congionto,

12. e finalmente per lo arbitrio sovrano delle leggi, e perciò delle pene, che va congionto con l’imperio sovrano dell’armi.

[389] Quindi ritruoverassi che dagli ebrei furono detti «leviti» da «el», che significa «forte». Dagli assiri furon detti «caldei» o sieno sappienti. Da’ persiani detti «maghi» overo indovini. Dagli egizi, come ognun sa, «sacerdoti». Si dissero variamente da’ greci ora «poeti eroi» dalla divinazione, dalla quale i poeti, da «divinari» furono detti «divini»; — ed «eroi» dalla loro creduta origine di figliuoli degli dèi, nel cui numero [sono] Orfeo, Anfione, Lino; — dalla infinita potestá detti «re», col quale aspetto gli ambasciadori di Pirro li riferirono aver essi veduto

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in Roma un senato di re; — dalla fortezza, ἂριστοι, da Ἄρης,/ Marte, quasi «marziali», de’ quali essendosi composte le prime cittá, la prima [forma] de’ governi civili nacque aristocratica; — universalmente per Saturnia, o sia Italia, Creta ed Asia, con l’aspetto di sacerdoti armati, furon detti «cureti»; — e prima con particolaritá per tutta Grecia si dissero «Eraclidi», overo di razze erculee, che poi restò agli spartani, che certamente armarono d’asta e il cui regno senza dubbio fu aristocratico. Alla stessa fatta appunto dalle genti latine si dissero «quiriti» o sacerdoti armati di asta, detta «quir», che sono i cureti saturni osservati in Italia da’ greci; — e si dissero «optimi» in significazione di «fortissimi», come l’antico «fortus» significò il presente «bonus», e le repubbliche che se ne composero poi si dissero d’ottimati, corrispondenti all’aristocratiche o sia de’ «marziali» de’ greci; — dall’assoluta signoria delle loro famiglie si dissero «heri», overo signori, che pur hanno un suono comune con gli «eroi», e ’l loro patrimonio dopo la morte ne restò detta «hereditas», «signoria», della quale la legge delleXII Tavole lasciò intatto loro il costume delle genti di disporre da sovrani, come si è sopra dimostro; — si dissero anche dalla fortezza «viri», che pure rispondono agli «eroi» de’ greci: onde «viri» restarono detti i mariti sollenni, che nella storia romana antica si sono ritruovati essere i soli nobili sino a sei anni dopo la legge delleXII Tavole: pur «viri» si dissero i maestrati, come «duumviri», «decemviri»; cosí ancora «viri» detti i sacerdoti, come «quindecemviri», «vigintiviri»: e finalmente «viri» detti i giudici, come «centumviri»; talché con questa una voce «vir» si spiegava sapienza, sacerdozio e regno, che si è sopra dimostro essere stata una stessa cosa nelle persone de’ primi padri nello stato delle famiglie; — onde, con la maggior propietá di tutte le altre, appo le genti latine si dissero «padri» dalla certezza de’ loro figliuoli: il perché i nobili si dissero «patrizi», appunto come gli ateniesi dissero i nobili εὐπατρίδας. Ne’ tempi barbari ritornati furon detti «baroni»: onde non senza meraviglia Ottomano avvertisce i vassalli dirsi nella dottrina feudale «homines»:
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ch’è appunto quella stessa differenza con la quale a’ latini restarono «vir» ed «homo»: quello vocabolo di virtú e, come abbiam veduto, civile; questo di natura ordinaria, obbligato di seguire altrui che ne abbia ragione di condurlo, detto da’ greci βάς, da’ latini «vas» e da’ tedeschi «Wass», onde viene «vassus» e «vassallus». Dalla qual origine certamente dovette restare agli spagnuoli la voce «varon» per significare «maschio», come poi restò a’ latini «vir» per distinguerlo dalla femmina; e dalla quale origine deve certamente venire «homagium», quasi «hominis agium», che è appunto il diritto eroico del nodo, fonte di tutte le contese eroiche che ne narrò sopra l’istoria romana antica. Onde s’intenda con quanta scienza Cuiacio e gli altri narrino dell’origine de’ feudi!
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Libro Quarto. Ragione delle pruove che stabiliscono questa scienza

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[390] Questa è la lingua universale del diritto universale delle genti osservato in questa gran cittá del genere umano, che ne spiega le guise come sono nate tutte le parti che compongono l’intiera iconomia della natura delle nazioni (poiché nella cognizione della guisa consiste unicamente la scienza); ne addita i tempi in che nacquero in ciascuna spezie le prime (che è la nota propia di ciascuna scienza di pervenirne a que’ primi, talché sia curiositá affatto stolta di ricercare altri primi); ne scuopre l’eterne propietá da’ tempi stessi e dalle stesse guise del loro nascere, che ne possono unicamente accertare tale e non altro essere stato il loro nascimento o natura; e da’ primi loro nascimenti, secondo il natural progresso delle umane idee, le conduce con una non interrotta successione di cose, che tanto vuol dire con perpetuitá. Onde principalmente nell’Idea dell’opera concepimmo questo libro con quel motto col quale i filosofi le parti del diritto che qui si tratta chiamano «leges aeternas». Di piú, sopra sí fatte meditazioni vi convengono mitologie, che sono storie de’ fatti; etimologie, che portano scienza delle origini delle cose. Vi si schiariscono, compongono ed allogano ne’ loro propi luoghi i rottami dell’antichitá, che innanzi giacevano sparuti, sparti e slogati; vi si serba la riverenza alle volgari tradizioni, con iscovrirne i motivi del vero e le cagioni onde poi ci pervennero ricoverte di falso; e tutto ciò che vi è di filologia vi regge con significazioni certe e determinate dalla filosofia, ed ogni cosa vi consta sí nelle parti come in tutto il complesso del sistema di sí fatti princípi.

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[391] Della quale Scienza, cosí condotta con tai sorte di pruove, due sono le pratiche. Delle quali una è di una nuova arte critica, che ne serva di fiaccola da distinguere il vero nella storia oscura e favolosa. Oltre questa, l’altra pratica è un’arte come diagnostica, la quale, regolandoci con la sapienza del genere umano, da esso ordine delle cose dell’umanitá ne dá i gradi della loro necessitá o utilitá e, in ultima conseguenza, ne dá il fine principale di questa Scienza di conoscere i segni indubitati dello stato delle nazioni.

[392] Come, in questo esemplo, la guisa fu che alcuni uomini dalla venere bestiale si ridussero ad usare la venere umana.

[393] Il primo tempo fu quando tra gli egizi, greci, latini la prima volta fulminò il cielo dopo il Diluvio.

[394] La natura per le sue propietá fu che i padri furono i sappienti, i sacerdoti e i re nello stato delle famiglie.

[395] La perpetuitá della successione è che i primi re furono i padri nello stato di natura, e re certamente monarchi. Talché, con peso di parole, Omero chiama «re» il padre di famiglia che con lo scettro ordina che dividasi il bue arrosto a’ mietitori, allogato avanti delle cittá nello scudo di Achille, dove è descritta tutta la storia del mondo innanzi. Dipoi i re da per tutto furono aristocratici. Finalmente si stabilirono i re monarchi, e le monarchie da per tutto, e per distesa e per durata, furono e sono le piú celebrate nel mondo.

[396] L’eterne propietá sono: che le sole civili potestá trattino del diritto naturale delle nazioni, e sieno o un ordine regnante di sappienti, qual è quello delle repubbliche aristocratiche; o regolate da un senato di sappienti, come le repubbliche libere; o assistite da un consiglio di sappienti, come i monarchi. Che elleno sieno riverite come persone sagre che non riconoscano altro superiore che Dio, come i primi padri nello stato delle famiglie, e finalmente, come padri di grandi famiglie, governino i popoli. Che abbiano il diritto della vita e della morte sopra i sudditi, come i primi padri l’esercitavano sopra i figliuoli; e che i sudditi, come figliuoli, acquistin per sí fatti padri della loro repubblica (come pur Tacito, nella storia

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della legge caducaria, appella il romano principe «omnium parentem»), perché tai padri conservino la libertá di sí grandi famiglie alle loro nazioni come a loro figliuoli. Che è la genesi del dominio eminente delle civili potestá, a cui, ne’ pubblici bisogni, deve cedere il dominio sovrano e dispotico che hanno i padri di famiglia de’ loro patrimoni. Tanto è vero il detto di Bodino: — che dominio sovrano sotto altro dominio sovrano è ritruovato degli ultimi barbari — che sopra i domíni sovrani de’ primi padri sursero le prime repubbliche e, con essi, la civiltá.

[397] I gradi dell’utilitá si numerano: prima bisognare agli Stati la religione d’una divinitá provvedente: dipoi la certezza delle attenenze con le nozze solenni; finalmente bisognare la distinzione de’ domíni delle terre per seppellirvi i suoi difonti — dal quale ultimo costume umano vengono quelle pratiche di edificare i cittadini magnifici palaggi, ornare di pubbliche fabbriche le cittá per lustro e splendore delle loro discendenze; — e sí il pubblico desiderio dell’immortalitá fiorisca tra le nazioni. Onde tutte le nazioni con somme cerimonie e ricercate sollennitá custodiscono queste tre sopra tutte le altre umane faccende: religioni natie, nozze tra loro e mortori nelle propie terre. Perché questo è ’l senso comune di tutto il genere umano: che sopra questi tre costumi, piú che in tutt’altri, stien ferme le nazioni, acciocché non ricadano nello stato della bestial libertá; ché tutti e tre son pervenuti da un certo rossore del cielo, de’ vivi e de’ difonti.

[398] Alla stessa fatta si truovano i gradi dell’utilitá della sapienza riposta, che deve servire alla sapienza volgare, perché ella è nata dalla volgare e per quella medesima vive, a fin che la volgare dalla risposta, indebolita, sia retta e sostenuta, ed, errante, sia guidata e condotta. Talché, come i popoli s’appressano o si discostano da queste tre massime e come i filosofi loro assistono o l’abbandonano, ciò sia regola di giudicare dello stato delle nazioni.

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Libro Quinto ed Ultimo

Condotta delle materie onde si formino con un getto stesso la filosofia dell’umanitá e la storia universale nelle nazioni.

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[INTRODUZIONE]

[399] Con l’aiuto di queste scoverte, che a lei bisognavano, questa Scienza, la quale per la serie delle cagioni è la filosofia dell’umanitá e per lo séguito degli effetti è la storia universale delle nazioni, prende per suo subbietto esse nazioni medesime, in quanto elleno sono quelle che hanno religioni e leggi propie e, per difendere le loro leggi e religioni, hanno propie armi e coltivano le lingue delle loro leggi e delle loro religioni — le quali nazioni sono propiamente libere: — nelle quali cose, come elleno van mancando, piú tosto che vadano a spegnersi con la rabbia delle guerre civili, nelle quali prorompono i popoli che calpestano le loro leggi e religioni, per consiglio della provvedenza, cosí vanno a soggettarsi ad altre migliori che le conservano. Onde nell’Idea dell’opera fu questo libro tutto in questo motto compreso: «foedera generis humani», spiegante che il diritto naturale delle genti, da un’ad altra passando, conserva nella somma esso genere umano.

Capo i
Uniformitá del corso che fa l’umanitá nelle nazioni.

[400] L’uniformitá poi del corso che fa tra le nazioni l’umanitá si può facilmente avvertire sul confronto di due tra loro molto dissomiglianti: l’ateniese e la romana, una di filosofi, un’altra di soldati.

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[401] Teseo fonda Atene sopra l’ara o altare degl’infelici, appunto come Romolo fonda Roma dentro il luco, ove entrambi aprono l’asilo a’ pericolanti. Teseo dura una fatica erculea in ridurre i dodici villaggi di Attica nel giusto corpo della sua cittá: che fu la metá della fatica che durarono i re di Roma in manomettere da venti e piú popoli convicini tra lo spazio di dugencinquant’anni. Teseo serba per sé l’amministrazione delle leggi e delle guerre, alla stessa fatta che i re romani. Finito il regno ateniese, si creano gli arconti, prima ogni diece anni, poi, quali restarono, annali: cosí, finito il regno romano, gli si sustituiscono annali consoli; essendo andate prima sotto la tirannide entrambe, Atene de’ Pisistratidi, Roma de’ Tarquini, con questa picciola differenza di tempo: che Aristogitone libera Atene dal tiranno Ipparco da un diece anni innanzi che Bruto caccia da Roma il Superbo; ma pure, con gli stessi destini, Ippia ed Ipparco invano sono assistiti da Dario per essere riposti in sedia che Tarquinio da Porsena. Che conferí dunque alla libertá ateniese la sapienza di Solone piú di quello che la natura delle cose istesse conferí diece anni dopo alla romana? Se conferí ciò: — che da dugento anni innanzi ella guerreggiò e sostenne con tanta gloria la libertá della Grecia contra la sterminata persiana potenza — dugento anni dopo, non per la propia libertá, ma per l’imperio del mondo Roma contese con Cartagine e la trionfò: talché la grandezza dell’imprese romane compensa con vantaggio la maturitá delle greche. Che se Alessandro Magno avesse vòlte le armi in Occidente contro di Roma, come le voltò in Oriente contro la Persia, per lo giudizio di Livio egli vi arebbe perduto tutta la gloria. Adunque Solone non fece altro che affrettare gl’ingegni ateniesi a divenir filosofi, perché naturalmente il sito sterile ed aspro gli aveva fatti piú umani. Cosí il sito di Roma, che, per giudizio di Strabone, parve dalla natura fatto per istabilirvi l’imperio dell’universo, cooperò alla sua quarta monarchia. Del rimanente, se la stessa comoditá di sito avesse avuto o Cartagine o Numanzia, quello che poi fu Roma sarebbe stata o Numanzia o Cartagine, dalle quali due cittá Roma stessa temette l’imperio del mondo.

231 ―

Capo ii
Due antichitá egiziane si truovano princípi
di questa scienza.

[402] Si fonda perciò tutta questa Scienza sopra due come gran moli di antichitá egiziana, cioè di quegli egizi che solevano motteggiare i greci, che n’erano troppo ignoranti, che essi erano sempre fanciulli.

[403] Una è la divisione di tutti i tempi scorsi loro dinanzi in tre etá: la prima degli dèi, la seconda degli eroi, la terza degli uomini. La qual divisione di etá dee portar seco la divisione, che abbiamo ragionata, de’ governi divini, eroici ed umani, per quella certa veritá istorica che l’epoche de’ tempi sono state per lo piú prese dagl’imperi che sono stati piú celebrati nel mondo.

[404] L’altra è un’altra divisione di lingue, che riferisce Porfirio appo Scheffero,De philosophia italica, le quali si parlarono dal principio del mondo insino a’ loro ultimi tempi. La prima per geroglifici o caratteri sagri, cioè una lingua degli dèi, che Omero narra piú antica della sua, con la qual lingua divina spiegavano tutte le cose umane: onde tra le genti latine si formò il vocabolario di trentamila dèi di Varrone. La seconda, simbolica o per imprese, quale appunto abbiam veduto l’eroica overo la lingua dell’armi. La terza epistolica overo per lettere volgari e per parlari convenuti per gli ultimi loro usi presenti della vita. La qual divisione di lingue risponde a quella dell’etá a livello cosí nelle parti come nell’ordine; e la stessa va di séguito a quella degli tre diritti delle genti, divino, eroico ed umano da noi sopra dimostri, per quella pratica, sperimentata di tutte le nazioni, che le lingue vivono con gl’imperi, che con quelle concepiscono le formole delle loro religioni e delle loro leggi.

232 ―

Capo iii
Princípi di questa scienza
si truovano dentro quelli della storia sagra.

[405] Posti questi fondamenti — faccendoci da capo da essi princípi della storia sagra, per quello che abbiamo sopra dimostro della di lei antichitá sopra tutte le profane, — nel pudore, onde, dipoi aver peccato, si vergognarono vedersi nudi i due príncipi del genere umano; nella curiositá per la quale, mal usata, peccarono; e nell’industria di dovere l’uomo col sudore della fronte civanzarsi la vita — tre pene salutevoli date da Dio al genere umano per lo peccato de’ due primi uomini — si vanno a truovare tutti i princípi dell’umanitá. Nel pudore, quelli del diritto naturale delle genti per tutte le parti che compongono la di lui iconomia, che tutte, come abbiamo dimostro, ebbero dal pudore le prime origini; nella curiositá, quelli di tutte le scienze; e nell’industria, quelli di tutte le arti. E nella sovrana potestá di Adamo e sovrano di lui dominio sopra tutta la restante natura mortale a lui servibile, ed in quanto servibile, siccome di uomo, quantunque caduto, il primo ottimo per natura sopra tutto il genere umano, si truovano cosí la potestá originaria di tutti i governi ed imperi come il dominio originario di tutte le signorie e di tutti i commerzi, che sono le due fonti e sorgive universali e perpetue di tutti i diritti di tutte le nazioni di tutti i tempi.

Capo iv
Supplimento della storia antidiluviana.

[406] Quindi, in séguito della storia ideale eterna che abbiamo qui sopra divisato — col precorso delle cagioni medesime di Seto e della sua razza a Semo ed alla di lui generazion pia di

233 ―
non giganti, e di Caino e sua generazione empia gigantesca a Cam e Giafet ed alle loro razze di giganti, avendovi dovuto precorrere il séguito de’ medesimi effetti — finalmente Caino, accorto de’ mali della vita vagabonda ed empia, con alquanti giganti nati almeno fra dugento anni del suo error bestiale, dovette fondare la cittá in odio della religione del padre Adamo sopra la divinazione d’una qualche simigliante spezie a quella de’ caldei (perché a lui non precedette alcun diluvio, onde a capo di lunga etá avesse dovuto tuonare il cielo, che forse innanzi al Diluvio non tuonò mai) e vi restituí l’agricoltura, che, come di mente schiarita nella vera religione, in cui nacque e crebbe, egli aveva giá ritruovata; con questa sola ma rilevante differenza: che Adamo, illuminato dal vero Dio, ritruovò tosto una favella eroica articolata; ma Caino, perché gli era stato bisogno unire gli sperduti giganti sull’idea di qualche divinitá provvedente, per communicare con essoloro, dovette incominciare da una favella divina muta. Cosí si supplisce il lungo tratto di milleseicencinquansei anni che corre oscuro nella storia sagra antidiluviana.

[407] La perpetuitá della storia sagra con la profana si è truovata pur sopra, ove dimostrammo il diluvio universale ed i giganti essere stati in natura.

Capo v
Comprendimento della storia oscura
degli assiri, fenici, egizi.

[408] Fra mille anni dopo il Diluvio comparisce la monarchia di Nino tra la gente caldea; e, per la schiavitú sofferta dagli ebrei in Egitto dentro questo tempo (piú verso il fine), per le cose sopra ragionate l’Egitto si reggeva da monarchi; e giá Tiro nel fine di questo istesso tempo è celebre per la navigazione e per le colonie. Onde si dimostra e nell’Assiria e nell’Egitto

234 ―
e nella Fenicia essere giá trascorse le due etá degli dèi e degli eroi, dagli assiri detti «caldei» e dagli egizi «sacerdoti»; e l’Assiria e l’Egitto, che stesero gl’imperi dentro terra, esser andati sotto una spezie di governi umani, che sono le monarchie, di cui sono piú pazienti le nazioni mediterranee. Ma la Fenicia, benché alquanto piú tardi, per la comoditá del mare essere andata coi commerzi nell’altra spezie de’ governi umani, che sono le repubbliche libere. Che è altro saggio della storia ideale eterna da noi divisata qui sopra.

Capo vi
Etá degli dèi di Grecia che si truovano princípi divini
di tutte le cose umane gentilesche.

[409] Mentre nell’Oriente, Egitto e Siria le nazioni sono giá ite sotto governi umani, le genti greche ed italiane vivono sotto governi divini, quantunque — a proporzione della maggior vicinanza di Grecia all’Oriente, onde si propagarono tutte le nazioni — alquanto piú prestamente nella Grecia che nell’Italia. E nella Grecia, dalla quale abbiamo tutto ciò che abbiamo dell’antichitá gentilesche, per la scoverta che abbiam fatto sopra circa a’ princípi de’ caratteri poetici e delle vere poetiche allegorie, si truovano i dodici dèi delle genti maggiori essere stati dodici gran princípi divini di tutte le cose umane de’ gentili con quest’ordine che ne dá la nostra cronologia ragionata sopra una teogonia naturale, che noi sopra ponemmo per gli princípi storici dell’astronomia e quindi della usata cronologia. Questi dodici dèi della prima da noi lontanissima antichitá gentilesca deono servire come dodici minute epoche, con le quali si possono dare i tempi loro a tutte le favole degli eroi politici che hanno alcun rapporto con una di queste deitadi. E qui ne daremo le pruove.

235 ―

i

[410] Il Cielo ci viene narrato dalla storia favolosa padre di tutti i dèi, avere in terra regnato ed aver lasciato de’ grandi e molti benefíci al genere umano.

ii

[411] Giove, di tutti gli altri figliuoli del Cielo, egli fu fantasticato padre e re di tutti i dèi: onde è il principio dell’idolatria e della divinazione o sia scienza degli auspíci, nella guisa che si è disopra dimostro che egli fu il primo dio nato dalle greche fantasie. E l’idolatria e la divinazione, per gli nostri princípi della poesia, nacquero figliuole gemelle di quella prima civile metafora che Giove fosse il cielo, che scrivesse le leggi con la folgore e le pubblicasse col tuono. Sulla quale si formò il primo sentimento poetico civile, nel quale si unisce il sublime col popolaresco (di cui in tutta la poesia non nacque piú meraviglioso in appresso), che:

ne la prima etade

gli eroi leggean le leggi in petto a Giove.

[412] Onde, per le nostreCagioni della lingua latina, sul principio «Ious» significò e «Giove» e «diritto»; ed appo i greci, come in acconcio Platone avverte, διαῑον, «celeste» significò daprima anche «diritto», che poi, aggiuntovi per leggiadria di favella il κ, restò detto δικαίον. E su questa idea che fosse stato lo stesso «diritto» che «Giove» incominciarono i regni divini con l’idolatria e la favella pur divina o il parlare della divinazione; e sí incominciò il diritto delle genti divino. Al qual tempo sono da porsi Deucalione e Pirra, che, dopo il Diluvio, sopra un monte, innanzi al tempio di Temi (cioè della giustizia divina), co’ capi velati (cioè col pudore de’ concubiti), i sassi davanti a’ piedi (cioè gli scempioni di Grozio), lanciandoglisi

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dietro le spalle (cioè con la disciplina iconomica), fanno divenire uomini (li formano all’umanitá col timore dei divini governi). Li quali due furono il vero Orfeo, che, col cantare ai sassi nonché alle fiere il poter degli dèi, fondarono la greca nazione.

[413] Appruova l’ultima antichitá di Giove la quercia ad essolui consegrata, perché fermò nelle terre gli uomini, che mangiavano ghiande. Nel qual tempo incomincia il gran principio della divisione de’ campi dalla religione del fulmine, che i giganti vagabondi empi atterrò, cioè fermò in certe terre. Talché quinci s’incomincia a formar Teseo, detto da θέσις, non giá dalla bella positura del corpo, ma dallo essersi postato nelle terre dell’Attica.

iii

[414] Giunone è il principio delle nozze sollenni, cioè celebrate con gli auspíci di Giove. È perciò detta «giogale», dal giogo del matrimonio; e Lucina, che porta i certi figliuoli alla luce civile. È di Giove sorella e moglie, perché le prime nozze si celebrarono tra costoro che avevano gli auspíci di Giove comuni. Ella è gelosa di Giove, ma con una gelosia severa, convenevole a’ legislatori che debbono fondar popoli e nazioni: gelosa di comunicare le nozze a coloro che non hanno la comunione degli auspíci di Giove. È sterile, ma di una sterilitá, per cosí chiamarla, civile: onde restò comun costume a tutte le nazioni che le donne non fan casato. Sospesa in aria (che è la regione degli auspíci), con un fune al collo (per quella prima forza che sopra dicemmo fatta da’ giganti alle donne vagabonde, con la quale le trassero nelle loro grotte e le vi fermarono: onde vennero le certe successioni delle case overo genti maggiori), con le mani pur con un fune ligate (che fu il primo nodo coniugale, a cui in segno succedette appo quasi tutte le nazioni l’anello), con due gran sassi a’ piedi (per significare la stabilitá delle nozze, le quali non si dividevano mai: onde assai tardi fu introdotto il divorzio tra’ romani, il

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perché Virgilio disse «coniugium stabile» il matrimonio sollenne). Con tanta facilitá si spiega questa favola, che prima era un de’ maggiori tormenti dello ’ngegno de’ mitologi.

[415] A Giunone è consegrato il pavone, che con la coda somiglia i colori dell’Iride, di lei ministra, per significare l’aria, che è la regione degli auspíci, per gli quali Giunone è la dea de’ matrimoni sollenni.

iv

[416] Diana è il principio della castitá de’ concubiti umani: indi innalzata alla luna, il piú cospicuo astro notturno. La qual perciò la notte secretamente giace sconosciuta con Endimione mentre dorme. Ella dee essere la terza delle maggiori divinitá, perché la prima necessitá umana ad uomini e donne in certe terre postati, che non piú divagavano, dovette essere l’acqua perenne vicina, che dovette esser lor mostrata dalle aquile che fanno i nidi a’ fonti: onde furono cosí dette da’ latini quasi «aquulae» in accorcio per «aquulegae», come «aquilex» il ritruovatore dell’acqua; il perché il riputavano il primo gran beneficio per le aquile loro portato da Giove. Élleno da principio si dissero tutti gli uccelli di rapina, che hanno questa propietá di fare i nidi sopra l’alto de’ monti, dove le prime terre all’aria ventilata, vicino l’acqua perenne ed in siti forti si truovarono poi piantate: che Platone attribuisce a consiglio de’ primi fondatori delle cittá, che, in fatti, fu beneficio della provvedenza ed uno di quelli che fece il Cielo al genere umano nel tempo che regnò in terra. Perché le aquile che seguí Romolo in prendere il luogo alla cittá, che ne restarono i numi dell’imperio romano, furono certamente avoltoi.

[417] Sicché Diana è ’l principio della religione delle fonti perenni, necessarie a fermare gli uomini in certe terre, che da παγή, «fonte», a’ greci, sono dette «pagi» a’ latini ([e] di questi uomini parlano le leggi barbare, che in gran numero osserva Grozio nelle note, che punivano in pochi danai la morte dell’uomo ucciso: che egli arreca in pruova dell’umanitá delle

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pene de’ primi tempi, che sono piú tosto pruova della barbarie). Onde l’acqua restò il primo degli elementi delle cose sagre o divine de’ gentili e, ’n conseguenza, un de’ primi princípi di tutte le cose umane. E perciò gli dèi giuravano per Istige, l’acqua profonda overo le sorgive delle fontane, che fondarono il regno ad essi dèi con ispaventose superstizioni. Onde Atteone, che ebbe ardire di guardare Diana ignuda (la sorgiva della fontana), ne divenne cervo (animale timidissimo) e fu sbranato da’ suoi cani (dalla sua coscienza rea d’empietá). E da «lympha», «acqua pura», ne restarono «lymphati» a’ latini gli alienati di mente, quasi d’acqua pura spruzzati.

v

[418] Apollo è il principio de’ nomi o sia delle genti con le sepolture degli antenati in certe terre a ciò destinate. Onde Apollo dovette essere il quarto dio maggiore, perché i postati in certe terre dovettero risentirsi del brutto lezzo de’ cadaveri de’ loro attenenti marciti loro da presso, e il puzzore dovette finalmente commovergli a seppellirgli. Quindi è il principio della storia, che cominciò dalle genealogie, e perciò fatto principio della luce civile, alla quale Giunone Lucina porta i legittimi parti: onde poi fu affisso al sole, fonte della luce naturale. Principio altresí delle voci articolate: talché a questo tempo è da porsi Elleno, figliuolo di Deucalione, che per tre suoi figliuoli incomincia a formare tre primi dialetti di Grecia. Quindi per gli princípi che ne abbiamo scoverti sopra, Apollo è principio del canto e de’ versi, e perciò principio della legislazione per gli oracoli, che da per tutto risposero in versi. Perché gli oracoli furono le prime leggi de’ gentili; e ne restarono le leggi dette a’ greci νόμοι, «canti» e «carmina» agli antichi latini, perché furono

dictae per carmina sortes;

e i primi oracoli, le prime sorti furono le prime leggi dette da’ padri di famiglia e le prime cose della vita, intorno alle

239 ―
quali perciò a’ latini restarono dette «vitae consortium» e i mariti e le mogli «consortes»: onde fu Apollo il principio della scienza in divinitá, che fu la prima sapienza. È pur Apollo dio della medicina, che diede i nomi all’erbe nello stato ferino dagli scempioni di Grozio, conosciute per senso salutevoli a’ morbi. E, per queste cose tutte, principio dell’umanitá, la quale a’ latini principalmente da «humare», «seppellire», fu detta «humanitas».

[419] Ed Apollo e Diana sono figliuoli gemelli di Latona, dea detta da que’ nascondigli onde da «latendo» fu detto «Latium», e ne restò a’ latini «condere gentes», «condere leges», «condere urbes», «condere regna»: che tutti nacquero dalle case antichissime nascoste nelle selve, tutte sole e divise le une dalle altre, come narra Polifemo ad Ulisse. Entrambi cacciatori di fiere, non giá per vaghezza, ma per questa umana necessitá: che i postati non potevano, fuggendo, campar dalle fiere come i vagabondi empi, ma fermi dovevano difenderne sé e le loro famiglie (onde forse agl’italiani venne «caccia» dal cacciar le fiere, non dalle loro tane, ma da’ primi lor abituri): il perché uccidono fiere Ercole, Teseo ed altri eroi. Apollo fu pastore, non giá pastorella Diana, perché lo fu, non di greggi e di armenti, ma pastore di uomini vagabondi, rifuggiti agli asili e ricevuti nelle clientele degli eroi, per gli princípi che sopra ne abbiamo ragionati; e con tutta propietá ne restarono a’ latini detti «greges operarum» e poi «greges servorum», sopra i quali pastori sursero i re, a’ quali Omero da’ l’aggiunto perpetuo di «pastori di popoli». Le favole di Dafne, delle muse, di Parnaso, del Pegaso, d’Ippocrene si sono sopra spiegate.

vi

[420] Vulcano è il principio del fuoco, necessarissimo agli usi umani: sicché dovette essere il quinto dio delle genti maggiori, perché è una necessitá umana che poté non intendersi quando non poterono non farsi sentire la sete e ’l puzzore de’ cadaveri. Però egli è ’l fuoco di tanta utilitá nella vita che, oltre l’acqua,

240 ―
è l’altro elemento delle cose sagre e quindi di tutte le altre civili profane: onde a’ romani restarono l’acqua e ’l fuoco a significare la comunanza della cittá, che appo i medesimi anticamente s’acquistava co’ matrimoni solenni celebrati con l’acqua e col fuoco, e si perdeva con l’«interdetto dell’acqua e del fuoco».

[421] L’istesso è ’l principio dell’armi, che fabbrica co’ ciclopi nelle prime fucine, che furono le selve alle quali i padri giganti diedero il fuoco. E le prime armi si sono truovate sopra essere aste di alberi bruciate in punta, osservate buone a ferire, con le quali, appo gli storici romani, si leggono aver armeggiato le barbare nazioni del Settentrione e furono ritruovati armeggiare gli americani. Questo, e non altro, è ’l fuoco che i giganti atterrati mandano da sotto i monti, ed è quello onde vomitano fiamme l’Idra, i dragoni d’Esperia e di Ponto, il lione nemeo, che tutti, come sopra abbiamo detto, significano la terra ridutta col fuoco alla coltura. Alle quali favole aggiugniamo qui la Chimera, che è la piú ben intesa di tutte, con la coda di serpente e ’l capo di lione, che vomita fuoco, uccisa da Bellerofonte, che a questo tempo è da porsi: che dovette essere altro Ercole in altra parte di Grecia. Talché anche a questo tempo sono da porsi Cadmo, che uccide la gran serpe, e Bacco, che doma serpenti, perché nulla importava a fondare la nazione greca che si stordiscano i serpenti col vino.

[422] Gli occhi poi, uno per fronte a’ ciclopi, furono queste terre bruciate e poi arate da’ giganti, e dicevasi «ciascun gigante col suo occhio», cioè con sí fatta terra sboscata e colta. Che fu il luco di Romolo, dove egli aprí l’asilo, detto da «luci», «occhi», per uniformitá d’idee con quelle de’ greci di questi tempi. Le quali due tradizioni delle selve sboscate e dell’armi truovate da’ giganti padri di famiglie giunsero ad Omero sí tronche e svisate che se ne fece quella sconcezza che Ulisse con la trave infuocata in punta accieca l’occhio di Polifemo, nel quale pur Platone avvertisce i primi padri di famiglia nella storia poetica. Che è una delle ripruove delle tre etá de’ poeti eroici innanzi Omero, che sopra abbiamo truovato avergli tramandate le favole alterate, sconcie, oscurate e corrotte. Quindi restò a’

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latini «lucus» per bosco sacro, ed a’ poeti il luco sempre va congiunto con l’altare di Diana: che furono l’acqua e ’l fuoco elementi del mondo civile. Onde i fisici poi vi ficcarono essi la loro favola: che l’acqua e ’l fuoco fossero da’ poeti teologi stati intesi gli elementi del mondo naturale; e gl’infelici filologi latini, osservando i boschetti sagri de’ loro tempi, come de’ nostri, che dilettano con le dense ombre, rifuggirono al luco, veramente asilo da essi aperto alla loro ignoranza, che è l’antifrasi, e dissero appellarsi «luco» «perché non luce»!

vii

[423] Saturno deve essere stato il sesto dio delle genti vecchie. Perché dopo il fuoco dato alle selve — che bisognò avvenire nel tempo d’está, ch’erano giá terre secche dagli accesi soli — dovettero per fortuna gustare i granelli brustoliti del frumento, e, avvertendoli piacevoli al gusto ed utili al mantenimento della vita, che innanzi il dragone della terra, sempre vegghiante, custodiva tra le sue spine e dumi, si diedero a coltivare le terre. Egli è padre di Giove, in quanto Giove nacque tra’ postati in certe terre, che poi si ararono e seminarono; ma è figliuolo di Giove, in quanto Giove è re e padre di tutti i dèi, i quali fe’ egli nascere tra gli uomini con la religione degli auspíci. Egli è il principio de’ seminati, che da «satis» fu detto «Saturno» a’ latini: quindi principio della cronologia, dal tempo, onde fu detto Χρόνος a’ greci, la quale, come sopra si è dimostro, cominciò a numerare gli anni con le messi.

viii

[424] Marte è principio delle guerre, per le quali i padri ammazzavano i ladri empi che rubar volevano le biade. E i campi delle biade cominciarono a fare campi d’arme e battaglie per quello che sopra ragionammo dell’origine de’ duelli. E, come nato dopo Saturno, deve essere la settima divinitá dello stato delle famiglie.

242 ―

ix

[425] Vesta è madre di Saturno, in quanto significa la terra, e, come tale, è madre de’ giganti, ma però pii, che, per le sepolture degli antenati, dicevano essere figliuoli della terra; ed è madre degli dèi che si dissero «indigetes», i dèi natii di ciascuna terra. All’opposto, è figliuola di Saturno in quanto significa il principio delle ceremonie sagre, delle quali tutte fu la prima di custodire sulle crudeli are il fuoco dato alle selve, rubato per Prometeo dal cielo, che all’erbe secche da’ caldi soli di está, scosso dalle vene della selce, attaccollo. Onde cosí gli ancíli scesero dal cielo a’ romani, che non dovettero essere scudi ma aste d’alberi bruciate in punta, come il fuoco scese dal cielo a’ greci, che poi custodirono le vestali romane, e, spento, in forza di vetri ustòri si dovea riaccendere dal cielo.

[426] La seconda fu di consecrare agli dèi sulle terre arate i ladri delle messi. E qui cominciano le orazioni, le obtestazioni e le consecrazioni, che sopra dimostrammo essere state le sollennitá de’ primi giudizi sotto i governi divini; ed i rei furono i primi «anatemi» a’ greci. Onde senza scienza i filologi pur dissero che «ara» sia detta perché sopra quella s’impone ἀρά, il voto, che venne da Ἄρης, Marte, che uccideva tai voti che Vesta sacrificava: da’ quali a’ latini restarono «hostiae» da «hostis», da questi primi nemici, e «victimae» da «victus», da questi primi vinti nel mondo.

[427] La terza fu di sacrificare col farro: onde Vesta, come nata dopo Saturno e Marte, dovette essere l’ottava divinitá delle genti maggiori. Dal farro che consacra Vesta a Giove fu il farro gran parte delle divine cerimonie a’ romani, come i sacrifici detti «farracia»; e di farina, detta dal farro, impastavano le fronti alle vittime, ne restarono le «nozze confarreate» a’ sacerdoti romani, perché da principio tutti i nobili erano sacerdoti.

[428] Ella altresí è Opi, il principio dell’aiuto o della forza, che implorarono i vagabondi empi che ricorrevano agli asili aperti da’ primi fondatori delle cittá (dove fu il primoconfugere ad

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aras de’ destituti di Pufendorfio, inseguiti alla vita da’ violenti di Obbes), ove sursero le clientele che noi sopra ragionammo; e, con esse, le famiglie cominciarono a comporsi di altri che di soli figliuoli, per gli princípi che ne sono stati sopra scoverti. Dalla quale Opi vennero le prime repubbliche di «ottimati». Per lo quale aspetto la stessa Opi, qual è Rea a’ latini, tal è Cibele o Berecinzia de’ cureti, o sacerdoti armati d’aste, a’ greci: gli stessi che noi mostrammo essere stati i quiriti a’ latini.

[429] È Cibele o Berecinzia coronata di torri poetiche, la qual corona si dice «orbis terrarum» a’ latini, che è il mondo delle nazioni. Cosí Vesta è la dea degl’imperi civili che si esercitano dentro quello che in ragion civile si dice «territorium», ben dettoa «terrendo»: ma non giá de’ littori, che fanno sgombrare la moltitudine per dar luogo al podestá, come cianciano gli etimologi (perché nacque ciò che si appella «territorium» quando i popoli erano piccioli e radi); ma da ciò: che i forti facevano sgombrare gli empi ladri delle biade da’ loro campi. Onde è «terrere» e quindi «territorium» da quelle che i poeti dissero «turres», quasi «terres», che coronano Berecinzia, che furono le prime «arces» nel mondo, onde sono «arcere» ed «arma», che da prima dovettero essere, come porta la natura, per la sola difesa, nella quale consiste il vero uso della fortezza. Le quali voci hanno una comune origine con le «are», le quali sono pur custodite da Vesta. E qui si truova la prima origine del diritto delle genti che appellasi «postliminium», che godono gli schiavi che «intra arces sui imperii se recipiunt». In una di queste poetiche torri è chiusa Danae, in grembo alla quale Giove, disceso in pioggia d’oro poetico, cioè di frumento, genera Perseo, grande eroe di Grecia, cioè con le nozze celebrate col farro.

[430] Ella è Cibele o Berecinzia sopra un cocchio tratta da que’ lioni de’ quali la voce «ari» siriaca diede il nome ad innumerabili cittá nell’antica geografia, ed ora caricano le insegne di tanti popoli.

[431] Per le quali cose dimostre, Vesta fu la religione armata e magnanima del primo mondo gentile.

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x

[432] Venere è il principio della bellezza civile, onde sono belli Teseo, Bacco, Perseo, Bellerofonte; e Ganimede, che è rapito dall’aquila (ha la scienza degli auspíci), è ministro alla mensa di Giove (ministra a Giove co’ sacrifici): la qual favola truovò acconcia Platone a confermare la vita divina de’ filosofi che meditano nelle veritá astratte ed eterne. A sí fatti belli si oppongono i mostri, nati da’ vaghi concubiti; sicché è la bellezza della quale volevano belli i parti loro gli spartani: altrimente, gli gittavano dal monte Taigeta.

[433] L’idea di Venere si destò avvertendosi, gli eroi (de’ quali fu carattere Venere maschia) e l’eroine, belle al confronto della bruttezza degli uomini e donne che dalla bestiale libertá si ricevevano a’ loro asili. Sicché Venere dovette nelle menti greche nascere dopo Opi, e però essere la nona divinitá delle case antiche. Questa è Venere eroica, nata in terra figliuola di Giove ed altrove di Saturno. E, coverta le vergogne, è Venere pronuba, nume altresí delle nozze sollenni; e ’l cesto, che la cuopriva, dovette prima essere di frondi, poi di pelli, indi di rozzi panni, che finalmente i poeti corrotti intesserono di tutti i fomenti della libidine. Di questa Venere è figliuolo Amore alato, Amore con gli auspíci, l’amor coniugale: bendato gli occhi per quella ragione onde Venere si cuopre col cesto, fornito della fiaccola di quel fuoco con cui i romani contraevano le nozze «acqua et igni», la stessa che la fiaccola d’Imeneo, la quale è di quelle spine che bruciarono allo ’ncendio delle selve. Che è mitologia piú propia di quella: che i violenti di Obbes riflettessero alle fiamme ed alle punture amorose che si fan sentire dalla delicatezza del piacere de’ sensi. Di questa Venere sono ministre le Grazie, che sono gli uffici civili: onde a’ latini restò «gratia» per «caussa», appo quali «caussa» significa l’istesso che «affare», «negozio». A questa Venere eroica sono consecrati i cigni, pur sacri ad Apollo, che canta gli auspíci alle nozze, in uno de’ quali cangiossi Giove e

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fecondò l’uovo onde nacquero Castore e Polluce, cioè con gli auspíci di Giove. E di questa Venere nasce, di Anchise, Enea, cioè da Venere pronuba, Venere onesta, nume de’ matrimoni sollenni.

[434] Altra è Venere plebea, nata dal mare, di cui è figliuolo Amore nudo di ale, cioè senza auspíci: carattere delle donne plebee oltramarine, che, venute da piú colte nazioni, sembravano piú leggiadre e gaie di esse eroine greche; e, perché era dea de’ congiugnimenti naturali, restò poi a’ fisici per significare la natura: la qual differenza de’ due amori truovò acconcissima Platone a ragionare dell’amor divino e del bestiale. A questa Venere sono sacre le colombe, che erano auspíci minori e plebei a’ romani, come le aquile auspíci maggiori e de’ nobili: onde male le usò Virgilio nel fingerle numi del suo Enea. Ed a questa Venere è consecrato il mirto, di fronda meno nobile che l’alloro, perché di mirto abbondano le terre marittime, per significare il mare, donde ella venne.

xi

[435] Minerva è il principio degli ordini civili, nati alle sollevazioni de’ clienti: laonde deve esser nata lunga etá dopo di Opi, la quale era nata nel tempo che i vagabondi empi implorarono l’aiuto de’ forti ed erano stati ricevuti ne’ loro asili; e ben anche dopo di Venere, che, cosí, può ella essere la bellezza civile per natura, cioè l’ordine naturale. Perché gli eroi trattavano con giustizia i ricoverati, e sí celebravano tra gli uni e gli altri le Grazie, e cosí erano per natura eroi; ma, poi che divennero tiranni, la provvedenza, perché si conservasse il genere umano, il quale senza ordini non può conservarsi, alle sollevazioni de’ clienti fe’ nascere l’ordine civile, che è ’l senato di ciascuna cittá, il quale sempre da per tutto fu la sapienza delle repubbliche. Onde Minerva è la decima delle divinitá maggiori.

[436] Le cittá a questo punto di tempo e con questa guisa nacquero tutte sopra due ordini, uno di nobili, altro di plebei, — che, per la volgare divisione de’ campi che narrano i giureconsulti,

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non han potuto vedere da’ lor princípi i politici; — e nacquero tutte dalla moltitudine per lo desiderio che ha di essere governata con giustizia, il qual desiderio è la materia eterna di tutti i governi (ed è forse la cagione perché le nominazioni de’ re eroici si facevano da esse plebi, come sopra dimostrammo de’ re romani); e si fermarono tutte sopra Minerva, cioè sopra ordini che debbano governare l’errante moltitudine con civile sapienza, che civile sapienza non è se non è assistita da tutte le civili virtú: che è la forma eterna di tutti gli Stati. Appruovano sí fatto nascimento delle repubbliche queste due loro eterne propietá: che le plebi, se sono trattate superba crudele ed avaramente, vogliono novitá, e che i nobili, ricchi e potenti nelle mosse degli Stati, uniscono i loro interessi alla patria, ed allora sono propiamente «ottimati» o «patrizi»: perché per la patria usano avvenenza, liberalitá e giustizia alle plebi. Che è la ripruova che le debbiano anche usare negli Stati quieti: lo che se essi facessero, le repubbliche sarebbero beatissime e quindi eterne.

[437] Minerva è nata indi che Vulcano, con le armi che aveva fabbricate, apre il capo (apre la mente) a Giove, carattere de’ padri e re, ad unirsi in ordini armati per atterrire i clienti uniti in plebi contro essoloro: la qual mitologia è piú convenevole a questi semplicioni di Grozio che non quella della divina sapienza, figliuola dell’onnipotenza, che intende se stessa e quindi si porta ad amarla coll’amore della sua divina bontá: che fu il piú sublime di quanto mai in divinitá seppe pensare Platone. Né l’oliva è sacra a Minerva perché agli scempioni di Grozio abbisognasse leggere alla lucerna, e quando le lettere volgari vennero dopo Omero, ma perché l’umana utilitá dell’olio fu da intendersi nel di lei tempo. Né l’è sacra la civetta, uccello notturno, perché la notte è buona a meditare i filosofi, ma per significare la terra attica che ne abbonda.

[438] Perché Omero quasi sempre Minerva appella «guerriera» e «predatrice», «consigliatrice» di rado: ond’è Minerva consigliatrice nella curia, l’istessa è Pallade nell’adunanza, l’istessa Bellona nelle guerre. Armata di asta, di quell’aste d’alberi

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bruciate in punta; ed ha scudo caricato del teschio di Medusa, con capigliatura prima d’oro poetico, cioè delle secche biade, che con bella metafora dissero «capelli d’oro della terra», poi di serpi, che sono i domíni sovrani delle terre de’ padri di famiglia uniti in ordine: col quale scudo Perseo insassisce i nemici (con la crudeltá, delle pene eroiche atterrisce i rei di duellione o sia di guerra fatta alla patria, che furono i primi nimici pubblici, onde, condannati, divenivano schiavi della pena, come comanda Tullo Ostilio concepirsi da’ duumviri la crudele e vil pena contro di Orazio uccisore della sorella, reo di duellione, che «lex horrendi carminis» viene acclamata da Livio). Lo scudo di Perseo è terso come uno specchio, nel quale i riguardanti insassiscono, perché queste pene furono da prima παραδείγματα a’ greci ed «exempla» a’ romani, e le pene severe ne restarono dette «esemplari», e, da questi «ordini», «ordinarie» le pene di morte.

[439] Minerva, appo Omero, vuol congiurare contro Giove perché si porta con ingiustizia verso i greci ed a compiacenza verso i troiani: della qual cosa niuna meno si conviene alla sapienza civile, posto che Giove sia re monarca. Ma del governo di Giove a’ tempi di Omero si teneva che fusse aristocratico, perché tal forma universalmente si celebrava ne’ tempi eroici: onde esso Omero fa Giove dire a Teti che esso non può contraffare a ciò che è stato una volta dal gran consiglio celeste determinato. Cosí parla un re aristocratico: per lo qual luogo di Omero finsero gli stoici esser Giove soggetto al fato. E se egli altrove fa da Ulisse dire alla plebe ammotinata nel campo a Troia che è migliore il governo di un solo, riflettano i politici che ’l dice in guerra, nella quale essa natura porta che ’l governo sia monarchico, nella quale «non aliter ratio constat quam si uni reddatur». E la favola della gran catena, di cui Giove dice che, se tutti gli uomini e i dèi si attenessero alla parte opposta, esso solo dall’altra gli si strascinerebbe dietro tutti, ivi vuol dire la forza degli auspíci. La qual catena se gli stoici contendono essere la gran serie eterna delle cagioni, vedan pure che non rovinino, perché cosí Giove esso disporrebbe de’ fati.

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xii

[440] Mercurio è il principio de’ commerzi, ed egli si cominciò ad abbozzare dal tempo che i primi commerzi furono de’ campi dati da’ padri a’ clienti a coltivare con la mercede del vitto diurno. Ma surse tutto dopo Minerva: sicché egli è l’undecimo dio delle genti vecchie, perché egli è il principio della legislazione, in quanto i legislatori propiamente furon quelli che portavano e persuadevano, non di quelli che concepivano le leggi, cui principio è Apollo. Quindi Mercurio è ’l principio delle ambascerie, e nasce con l’eterna propietá d’esser mandato da’ sovrani, che porta dall’ordine regnante alle plebi le due leggi agrarie, significate con le due serpi avvolte al caduceo — che sono i caratteri de’ due domíni delle terre, bonitario e civile — con in cima due ale, per significare i due domíni inferiori soggetti, in forza degli auspíci, al dominio eminente de’ fondi: onde gli eroi, che l’ebbero, furono detti «fundare gentes», «fundare urbes», «fundare regna». Lo stesso è ’l principio della lingua dell’armi, con la quale comunicano il diritto delle genti tra loro le nazioni, e, sí, è il principio della scienza del blasone che sopra abbiamo ragionata.

xiii

[441] Nettunno finalmente è ’l principio della navale e della nautica, che sono i ritruovati ultimi delle nazioni. Nel cui tempo cominciano le guerre marittime coi corseggi: che è ’l tridente di Nettunno, che fu un grand’uncino da afferrar navi, come vedremo appresso, che fa tremare le terre di Berecinzia. Che è mitologia piú propia di quella che appena ora è ricevuta da’ fisici, che l’acqua dell’abisso immaginato da Platone nelle di lei viscere faccia i tremuoti.

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Capo vii
Uniformitá dell’etá degli dèi
tra le antiche gentili nazioni.

[442] Questa etá degli dèi corre tutta dentro il tempo oscuro a Varrone, perché Varrone, per gli volgari princípi della poesia, credette tutte le favole degli dèi finte di getto da Orfeo e da altri poeti eroi della Grecia. Per lo qual errore ci sono stati nascosti i princípi di tutta l’umanitá gentilesca.

[443] Perché i dèi delle genti maggiori di Grecia convengono con quelli dell’Oriente: che, portati in Grecia da’ fenici, furono coi nomi dei dèi della Grecia innalzati alle stelle erranti; onde lo stesso dee dirsi dei dèi de’ fenici medesimi, e resta intendersi il medesimo dei dèi degli egizi. Dipoi questi stessi dèi, sbalzati in cielo, essendo stati portati da Grecia in Italia, vi furono disegnati coi nomi de’ dèi del Lazio. Onde si dimostra che gli stessi princípi ebbero le genti latine che i greci, i fenici, gli egizi e i popoli d’Oriente. Altronde, i dèi furono con isconcia situazione allogati alle stelle erranti, che agli occhi naturali sono piú insigni, e nel lume e nel moto, delle fisse, alle quali furono allogati gli eroi, perché l’erranti dovettero essere osservate prima delle fisse: onde l’etá degli dèi fu prima di quella degli eroi, e la poesia divina nacque innanzi l’eroica, come certamente Esiodo fu innanzi di Omero. Adunque queste nazioni tutte si finsero esse gli dèi da se stesse, non giá che fussero stati loro imposti da’ Zoroasti, da’ Trimegisti, dagli Orfei, quali sono stati finora immaginati, de’ quali le genti latine non ebbero alcun simigliante; ma queste nazioni furono esse a se stesse i Zoroasti, i Trimegisti, gli Orfei, come abbiamo sopra dimostro. E questo sia altro saggio della storia ideale eterna da noi sopra qui divisata.

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Capo viii
Etá degli eroi di Grecia.

[444] Dentro questa etá degli dèi de’ greci si vanno tratto tratto formando i caratteri de’ loro eroi politici natii dentro terra (come quindi a poco vedremo ove si spiegherá quello di Ercole), mentre dentro la medesima etá vi vengono di eroi politici stranieri dalle marine. Imperciocché per quello che sopra ragionammo del propagamento delle nazioni, mentre corre l’etá degli dèi a’ greci, le turbolenze eroiche di Egitto, di Fenicia, di Frigia vi spingono le loro nazioni con Cecrope, Cadmo, Danao, Pelope nelle marine: dove altri restano sopra esse riviere, come certamente Cecrope; altri si spingono dentro terre infelici e, in conseguenza, ancor vacue, come Cadmo nella Beozia.

i

[445] Ella incomincia questa etá degli dèi di Grecia da Giapeto, che è ’l Giafet figliuolo di Noé, il qual venne a popolare l’Europa, e corre lo spazio di cinquecento anni. Però, come dentro l’etá degli dèi si formarono i caratteri degli eroi politici, come si è dimostro, cosí egli si dovettero ancora abbozzare quegli degli eroi delle guerre; e, poiché, come abbiamo sopra veduto, le nazioni mediterranee furono prima delle marittime, qui ci viene a lasciare un gran vuoto la storia favolosa, che incomincia il secolo eroico della spedizione marittima di Ponto. Ella però ci si dá pure a supplire con quello: che «ladrone», come abbiamo sopra osservato, era titolo orrevole di eroe, col quale Esone saluta Giasone. Che ne appruova i ladronecci eroici essere stati innanzi i loro corseggi per lo diritto delle guerre delle genti eroiche, che sopra truovammo di far le guerre non intimate. E li vedremo quindi a poco narrati nel carattere di Ercole.

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ii

[446] Come l’etá degli dèi finisce con Nettunno, cosí l’etá degli eroi comincia coi corseggi di Minosse, il primo navigatore dell’Egeo, il cui minotauro deve essere stato una nave con le corna delle vele, come Virgilio disse, con l’istessa metafora, «velatarum cornua antennarum». Egli divora fanciulli e fanciulle attiche, per la legge della forza che doveva cosí spiegarsi da’ terrazzani attici, che non avevano ancora veduto navi. Il Labirinto è l’Egeo, chiuso da un gran numero confuso d’isole. Il filo è la navigazione, di cui autore è Dedalo alato, «cum remigio alarum» di Virgilio (e Dedalo è pur fratello di Teseo, e, aggettivo, significa «ingegnoso»). L’arte, Arianna, di cui Teseo s’innamora e poi l’abbandona, e si ferma con la sorella, che corseggiò con navi sue, e sí libera Atene dalla crudel legge di Minosse.

[447] A questi tempi è da rapportarsi Giove che rapisce Europa col toro, simigliante a quello di Minosse. Nella quale etá da questa favola s’intende che i caratteri degli dèi erano giá passati a significare gli uomini, per quelle propietá per le quali gli uomini da prima avevano fantasticato essi dèi: come Giove per la propietá di re degli dèi poi qui significò l’ordine regnante degli eroi che corseggiavano. Che è un canone assai importante di mitologia.

[448] A questi stessi tempi è da rapportarsi Perseo che libera Andromeda dall’Orca, che, come il minotauro nel labirinto dell’Arcipelago, cosí inghiotte donzelle per lo spavento de’ corsali incatenate agli scogli, come vedemmo sopra Prometeo e Tizio incatenati alle rupi per le spaventose religioni: onde poi gli spaventati, con voci convenute, si dissero «terrore defixi». E fa Perseo quest’impresa nell’Etiopia, come sopra spiegammo, nella Morea bianca, che ci restò detta il Peloponneso: dove essendo la peste, ne preservò Ippocrate la sua isola di Coo, posta nell’Arcipelago. Che se l’avesse voluta preservare dalla peste degli abissini, egli arebbe dovuto preservarla da tutte le pestilenze del mondo.

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iii

[449] Siegue la spedizione navale di Ponto, overo i corseggi in quella parte del mare di Grecia che poi diede il nome a tutto quel mare, come si è sopra dimostro ne’Princípi storici della geografia. Nella quale impresa convengono Ercole, il massimo degli eroi di Grecia, Orfeo, Anfione, Lino, tutti e tre poeti eroi, Teseo e ’nfin Castore e Polluce, fratelli d’Elena. Questi poeti eroi, col cantar loro il potere degli dèi negli auspíci, riducono le fiere nelle cittá che si erano sollevate nelle turbolenze eroiche di Grecia. Cosí Anfione ne alza le mura di Tebe, che pur trecento anni innanzi aveva Cadmo di giá fondata: alla stessa fatta appunto come da Roma, fondata pur da trecento anni dopo, Appio Claudio, nipote del decemviro, alla plebe romana che pretende le ragioni de’ nobili, canta, appo Livio, il potere degli dèi negli auspíci, de’ quali erano dipendenze le ragioni de’ padri, de’ quali essi non potevano profanare la scienza e le cerimonie a’ plebei, che «agitabant connubia more ferarum». Cosí questi poeti eroi fondano overo stabiliscono le genti di Grecia, ma nel tempo, come si è sopra dimostro, che le genti si componevano di soli eroi. Adunque, perché in questi tempi in Grecia fu dibattuto il diritto delle genti eroico, nelle quali contese gli eroi restaron superiori, perciò tal etá fu detta degli eroi di Grecia.

iv

[450] Succede alla spedizione di Ponto la guerra troiana, nella quale si collegò per natura la Grecia, come fu sociale la guerra de’ sabini contro i romani, come si è dimostro di sopra. Sicché tal guerra dovette essere di corseggi di troiani nelle marine di una parte di Grecia, la quale dovendo essere detta allora di «achei», spiegatosi poi tal nome per tutta la nazione, cotal errore portò ad Omero che vi fusse la Grecia tutta confederata. Il qual nome, ristretto finalmente a quella parte che

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poi restò detta «Acaia», vi fe’ surgere una repubblica, singolare tra gli antichi, di piú cittá libere unite in un corpo, che fu la repubblica degli achei, simigliantissima a questa de’ nostri tempi delle Provincie unite di Olanda.

v

[451] Dopo la guerra troiana avvengono gli errori degli eroi, come di Menelao, di Diomede, d’Antenore, di Enea, e, sopra tutt’altri celebrati, quegli d’Ulisse, de’ quali altri restano in terre straniere, altri ritornano alle loro patrie: che devono essere fughe di eroi co’ loro clienti vinti o premuti da contrarie fazioni in contese eroiche dintorno agli auspíci e le loro dipendenze. Appunto come Appio Claudio, che ne tramandò la sua originale superbia alla casa Appia, premuto da fazion contraria in Regillo, a’ consigli di Tazio si portò co’ suoi vassalli in Roma a’ tempi di Romolo, come pur narra Suetonio.

[452] Cosí i proci, che invadono la reggia d’Ulisse, cioè invadono l’ordine regnante degli eroi, poi ne giunsero col nome di tanti regi ad Omero. Gli divorano le sostanze, perché vogliono loro appropiarsi i campi, che sono in ragion degli eroi: le quali veritá oscurate fanno questa la piú impertinente di tutte le greche favole. Vogliono finalmente le nozze di Penelope, come i plebei romani, dopo comunicato loro il diritto ottimo de’ campi con la legge delleXII Tavole, vollero poi il connubio de’ padri nella storia romana. E in una parte di Grecia si serbano le nozze sollenni tra gli eroi, e si conserva casta Penelope ed Ulisse appicca i proci; in altra Penelope si prostituisce loro e ne nasce Pane, mostro di diverse nature: come i padri romani dicono alla plebe, con la fedele espressione di Livio, che chi nascerebbe da’ matrimoni di plebei fatti con gli auspíci de’ nobili, egli nascerebbe «secum ipse discors», «di discordanti nature»: la qual favola finora ha tanto esercitato i mitologi.

[453] Questo Pane, carattere delle discordi nature, afferra Siringa, carattere dell’eroine — detta dalla «canzone», con voce siriaca,

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«sir», onde sono anche dette le sirene, cioè con gli auspíci che cantavano gli oracoli (onde vennero le canzoni alle nozze fin da’ tempi di Achille, nel cui scudo le narra Omero); — e Siringa si cangia in canna, pianta poco durevole e vile (ma Dafne, ferma da Apollo, si cangia in arbore nobile e sempre verde); e Pane, oscuratasi questa favola, restò co’ satiri a suonare la sampogna fatta di canne ne’ boschi (e con la loro sfacciata lascivia non celebrano cittá né fondano nazioni). Questa però deve essere favola delle contese eroiche di Siria confusa con quelle di Grecia, per ciò che si è ragionato nell’Etimologico delle voci d’origine straniera.

[454] Ma istorie natie ne sono quelle delle quali celebre è la favola del pomo della Discordia, significante prima le messi, quindi i campi, finalmente i connubi, il qual primo frutto dell’industria dissero «pomi» sul trasporto de’ frutti della natura che avevano innanzi còlto l’está, de’ quali soli avevano idea. È ’l pomo caduto dal cielo, perché venne di séguito al fuoco dal cielo per Prometeo rapito: per cui entrano in contesa le tre dèe: Venere, però plebea, cioè le plebi di Grecia, che vuole prima il dominio de’ campi da Pallade, cioè dagli ordini degli eroi in adunanza; poi da Giunone, dea delle nozze sollenni, pretende i connubi e, ’n conseguenza de’ connubi, gl’imperii, come nella storia romana. Imperciocché il motto «pulchriori detur» e ’l giudizio di Paride, per fortuna, Plutarco, ma a proposito de’ nostri princípi, nota che i due versi, che soli in tutta l’Iliade l’accennano, non sono d’Omero, perché sono di poeta eroico de’ tempi giá effeminati, che gli venne appresso. Né a’ tempi d’Omero erano state ritruovate le lettere volgari, come vedemmo altrove, che si potessero iscrivere nel pomo: al cui detto ora qui aggiugniamo che Omero non mai fa menzione di tal forma di lettere, e la lettera insidiosa a Bellerofonte egli dice scritta per σήματα.^||/ [455] Istorie pur ne sono le favole d’Issione, di Tizio, di Tantalo plebeo, o sia della plebe di Tantalo, perché i clienti prendevano il nome da’ loro incliti. I quali tutti si narrano nello inferno, che qui significa i luoghi bassi a riguardo del cielo, dove si

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alzano le torri di Berecinzia, poste in alto presso alle sorgive de’ fonti, che nascono in luoghi eminenti: siccome, de’ tempi barbari ritornati, ne’ monti per lo piú si vedono piantate le terre forti, e sparsi per le pianure i villaggi. Di tanta altezza estimarono il cielo i fanciulli di Grozio! Che è il cielo che regnò in terra ed è il padre di tutti i dèi, che a’ tempi d’Omero erano un poco piú in suso saliti ne’ gioghi o cima del monte Olimpo. Per lo qual cielo corrono Perseo e Bellerofonte sul Pegaso, e ne restò a’ latini «volitare equo», «andare correndo a cavallo».

[456] Onde si spiega la favola, che pur è istoria di queste eroiche contese: che Giove con un calcio precipita giú dal cielo Vulcano plebeo, che si vuol frapporre tra Giove e Giunone mentre piatiscono: ma, per la nostra arte critica, non tra loro, ma con essolui, che pretende le nozze di Giunone con gli auspíci di Giove, e Vulcano ne restò zoppo (ne restò basso ed umiliato). Issione volta sempre la ruota, overo la serpe che s’imbocca la coda, la quale quindi a poco ritruoveremo la terra che si coltiva: la quale significazione oscuratasi, non intendendosi il cerchio, che fu il primo κύκλος, presero per la ruota, che pure è cosí appellata da Omero. Dal qual rivolgimento ne restò a’ latini «terram vertere» per «arare». Sisifo volta da giú in sú il sasso (la terra dura), e ne restò pure a’ latini «saxum volvere» per significare la «perpetua fatica». Tantalo è affamato delle vicine poma, le quali sempre si alzano in cielo, cioè nelle terre, poste in alto, degli eroi. Le quali favole poi i morali filosofi trovarono acconce a formare i ritratti degli ambiziosi, ingordi ed avari, i quali vizi non si sentivano nell’etá contenta delle sole cose necessarie alla vita.

[457] Ma la favola de’ proci di Penelope, oltre a quella di Ulisse che accieca Polifemo, è altra grave ripruova delle tre etá de’ poeti eroici innanzi Omero, che li tramandarono la storia delle genti di Grecia, per le cagioni che sopra ne scuoprimmo, corrottissima.

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Capo ix
Uniformitá dell’etá degli eroi tra le antiche nazioni
dimostrata nel carattere d’Ercole.

[458] Per l’etá degli eroi corsa uniforme tra le altre nazioni antiche si arreca quest’altra dimostrazione filologica, fondata sopra due testimonianze di due intere nazioni: una degli egizi, che dicono, appo Tacito, che l’Ercole loro è il piú antico di tutti gli altri, che tutti avevano preso dall’Ercole loro il nome; l’altra è de’ greci, che in ogni nazione che conobbero vi ravvisarono un Ercole. Alle quali due gravi pruove degli egizi e de’ greci s’aggiugne l’autoritá di Varrone, il dottissimo de’ romani, che ne noverò ben quaranta, tra’ quali i piú celebri sono lo scitico (che contese di antichitá con l’egizio), il celtico, il gallico, il libico, l’etiopico, l’egizio, il fenicio, il tirio, oltre il famoso greco tebano; e delle genti latine fu il dio Fidio, come abbiamo sopra dimostro. Adunque da per tutte queste antiche nazioni corse l’eroismo con le medesime propietá, onde i loro Ercoli meritarono il medesimo nome dagli egizi, da’ greci e da Varrone. Che deve essere un gran saggio della storia ideale eterna da noi sopra disegnata, la quale è da leggersi con gli aiuti della nostra arte critica e degli etimologici sopra divisati e del dizionario universale che abbiamo conceputo pur sopra. Noi qui ne spiegaremo alcune favole, che appartengono al diritto naturale delle genti eroiche, in confermazione de’ nostri princípi.

[459] Comincia a formarsi il carattere di Ercole tebano nell’etá degli dèi fin dall’epoca di Giove, perché egli è generato da Giove e nasce col tuono di Giove; come Bacco, altro famoso eroe di Grecia, nacque da Semele fulminata, che sono il primo e secondo de’ nostri princípi dell’umanitá, perché tutte le antiche nazioni si fondarono sopra la giusta oppenione di una divinitá provvedente, e cominciarono da nozze certe e sollenni, che i gentili celebrarono con gli auspíci osservati nel fulmine di Giove.

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[460] Certamente le grandi fatighe che egli fa incominciano dall’epoca di Giunone, per gli cui comandi le fa, cioè all’ammonimento delle bisogne famigliari. Tra le quali la prima fu nell’epoca di Diana, di uccider fiere per difenderne le famiglie.

[461] Quindi di scendere allo ’nferno e trarne fuora Cerbero: che bisognò che e’ facesse nell’epoca di Apollo, che ordinò le sepolture, perché lo ’nferno de’ primi poeti fu il sepolcro, siccome Ulisse di sopra la terra apertagli innanzi a’ piedi vede i passati eroi nello ’nferno, siccome Ercole allontana i cani da’ sepolcri. Che era il nostro terzo principio dell’umanitá, cioè quello di seppellire i morti, che da «humare», «seppellire», fu detta «humanitas». Fu Cerbero detto «trifauce» per significare forse l’Orco, divoratore del tutto, con un superlativo, quale restò a’ francesi, che, per ispiegarlo, aggiungono lo «tre» al positivo. Di tal fatta dee essere stato il tridente di Nettunno un grande uncino di corsali per afferrare le navi; il fulmine trisulco di Giove, che solca, fende potentemente. Uscito Cerbero alla vista del cielo, il Sole rimenò indietro il cammino: questo, per la scoverta che sopra ne abbiamo fatta, è un anacronismo del tempo che l’Orco e i cani divoravano gli umani cadaveri, nel quale non ancora vi era Apollo, che abbiamo sopra dimostro dio della luce civile, che, con le sepolture, ordina le genealogie e dá lo splendore alle prime genti overo alle case eroiche. Quindi scende pure allo ’nferno Teseo, che fonda il popolo ateniese; ancora scende allo ’nferno Orfeo, che fu detto fondatore della gente greca: perché tutte le nazioni dalla religione delle sepolture furono portate a ricevere l’anime de’ difonti con l’aspetto della divinitá; onde si dissero «dii manes» a’ latini, e quindi furono guidate a sentire l’immortalitá dell’anima, il quale comun senso delle nazioni Platone poi dimostrò.

[462] Dipoi uccide serpenti in culla, l’idra, il dragone di Esperia, il lione nemeo, che tutti vomitano fuoco: — nell’epoca di Vulcano dá fuoco alle selve, come abbiamo sopra spiegato.

[463] Nell’epoca di Saturno, che abbiamo dimostro essere la stessa che l’etá dell’oro, da Esperia — dall’Occidente di Attica, dove le ninfe esperidi certamente guardarono gli orti — riporta i

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pomi d’oro — raccoglie il frumento: che è fatto degno d’Ercole, degno di greca storia, piú che gli aranci di Portogallo, istoria degna di ghiotti. A questa imitazione, Virgilio, dottissimo delle poetiche antichitá, disse le biade del frumento «ramo d’oro», che Enea va a truovare nell’antica selva della terra incolta, né può schiantarlo se gli dèi non glielo permettano (perché non raccoglievano il grano i vagabondi empi che non avevano gli auspíci); con quello va allo ’nferno a presentarlo a Dite, dio de’ tesori, de’ quali è nume ritruovatore Ercole, e vi vede i suoi antenati e la sua posteritá (che non potevano vedere i vagabondi empi, che non avevano il costume di seppellire gli umani cadaveri).

[464] Quindi nell’epoca di Marte egli uccide mostri, cioè i vagabondi empi nati da’ nefari concubiti e sí di discordi nature: — uccide tiranni, cioè i ladroni delle messi, uomini senza terre, che vogliono occupare l’altrui, che furono i primi abbozzi de’ tiranni. E qui Ercole stabilisce il diritto eroico overo ottimo o sia fortissimo de’ campi con vindicargli da’ violenti ingiusti.

[465] Nell’epoca di Minerva egli lutta con Anteo — che è l’istoria delle contese eroiche, nelle quali gli eroi contesero comunicare a’ plebei il dominio de’ loro campi, — e, con innalzarlo in alto, il vince e l’annoda in terra: che dovette avvenire nell’epoca di Mercurio quando egli portò la prima legge agraria a’ plebei ammotinati e li rimenò nelle terre degli eroi, poste in alto, come si è detto piú volte sopra: con la qual legge sí fatti Antei rimasero attaccati alle terre, che da’ latini si dicono «glebae addicti», e da’ barbari ritornati si dissero «ligi» i primi vassalli rustici, dopo i quali vennero i feudi nobili. Ma niuno meglio spiega questa istoria eroica che l’Ercole gallico, che, con catena d’oro poetico, quale dicemmo il frumento, uscentegli di bocca, strascinasi dietro ligata per gli orecchi una gran turba di uomini: che è mitologia piú propia di quella che significhi l’eloquenza nel tempo che non parlavano ancora con voci convenienti le nazioni. E questa istessa storia deve esser significata dalla favola di Venere ignuda (Venere plebea), insieme con Marte pur ignudo (Marte non vestito di pelli di fiere,

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Marte non eroico ma plebeo), che, appo Omero, da Minerva guerriera è battuto: che è il carattere de’ clienti, che guerreggiano sotto il comando degli eroi, come Ulisse li batte, ammotinati nel campo di Troia, con lo scettro d’Agamennone. E Venere e Marte dal mare (onde vennero i coloni oltramarini in terre di giá occupate) sono tratti nella rete (ne’ legami del nodo eroico) da Vulcano: dalla qual favola non intesa i poeti eroici corrotti appresso fecero Venere moglie di Vulcano, e sí finsero anche tra essi dèi gli adultèri. E ’l Sole (il dio della luce civile), per la nostra arte critica, non gli scovrí, ma covrí con lo splendore degl’incliti, come sopra dicemmo; e i dèi tutti ne fanno scherno, come i romani patrizi, quali vedemmo con Sallustio, facevano dell’infelicissima plebe nel tempo, che lo stesso Sallustio diceva, dell’eroismo romano. E questo è quello che sopra dicemmo che ’l nodo era l’impresa delle nazioni eroiche. Come Ercole sopra il nodo ordina la decima che restò detta «di Ercole», cioè il tributo de’ frutti della coltura, qual tra’ Germani l’osserva Tacito pagarsi da’ vassalli a’ loro príncipi: che sarebbe il censo di Servio Tullio, che poi, con l’enfiteusi, precarie e i feudi, con l’istesso nome ritornò co’ tempi barbari ritornati.

[466] E della lutta con Anteo ordina un giuoco che restò pur detto a’ greci «del nodo», che dovette essere il primo de’ giuochi olimpici, de’ quali certamente si narra essere stato Ercole l’ordinatore. Onde, come indi ebbe il maggior suo lustro la greca nazione, cosí indi comincia la greca storia, la quale con le olimpiadi dá l’èra degli anni a’ greci, che prima avevano numerato con le messi. E ne’ circi ne restarono le mete, dette a’ latini da «meto», «mietere», come le «mete di grano» restarono dette agl’italiani: che è etimologia piú propia di quella che significhino il cono il quale descrive nel suo corso dell’anno il sole, che tardi poi intesero gli astronomi piú addottrinati. Siccome la serpe in cerchio imboccantesi la coda non poté agli eroi contadini significare l’eternitá, che a gran pena intendono i metafisici, ma significa l’anno delle messi che lo serpe della terra ogni dodici mesi s’imbocca: che poi non

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intendendo, ne fecero la ruota d’Issione; onde restò detto l’anno «cerchio grande», da cui viene «annulus», «cerchio picciolo», il qual cerchio certamente non descrive il sole mentre va e ritorna dentro i due tropici.

[467] Il vuoto de’ ladronecci eroici, che sopra dicemmo aver dovuto precedere agli eroici corseggi, egli ci è empiuto da Ercole per quella propietá di domar popoli e portarne la sola gloria e, in pruova della gloria, le prede in casa, come gli armenti d’Esperia o sia dell’occidente dell’Attica.

[468] Passa Ercole dall’etá degli dèi a quella degli eroi, e dall’epoca di Nettunno si congiunge alla spedizione navale di Ponto, cioè al tempo de’ corseggi eroici di Grecia, e si ritruova contemporaneo di Orfeo, Anfione, Lino, tutti compagni di Giasone, i quali tre sono sappienti in divinitá, che spiccano nelle contese eroiche con le plebi greche, che volevano comunicati i connubi degli eroi: le quali contese, perché vi si dibatté il diritto degli eroi, dánno il nome al secolo eroico. Appunto come sopra dimostrammo con Livio nelle medesime contese de’ padri con la plebe Appio nipote del decemviro essere stato l’Orfeo romano. Talché deve giá Ercole avere alle plebi greche comunicato il dominio ottimo de’ campi con la seconda legge agraria nell’epoca di Mercurio, come innanzi alla contesa del connubio de’ padri lo era stato comunicato alla plebe romana con la legge delleXII Tavole.

[469] Finalmente Ercole esce in furore col tingersi del sangue del centauro pur detto Nesso, mostro delle plebi di due nature diverse, come lo spiega la storia romana appo Livio, cioè tra’ furori civili comunica i connubi eroici alle plebi e si contamina col sangue plebeo e muore, quale muore con la legge petelia l’Ercole romano, il dio Fidio, con la qual legge «vinculum fidei victum est», che dev’essere alcun motto di antico scrittore di annali, che Livio con quanta fede con altrettanta ignoranza rapporta. Perché egli è falso come finora ha giaciuto, celebrandosi pure tra’ romani dopo la legge petelia i giudizi co’ quali si costringevano i debitori; ma per li nostri princípi egli unicamente può esser vero nel sentimento che si sciolse il diritto

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feudistico o sia diritto del nodo, overo del privato carcere nato dentro i primi asili aperti nel mondo, col quale Romolo aveva fondato Roma sulle clientele e Bruto aveva ritornata la libertá de’ signori per gli princípi sui quali abbiamo spiegata la storia romana antica.

[470] Sí fatte turbolenze eroiche si vedono essere stata la piú gran materia della storia favolosa greca, la quale ci è narrata dalla storia certa romana antica con favella volgare. Lo che non dee recare maraviglia a chiunque rifletta che i romani custodirono scritta la legge delleXII Tavole e le altre che di tempo in tempo vennero appresso; ma gli atenniesi le mutavano ogni anno; gli spartani, proibiti di scriverle, le parlavano sempre con la lingua presente: onde tra loro si oscurarono prestamente le favole, che fu la lingua delle loro leggi e de’ loro costumi. Ma tra’ romani le favole dovettero passare intere da caratteri eroici all’espressioni volgari, come in tante occasioni abbiamo veduto con somma naturalezza esser passate le favole greche nelle volgari espressioni latine. E per queste istesse cagioni ha conservate piú intere le sue origini la latina che la greca favella.

Capo x
Etá degli uomini.

[471] E con lo sviluppo del nodo, come per la legge petelia a’ romani, tra tutte le nazioni antiche, per dir con Livio a tal proposito, «aliud initium libertatis extitit», «spiccò tutt’altro principio di libertá», che fu da per tutto la popolare, dalla quale poi le nazioni passarono sotto le monarchie, onde nella storia universale incomincia in Oriente quella di Nino. Che sono per gli nostri princípi le due forme di governi umani, per quell’arcano d’imperio sulle nazioni feroci che Tacito avverte essersi praticato da Agricola con gl’inghilesi, che esso esortava agli studi delle lettere umane con questo ben inteso motto: «et humanitas vocabatur, quae pars servitutis erat».

[472] Cosí il diritto eroico della gente romana sparse l’umanitá

262 ―
nell’Affrica, nelle Spagne, nelle Gallie, nel Norico, Illirico, Dacia, Pannonia, Tracia, nella Fiandra, Olanda e fino nell’ultima del mondo Inghilterra, e vi cominciò l’etá degli uomini, che vengono naturalmente a tal forma di governi umani con la lingua epistolica o sia degli affari privati, overo favella volgare co’ parlari convenuti, dando essi popoli i significati alle voci dentro le comuni adunanze nelle repubbliche popolari, in comandando le leggi secondo l’equitá naturale, che sola intende la moltitudine; o nelle monarchie i príncipi da questa necessitá di natura: che, i popoli restando signori delle lingue, essi regnanti sono naturalmente portati a volere che le loro leggi siano ricevute secondo il comun senso della moltitudine, che sola intende l’equitá naturale. E sí agli eroi, come avvenne a’ patrizi romani, uscí naturalmente di mano la scienza delle leggi: onde le repubbliche aristocratiche si deono governare, piú che con le leggi, con gli ordini.

[473] Cosí la cagione delle lingue volgari è la ragione perché le monarchie sono spezie di governo sommamente conforme alla natura delle idee umane spiegate, che è la vera natura degli uomini. Onde sotto le monarchie da per tutto si celebra il diritto che Ulpiano dice «ius gentium humanarum», ed i giureconsulti nelle loro risposte e gl’imperadori ne’ loro rescritti diffiniscono le cause di ragion dubbia per la setta non de’ tempi superstiziosi, non de’ tempi eroici overo barbari, ma de’ tempi loro, cioè, come per tutta quest’opera si è dimostro, per la setta de’ tempi umani, che furono le sètte tanto propie della romana giurisprudenza quanto le furono contrarie la stoica e l’epicurea. Per le quali sètte de’ tempi la provvedenza regolò sí fattamente le nazioni che il diritto romano si ritruovasse fondato sui princípi della platonica, la qual, siccome è la regina di tutte le pagane filosofie, cosí ella è la piú discreta serva della filosofia cristiana; e ’l diritto romano, nello stesso tempo, si ritruovasse altresí addimesticato, per dir cosí, a sottoporsi al diritto della coscienza a noi comandato dal Vangelo.

263 ―

Conchiusione Dell’Opera

265 ―

[474] Cosí spiegato il carattere di Ercole, si hanno le origini delle nazioni antiche uniformi, tutte comprese in questa storia favolosa de’ greci, spiegataci per la storia certa romana, che ne supplisce la tronca degli egizi e ne rischiara l’affatto oscura dell’Oriente. I quali princípi devono precedere alla storia universale, che comincia dalla monarchia di Nino. Devono precedere alla filosofia, acciocché, con meditando la provvedenza, ragioni dell’uomo, del padre, del principe. Devono precedere alla giurisprudenza del diritto naturale delle genti dalla provvedenza ordinato. Onde si sono trattate finora senza princípi la storia affatto, la filosofia nelle parti che abbiamo dette, e la giurisprudenza del diritto naturale delle genti ne’ sistemi di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio. Ed ad essi princípi diedero il guasto gli stoici col fato, gli epicurei col caso: il perché noi disperammo sul principio da’ filosofi e da’ filologi ritruovar questa Scienza, la quale ne ha dimostro la provvedenza essere l’ordinatrice del mondo delle nazioni.

[475] E, per conchiudere con l’esemplo onde ne incominciammo a ragionare, dagli auspíci, che furono creduti abbisognare per distinguere i domíni delle terre comuni del primo mondo sotto i regni divini, poi si passò alla consegna erculea del nodo sotto i regni eroici; appresso alla consegna del podere medesimo sotto i regni umani: che è il principio, progresso e fine del diritto naturale delle genti, con uniformitá sempre andante tra le nazioni, per finalmente intendersi il diritto naturale de’ filosofi, che è eterno nella sua idea e cospira col diritto naturale

266 ―
delle genti cristiane: che la volontá deliberata del signore di trasferire il suo dominio in altrui, e l’altrui volontá determinata a riceverlo, da entrambi sufficientemente significata, basta sotto il regno della coscienza, che è regno del vero Dio. Che era l’idea dell’opera, che tutta incominciammo da quel motto: «A Iove principium musae», ed ora la chiudiamo con l’altra parte: «Iovis omnia plena».

[476] Sí di fatto è convinto Polibio che, se non fussero state al mondo religioni, non sarebbero stati al mondo filosofi: tanto è vero il suo detto che, se fussero al mondo filosofi, non sarebbe bisogno di religioni! Si truova convinto di fatto Bayle che senza religioni possano reggere nazioni. Ché, senza un Dio provvedente, non sarebbe nel mondo altro stato che errore, bestialitá, bruttezza, violenza, fierezza, marciume e sangue; e, forse e senza forse, per la gran selva della terra orrida e muta oggi non sarebbe genere umano.

267 ―

TAVOLE

269 ―

I
Tavola delle tradizioni volgari.

[477] Le quali sul principio, indirizzando noi quest’opera all’Universitá dell’Europa, riverentemente dicevamo doversi sottomettere alla critica severa di un esatto raziocinio metafisico; ed ove, nel libro primo, disperammo ritruovare i princípi di questa Scienza da’ filosofi e da’ filologi, per far accorto il leggitore che sospendesse di ricordarlesi o immaginare soltanto brieve spazio di tempo quanto vi bisogna a leggere questi libri, perché, ripigliandole dipoi, esso da se stesso vi riconoscerebbe il vero che loro avea dato il motivo di nascere ed intenderebbe le cagioni onde ci vennero ricoverte di falso. Delle quali Giovanni Clerico, nella parte seconda del volume decimottavo dellaBiblioteca antica e moderna, all’articolo ottavo, nel riferire il libroDe constantia philologiae, che è una parte di altra opera nostra, che egli ivi rapporta, ove, per altri princípi e con ordine a questo tutto opposto, queste stesse tradizioni di leggieri si notano, ne dá il seguente giudizio: «Egli ci dá in accorcio le principali epoche dopo il Diluvio infino al tempo nel quale Annibale portò la guerra in Italia. Perché egli discorre in tutto il corso del libro sopra diverse cose che seguirono in questo spazio di tempo e fa molte osservazioni di filologia sopra un gran numero di materie, emendando quantitá di errori volgari, a cui uomini intendentissimi non hanno punto badato».

270 ―

[478] Or eglino sono i seguenti:

i

[479] Che furono in Grecia particolari diluvi l’ogigio e ’l deucalionio. — Furono tronche tradizioni del Diluvio universale.

ii

[480] Che Giafet fu il Giapeto de’ greci. — Fu la razza di Giafet mandata dal suo Autore coll’empietá nel divagamento ferino per l’Europa, onde in cotal parte di lei provennero le genti di Grecia.

iii

[481] Che i giganti de’ poeti furono uomini empi, violenti, tiranni, per metafora cosí detti. — Furono giganti veri. Empi tutti, innanzi che ’l cielo dopo il Diluvio la prima volta tuonò; poi violenti i restati nella comunion bestiale, che, a capo di tempo, volendo rubare le terre colte da’ giganti religiosi, furono gli abbozzi de’ tiranni.

iv

[482] Che i primi uomini gentili furono paghi di lor natura, e quindi innocenti e giusti, i quali facessero l’etá dell’oro, prima etá narrataci da’ poeti, quali, da sociniano, intende Grozio essere stati i suoi semplicioni. — Furono paghi de’ frutti della natura; ed innocenti e giusti, quali di sé e degli altri giganti narra Polifemo ad Ulisse, nel quale Platone avverte il primo stato delle famiglie. E l’etá dell’oro fu del frumento, da essi giganti ritruovato.

v

[483] Che gli uomini, finalmente fatti accorti da’ mali della vita comune, senza religione, senza forza d’armi, senza imperio di leggi, si divisero i campi con giustizia e, insino che sursero

271 ―
le cittá, co’ soli termini postivi, li possedessero con sicurezza. — Questa è stata propia nostra favola dell’etá dell’oro, perché i termini furono posti a’ campi dalla religione, come sta pruovato in quest’opera; e i fatti accorti da’ mali della vita, non comune ed umana, ma solitaria e ferina, furono gli empi scempioni di Grozio, inseguiti alla vita da’ violenti di Obbes, che, per esser salvi, ricorsero alle terre de’ forti religiosi.

vi

[484] Che la prima legge, come diceva Brenno, capitano de’ Galli, a’ romani, fu al mondo quella della forza, quale finora ha immaginato Tommaso Obbes fatta da altri ad altri uomini, e che perciò i regni, come nati dalla forza, con la forza debbansi conservare. — Ma la prima legge nacque dalla forza di Giove, estimata dagli uomini posta nel fulmine: onde i giganti s’atterravano per le grotte; dal quale atterramento, come si è dimostro nell’opera, provenne tutta l’umanitá gentilesca.

vii

[485] Che ’l timore fece nel mondo i primieri dèi, sull’idea di Samuello Pufendorfio che tal timore da altri fusse messo ad altri uomini: onde altri fanno le leggi figliuole dell’impostura, e che perciò gli Stati si debbano conservare con certi secreti di potenza e certe apparenze di libertá. — Ma il timore che essi giganti ebbero de’ fulmini fecegli andare da se medesimi, cosí permettendo la provvedenza, a fantasticare e riverire la divinitá di Giove re e padre di tutti i dèi: onde la religione, non la forza o l’impostura, è di essenza delle repubbliche.

viii

[486] Che ’l sapere riposto dall’Oriente fossesi sparso per lo resto del mondo con questa successione di scuole: che Zoroaste avesse addottrinato Beroso, Beroso Mercurio Trimegisto, Mercurio

272 ―
Atlante, Atlante Orfeo. — Ma questa fu la sapienza volgare, che dagli stessi princípi delle religioni andò propagandosi per la terra col propagamento di esso genere umano, il quale senza dubbio uscí tutto dall’Oriente. E la sapienza riposta pur dall’Oriente fu del pari portata per gli fenici agli egizi, a’ quali ne portarono l’uso del quadrante e la scienza dell’elevazione del polo; a’ greci, a’ quali portarono le figure geometriche, dalle quali poscia i greci formarono le lettere.

ix

[487] Che quindi Orfeo, col cantare a suon di liuto favole maravigliose intorno al potere degli dèi a’ selvaggi uomini della Grecia, avessegli ridutti all’umanitá e sí fondata le gente greca. — Questo si è ritruovato uno brutto anacronismo delle turbolenze eroiche di Grecia per cagione del dominio de’ campi, avvenute da cinquecento anni dopo esservisi introdotte le religioni e fondati popoli e regni.

x

[488] Per questa favola d’Orfeo, che prima fossono state le lingue volgari, poi quelle de’ poeti, sull’idea che noi abbiamo finora avuta che Orfeo di Tracia avesse comunanza di favella con gli uomini greci vagabondi per le selve: talché sopra la greca lingua volgare potesse lavorare trasporti poetici ed usare le misure del canto, perché, con la maraviglia delle favole, con le novitá dell’espressione e con la dolcezza dell’armonia, egli, dilettando i violenti di Obbes, gli scempioni di Grozio, gli abbandonati di Pufendorfio, li riducesse all’umanitá. — Ma si è dimostro che senza religione esse lingue né potevano pur nascere.

xi

[489] Che i primi autori delle lingue furono sappienti. — Ma della prima e propia sapienza, che fu quella de’ sensi, come abbiamo qui dimostro ne’ princípi della ragion poetica.

273 ―

xii

[490] Che innanzi tutt’altre si fusse parlata una lingua naturale overo significante per natura, sull’idea che ’l favellare e ’l filosofare fosse una cosa stessa. — Tale si è dimostro essere stata la lingua divina de’ gentili sulle false idee de’ primi lor popoli poetici, che stimarono princípi del mondo civile sostanze o modi corporei, che credettero forniti di divinitá o sia d’intelligenza divina, e sí fantasticarono i dèi.

xiii

[491] Che Cadmo fenice ritruovò i caratteri. — Ma poetici.

xiv

[492] Che Cecrope, Cadmo, Danao, Pelope avessero menate colonie in Grecia, ed i greci in Sicilia ed Italia. — Però, non per vaghezza di scovrire nuove terre e per gloria di propagarvi l’umanitá, ma, premuti ne’ lor paesi in turbolenze eroiche, per ritruovare salute e scampo.

xv

[493] Che in mezzo a questi Ercole, per vaghezza di gloria, fosse ito per lo mondo uccidendo mostri e spegnendo tiranni. — Però questo non fu un solo tebano, ma tanti Ercoli quante furono le antiche nazioni, come sta qui appieno pruovato.

xvi

[494] Che le prime guerre si fossono fatte per la sola gloria e riportarne per insegna le prede in casa. — Queste furono i ladronecci eroici: onde «ladrone» fu titolo orrevole di eroe.

274 ―

xvii

[495] Sulle cose immaginate di Orfeo, che i fondatori dell’umanitá greca, come Anfione, Lino ed altri detti «poeti teologi», fossero stati sappienti in divinitá, della spezie che, de’ tempi a noi conosciuti, funne principe il divino Platone. — Ma costoro furono sappienti nella divinitá degli auspíci o sia divinazione, che, da «divinari», fu a’ gentili la prima divinitá.

xviii

[496] In séguito dell’antecedente errore, che nascondessero altissimi misteri di sapienza riposta entro le favole: onde si è cotanto disiderata entro le favole la discoverta della sapienza degli antichi da’ tempi di Platone fino a’ dí nostri, cioè di Bacone da Verulamio. — Ma fuvvi da essi nascosta la sapienza di quella spezie che le cose sagre appo tutte le nazioni furono tenute occulte agli uomini profani.

xix

[497] E sopra tutti scuoprire la sapienza degli antichi in Omero, primo certo padre di tutta la greca erudizione. — Ma Omero fu sappiente di sapienza eroica. Che nell’Iliade propone per esemplo dell’eroica virtú Achille, che stima diritto tra deboli e forti non essere egualitá di ragione circa l’utilitá, come con Ettorre il professa. Ed in esemplo dell’eroica prudenza propone Ulisse nell’Odissea, che sempre proccura l’utilitá ingannando sí che mantenghi salva la riputazione delle parole.

xx

[498] Che le prime cittá nacquero dalle famiglie, intese finora di soli figliuoli. — Ma esse nacquero dalle famiglie propiamente cosí dette de’ famuli, che, se non fusse stato per gli primi loro

275 ―
ammotinamenti contro gli eroi, che facevano di essi aspro governo, non mai al mondo sarebbero surte esse cittá. Onde si dimostra che i patriarchi furono giusti e magnanimi, ché tra essi si conservò fino al tempo della Legge lo stato delle famiglie.

xxi

[499] Che il primo nome delle civili potestá fossesi in terra udito quello di «re», come finora abbiamo immaginato, monarchi de’ popoli. — Ma furono i padri di famiglia, come Omero nello scudo di Achille gli appella «re», e furono nelle loro famiglie monarchi, come si è pur qui dimostro.

xxii

[500] Che nella prima etá gli stessi fossono sappienti, sacerdoti e re, come, fin da Platone, che il desiderava, gli abbiamo immaginati sappienti di sapienza riposta. — Lo furono i padri nello stato delle famiglie; ma sappienti in sapienza d’auspíci.

xxiii

[501] Che i re si eleggevano dalla degnitá dell’aspetto e dalla prodezza della persona, sull’oppenione de’ discreti costumi dell’etá dell’oro che la moltitudine intendesse concordemente bellezza e merito. — Ma sí fatti re nacquero naturalmente nelle turbolenze de’ clienti, come si è sopra dimostro, nelle quali i piú robusti e i piú animosi de’ padri fecero capo ai nobili e li ressero in ordini per resistere a’ clienti uniti in plebi. Nel qual punto sursero le cittá.

xxiv

[502] Che ’l regno romano fosse stato monarchico mescolato di libertá popolare. — Ci ha finora ingannato il nome di «re». Perché il regno spartano per gli politici fu certamente aristocratico,

276 ―
e gli spartani per gli filologi ritennero assaissimo degli antichissimi costumi eroici di Grecia. Della qual forma di governo si è qui veduto il regno romano.

xxv

[503] Che Romolo ordinò le clientele, quali abbiamo finora immaginate che, per quelle, i nobili insegnassero le leggi a’ plebei, a’ quali per ben cinquecento anni appresso le tennero segrete, e tra essoloro le comunicavano per note overo caratteri occulti. — Ma Romolo per le clientele difese i plebei nella vita con ricoverargli all’asilo aperto loro nel luco. Da Servio Tullio in poi i padri li difesero nella possessione de’ campi da essi assegnati loro sotto il peso del censo. Dalla legge delleXII Tavole in appresso li difesero nella ragione del dominio ottimo, loro da’ padri per tal legge comunicato, ond’è la formola della revindicazione: «Aio hunc fundum meum esse ex iure quiritium». Nella libertá popolare tutta spiegata li difesero con assistere loro e difendergli nelle liti e nelle accuse.

xxvi

[504] Che la plebe romana fosse di cittadini fin da’ tempi di Romolo. — Tal pregiudizio ci ha impedito di leggere con giusto aspetto la storia e quindi di ben intendere il diritto romano antico. Perché il diritto di contrarre nozze giuste (ché tanto propiamente suona «connubium») fu da’ padri a’ plebei comunicato sei anni dopo la legge delleXII Tavole.

xxvii

[505] Che le nazioni barbare guerreggiarono disperatamente per la loro libertá. — Egli è vero: perché gli eroi guerreggiavano per la loro libertá di signori; le plebi guerreggiavano per la loro libertá naturale, onde avevano naturale o bonitario dominio de’ campi, che godevano sotto i loro naturali signori, che arebbono perduta con la schiavitú.

277 ―

xxviii

[506] Che Numa fosse stato discepolo di Pittagora. — Che anche da Livio si niega.

xxix

[507] I viaggi di Pittagora per lo mondo, altrimenti incredibili da noi sopra dimostri, si fanno veri per ciò: che poi si truovarono uniformi per lo mondo molti dogmi insegnati da esso Pittagora.

xxx

[508] Che Servio Tullio ordinò in Roma il censo. — Ma quello che per lo dominio bonitario dovevano i plebei pagare a’ padri, non giá quello che fu il fondamento della libertá popolare.

xxxi

[509] Che Bruto avesse ordinata la libertá popolare. — Ma egli riordinò la libertá de’ signori e, co’ due consoli annali, abbozzò la popolare, come apertamente l’avverte Livio.

xxxii

[510] Che in Roma, sul cominciare la libertá, fossero state turbolenze agrarie alla fatta di quelle mosse da’ Gracchi. — Ma furono agrarie della seconda spezie, cioè del dominio ottimo de’ campi da comunicarsi per gli padri a’ plebei; come altre della prima spezie, cioè del dominio bonitario, dovettero muoversi innanzi sotto il regno di Servio Tullio, che rassettolle col censo.

xxxiii

[511] Che vi si menarono colonie della spezie dell’ultime a noi conosciute. — Ma furono colonie della seconda spezie, in conseguenza

278 ―
del dominio bonitario sotto il censo di Servio Tullio. Come le prime di Romolo furono le propie colonie di coloni, che coltivavano i campi per gli signori.

xxxiv

[512] Che la plebe romana, per odio del diritto incerto e nascosto e mano regia de’ padri, volle la legge delleXII Tavole. — Egli è vero, in quanto, per le loro conseguenze, essi non erano sicuri, col dominio bonitario, de’ campi da’ padri assegnati loro.

xxxv

[513] Che la legge delleXII Tavole fosse venuta da fuori in Roma. — Perché i romani, usciti fuori, truovarono costumi uniformi ai comandati loro da cotal legge.

xxxvi

[514] Che ’l diritto romano fu un ammassamento di diritto spartano ed ateniese. — Perché i romani usciti fuori ne’ tempi del loro governo aristocratico, avvertirono il loro diritto lo stesso con quello di Sparta. Ne’ tempi del loro governo popolare appresso, l’avvertirono simile a quel d’Atene.

xxxvii

[515] Che da’ re cacciati fino alle guerre cartaginesi fu il secolo della romana virtú. — Cioè della virtú eroica, onde contesero i padri l’eroismo e le di lui dipendenze alla plebe, che l’affettava.

xxxviii

[516] Che ’l diritto naturale delle genti, col quale i romani sul principio giustificavano le guerre, usavano le vittorie e regolavano le conquiste, l’avessero essi da altre nazioni ricevuto. —

279 ―
Ma egli nacque in casa a’ romani uniforme con quello delle altre nazioni, delle quali i romani vennero in cognizione con l’occasione di esse guerre.

xxxix

[517] Che ’l diritto ottimo fusse solo al mondo de’ cittadini romani. — Ma egli nacque uniforme in ogni cittá libera, e divenne solo de’ cittadini romani perocché il tolsero con le vittorie a tutto il mondo da essi soggiogato.

xl

[518] Che ’l diritto naturale tra’ gentili avesse da principio proceduto sulla forza del vero, senza distinguervi un popolo assistito dal vero Dio, né Seldeno da’ violenti di Obbes, né Grozio da’ suoi semplicioni, né Pufendorfio da’ suoi gittati in questo mondo senza cura ed aiuto di Dio. — Ma si fa vero, che egli procedé sul vero della provvedenza.

281 ―

II
Tavola delle discoverte generali.

[519] Le quali, oltre le particolari, che qui si fanno ne’ particolari loro luoghi, come per un corpo il sangue, cosí per quest’opera tutte diffuse e sparse, si comprendono in questa somma.

i

[520] Un’istoria ideale eterna descritta sull’idea della provvedenza, sopra la quale corrono in tempo tutte le storie particolari delle nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini.

ii

[521] I princípi eterni della natura degli Stati e dell’eterne propietá delle cose civili, le quali se il leggitore, combinandole, unirá tutte insieme, ritruoverá aver essolui descritte le leggi naturali di una repubblica eterna, che varia in tempo per vari luoghi.

iii

[522] La natura e le propietá originali delle monarchie e delle repubbliche libere, scoverte dentro loro, come matrici, nelle repubbliche eroiche e nelle monarchie de’ primi padri di famiglia nello stato di natura, che finora sono state nascoste dentro le greche favole. Che era la sapienza degli antichi da discovrirvi.

282 ―

iv

[523] Quindi messa in una nuova comparsa tutta la storia romana antica, nell’indagamento delle cagioni, ritruovate tra l’ombre e tra le favole della da noi sconosciutissima antichitá, sopra le quali reggano i fatti che, quanto sono certi, tanto altrimente, come ora giacciono, sono impossibili a credersi, come gli abbiamo sopra dimostro.

v

[524] La certa origine di tutta la storia universale profana e la di lei perpetuitá dalla sagra per la favolosa greca nella certa romana, che incomincia dalla seconda guerra cartaginese. E si legge con tre lingue, ritruovate corrispondenti a tre etá, per le quali, in quest’ordine posto dalla provvedenza, ella appo tutte le nazioni gentili comincia, corre e finisce. La quale scienza di lingue bisognava per parlare del diritto naturale delle genti con propietá.

vi

[525] Che sopra tre diritti, tutti natii delle genti del Lazio, uno delle clientele di Romolo, altro del censo di Servio Tullio, il terzo del diritto ottimo privato de’ campi comunicato a’ plebei con la legge delleXII Tavole, riserbandosi i padri nell’undecima il diritto ottimo pubblico degli auspíci, regge come in sistema tutto il governo, diritto, istoria e giurisprudenza romana antica; e dentro esse leggi, che unicamente formano e fermano gli abiti virtuosi de’ popoli, si ritruovano le cagioni della religione de’ padri, della magnanimitá della plebe, della virtú del popolo nel fare le guerre, della giustizia del senato nel dare le leggi di pace alle vinte nazioni e, per tutto ciò, le cagioni di tutta la romana grandezza. Onde, con quegli stessi costumi natii, co’ quali i Bruti discacciarono dalle cervici di

283 ―
Roma i tiranni; gli Orazi, gli Scevoli e infino le donzelle Clelie, con le meraviglie della loro virtú, sbigottirono i Porseni con tutta la toscana potenza; e ’l romano vinse nel Lazio popoli, quanto che esso, feroci, perché avevano gli stessi costumi — che fu molto piú difficile, come avvertono i politici sulle cose romane: — con gli stessi costumi eroici natii, fissi poi nelle Tavole, gli eroi romani appresso soggiogarono l’Italia, quindi vinsero l’Affrica e sulle rovine di Cartagine gittarono le fondamenta all’imperio del mondo.

vii

[526] Una propia filosofia dell’umanitá, che è una continova meditazione sopra quanto vi volle onde i violenti di Obbes, gli scempioni di Grozio, i destituti di Pufendorfio, fin dal tempo che Giove atterrò i giganti, tratto tratto si conducessero a’ tempi che in Grecia sursero i sette sappienti, il cui principe Solone insegnasse agli ateniesi il celebre motto «Nosce te ipsum», da’ quali incominciarono i greci a compiersi nell’umanitá per massime. Alla quale, per certi sensi umani, erano stati per tutto il tempo innanzi di mille e cinquecento anni dalla sola provvedenza condotti, incominciando essi a formare l’umana generazione prima con la religione d’una divinitá provvedente, quindi con la certezza de’ figliuoli, e finalmente con le sepolture degli antenati. Che sono i tre princípi, che noi sul cominciare ponemmo, dell’universo civile.

287 ―

I
Dedica al Cardinal Lorenzo Corsini

Principe eminentissimo,

[527] I princípi del diritto natural delle genti, del qual finora han ragionato uomini, per altro dottissimi, tutti oltramontani, ma divisi in parte dalla nostra religione, ed ora la prima volta da italiano ingegno trattati con la scoverta di una nuova Scienza dintorno alla natura delle nazioni, ed in grado dell’Italia scritti in nostra volgar favella, e con massime tutte conformi alla sana dottrina che si custodisce dalla Chiesa romana, per tanti e sí propi riguardi vengono da se stessi a tributare il loro ossequio al nome immortale dell’Eminenza Vostra, gran pregio ed ornamento dell’ordine amplissimo della universal repubblica cristiana. Al quale menovvi, eminentissimo principe, la provvedenza per mano della vostra fortuna e virtú, faccendovi quella nascere in Italia dalla luminosissima cittá di Firenze, la quale fu sempremai fecondo seminario di ecclesiastiche degnitá, dove Vostra Eminenza trasse l’antica origine da nobilissimo ceppo, onusto di sagre porpore e mitre, di sommi magistrati in casa, e fuori di alti comandi d’armi e d’ambascerie a’ primi re e repubbliche e dell’Italia e di lá da’ monti e ’l mare, e insino al cielo carco di gloria de’ vostri santi Corsini. E tanti e sí fatti onori, in una continovata splendidissima comparsa spiegati, derivaron col nobil sangue nelle vostre vene quel generoso onde, ricco di tai favori della fortuna, fate piú magnanimo uso

288 ―
della virtú: ché, nel consigliare o amministrare gli alti affari della Santa Sede, con vostra immortal gloria, la nobiltá v’ispira, la degnitá de’ consigli e lo splendore della nascita vi sostiene la fortezza dell’esecuzioni. L’innata libertá della nazion vostra fiorentina, ingentilita dalla sapienza della cittá, e per leggiadra lingua e per tutte le belle arti Atene d’Italia, fu il modello sopra il quale, per disegno della vostra generosa virtú, formossi nell’Eminenza Vostra cotesta signorevole gravitá che l’ha saputo conciliare la riverenza delle nazioni, la stima de’ sovrani, il credito de’ pontefici massimi e la venerazione di tutto il mondo de’ letterati. Perciocché, qual saggio principe della Chiesa, bene intendendo essere arcano di principato di sapienza cristiana, quale egli è certamente l’ecclesiastico, di favorire gl’ingegni che si studiano alla di lui gloria, fermezza e perennitá, tiene la sua gran casa sempre aperta ad uomini chiari per valore di lettere, che riceve con umanitá singolare, guarentisce con incredibil fortezza e promuove con regal generositá. Onde cotanto rara vostra grandezza d’animo avvalora la mia rispettosa riverenza (che altrimenti per lo mio poco merito rattener gli arebbe dovuti) a umilissimamente presentarglivi, siccome, riverentemente inchinandola, gli vi presento e, ’nsiememente, mi dichiaro e rassegno

Di Vostra Eminenza

Napoli, 8 maggio 1725

riverentissimo servitore

Giambattista Vico.

287 ―

I
Dedica al Cardinal Lorenzo Corsini

Principe eminentissimo,

[527] I princípi del diritto natural delle genti, del qual finora han ragionato uomini, per altro dottissimi, tutti oltramontani, ma divisi in parte dalla nostra religione, ed ora la prima volta da italiano ingegno trattati con la scoverta di una nuova Scienza dintorno alla natura delle nazioni, ed in grado dell’Italia scritti in nostra volgar favella, e con massime tutte conformi alla sana dottrina che si custodisce dalla Chiesa romana, per tanti e sí propi riguardi vengono da se stessi a tributare il loro ossequio al nome immortale dell’Eminenza Vostra, gran pregio ed ornamento dell’ordine amplissimo della universal repubblica cristiana. Al quale menovvi, eminentissimo principe, la provvedenza per mano della vostra fortuna e virtú, faccendovi quella nascere in Italia dalla luminosissima cittá di Firenze, la quale fu sempremai fecondo seminario di ecclesiastiche degnitá, dove Vostra Eminenza trasse l’antica origine da nobilissimo ceppo, onusto di sagre porpore e mitre, di sommi magistrati in casa, e fuori di alti comandi d’armi e d’ambascerie a’ primi re e repubbliche e dell’Italia e di lá da’ monti e ’l mare, e insino al cielo carco di gloria de’ vostri santi Corsini. E tanti e sí fatti onori, in una continovata splendidissima comparsa spiegati, derivaron col nobil sangue nelle vostre vene quel generoso onde, ricco di tai favori della fortuna, fate piú magnanimo uso

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della virtú: ché, nel consigliare o amministrare gli alti affari della Santa Sede, con vostra immortal gloria, la nobiltá v’ispira, la degnitá de’ consigli e lo splendore della nascita vi sostiene la fortezza dell’esecuzioni. L’innata libertá della nazion vostra fiorentina, ingentilita dalla sapienza della cittá, e per leggiadra lingua e per tutte le belle arti Atene d’Italia, fu il modello sopra il quale, per disegno della vostra generosa virtú, formossi nell’Eminenza Vostra cotesta signorevole gravitá che l’ha saputo conciliare la riverenza delle nazioni, la stima de’ sovrani, il credito de’ pontefici massimi e la venerazione di tutto il mondo de’ letterati. Perciocché, qual saggio principe della Chiesa, bene intendendo essere arcano di principato di sapienza cristiana, quale egli è certamente l’ecclesiastico, di favorire gl’ingegni che si studiano alla di lui gloria, fermezza e perennitá, tiene la sua gran casa sempre aperta ad uomini chiari per valore di lettere, che riceve con umanitá singolare, guarentisce con incredibil fortezza e promuove con regal generositá. Onde cotanto rara vostra grandezza d’animo avvalora la mia rispettosa riverenza (che altrimenti per lo mio poco merito rattener gli arebbe dovuti) a umilissimamente presentarglivi, siccome, riverentemente inchinandola, gli vi presento e, ’nsiememente, mi dichiaro e rassegno

Di Vostra Eminenza

Napoli, 8 maggio 1725

riverentissimo servitore

Giambattista Vico.