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Giambattista Vico: Opere
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VII: Scritti Vari e Pagine Sparse
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III. Commemorazioni, Allocuzioni, Elogi
V In morte di Anna Aspermont contessa di Althann

V In morte di Anna Aspermont contessa di Althann

madre del cardinal Michele Federico d’Althann
viceré di Napoli

Orazione premessa alla miscellanea poetica raccolta per l’occasione da Francesco Santoro.

(1724)

Quel divino consiglio eterno — il qual, per vie ad ogni quantunque de’ mortali acuto intendimento chiuse e nascoste, dall’infinito lor principio le umane faccende di tutti i tempi, cosí menome delle picciole famigliuole, come grandissime di rinomati imperii, con egual cura e diligenza a’ suoi imperscrutabili fini suavemente guida e conduce, — dentro quella stessa indissolubil catena di cagioni e di effetti, con la quale i luminosi fati dell’eccellentissima casa Althann co’ suoi liberi decreti dispose, annodò ancora i nostri bassi destini: ché noi, i quali innanzi al corso di presso a sei lustri per le nostre non meno deboli d’ingegno che di arte povere forze, con una orazione in di lei morte, ornammo la vita di Caterina d’Aragona duchessa di Medinaceli, madre del viceré di que’ tempi, menassimo tant’oltre l’etá in grado di regio lettor d’eloquenza che nella morte di Anna Maria Aspermont, incomparabile contessa d’Althann, madre dell’eminentissimo Michel Federico cardinale d’Althann, il quale di presente in nome del nostro augustissimo re siede al governo di questo regno, ora tessiamo la diceria funerale. Ma il sommo e sovrano pregio di stima,

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onde sotto i governi assoluti la facondia unquemai adornar si possa, a chiunque voglia dall’onesto e dal vero estimar le cose egli dee questo certamente sembrare: che quegli uffizi che, vivendo la libertá o di Atene maestra o di Roma signora del mondo, essi figliuoli adempievano — i quali, ne’ supremi onori de’ padri, per isplendore di gravi affari di pace o di grand’imprese di guerra in immortal fama saliti, essi, per dichiararsi eredi della lor gloria e porsene in possesso del rispetto comune e della pubblica affezione, le loro virtú e gesta con belle ed ornate orazioni nelle popolari adunanze sponevano, — quelle stesse parti ora da’ príncipi ad uomini valenti in ben parlare sieno commesse, sí che costoro prendano a trattare la causa della pietá, delle lagrime e del dolore de’ grandi. Quindi di leggieri s’avvisa la molta difficoltá di adornare con egual compiacimento e degli uditori e de’ congionti una tal sorta di argomenti, perché o nelle freddure delle adulazioni non si precipiti, o non si rimanga molto di sotto al merito de’ subietti lodati: il qual temperamento era facile a tenersi tra gli ’stituti ateniesi o romani, poiché nelle lodi famigliari la modestia regolava i dicitori sí che non facessero né torto al merito de’ defunti con dirne meno, né oltraggio alla libertá delle ascoltanti corone con dirne piú, ma soltanto uguagliassero i lodevoli fatti con giustizia di concetti e con degnitá di parole.

Ben questa gran principessa ne libera dal secondo timore, perché tanta luce di vera lode in lei, vivendo, rifulse, cosí comune delle due gran case, tanto Aspermont, onde uscí donzella, quanto Althann, dove entrò sposa, come propia di valorosa donna e madre d’eroi, che di sé lasciò forte dubbio se ella fosse salita sui modelli piú perfetti dell’eroine, o pur quelli fossero in lei discesi per formarne un naturale ritratto. Però questo istesso timore, quinci schivato, ci fa quindi temer l’altro opposto: che per quanto si erga, non che la nostra per natura e per fortuna umile e bassa, ma ogni generosa e felice facoltá di ben porgere, non ne può giammai tanto dire che non isformatamente piú lasci ad intender delle sue lodi.

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Qui sí che noi desideraremmo la moderazione d’alcun de’ suoi chiari e riputati figliuoli, il quale, su l’esemplo della di lei sapienza e virtú formato, ne darebbe l’idee giuste dell’essemplare, e ne vestirebbe d’un costante dolore, e quale ad eroi conviensi, per la sua amarissima perdita, acciocché questa nostra orazion fosse di pungente stimolo agli uditori di alto grado per imitare, a quei di bassa sorte per ammirare la virtú intiera. Adunque, poiché ci è niegato per gli nostri corti talenti spiegarvi in maestá tutti i rari e chiari pregi che ’l corpo, la mente e ’l cuore di questa gran donna a maraviglia adornarono, mi studierò almeno farlavi vedere in proffilo, attenendomi a quella lode che, quantunque propia del sesso, però come seme i frutti, cosí contiene i maggiori beni delle repubbliche e degli Stati, qual ella è di virtuosamente educar le famiglie; e vi esporrò in comparsa, come di fuga, Anna Maria Aspermont Althann feconda, saggia e felice madre di chiarissimi eroi.

E, sul bel principio, la chiarezza del sangue onde Anna Maria era uscita, il qual da Fiandra, qual da sacro fonte, attraversando Germania, andò a porre altro capo in Boemia, è tanto illustre e cosí cónta ad ognuno, che la famiglia Aspramonte, semplice e schietta, senza fregi ed ornamenti, si fa distinguere tra le prime nobili case d’Europa. E poi sono in grado tanto eminente le lodi propie di questa gran donna, che a chi è vago di ammirarla per le sue personali virtú, tal sarebbe trattenerlo in contemplare l’antichitá e splendore della di lei nobilissima origine, come ad uomo, che ami dilettarsi di mirare una statua nella quale l’arte maestra, emendati i difetti della natura volgare, la insegnasse a meglio formare i suoi parti, altri il divertisse ad osservare l’oro saldo finissimo, del quale il maravigliosamente disegnato getto si rivelò. E poiché m’avveggio che i vostri desidèri anelano veder costei, quale la fama da per tutto gridolla, per educazion di figliuoli inclita e rara donna del nostro mondo, io m’asterrò ancora lodar di lei le singolari doti, delle quali ornolla una

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largamente benigna natura, perché in mezzo quinci a quattro generosi fratelli e quindi otto sorelle gentili, come in mezzo a tante matutine e tenerelle rose ed altrettanti freschi e rigogliosi gigli, ella tenesse il pregio di piú bel fiore, tra per bellezza che vestiva il delicato corpo, e per grazie che animavano la bellezza, e per ingegno che vive, per memoria che pronte, e per avvedimento che accorte, discrete e convenienti facean le grazie: le quali cose tutte son volgarmente credute far bella e leggiadra la virtú agli occhi del corpo. Ma — perché dell’occhio della mente il propio sole è la veritá, la propia luce è l’onestá, il propio giorno è la saviezza, nel qual giorno, nel qual sole, nella qual luce gli spiriti vedono sopra le sue eterne idee la guida e l’accordamento de’ colori immortali che fanno il bello della virtú — tanto egli sarebbe sporvi questi pregi caduchi, tutti divisi e soli dal valor vero, quanto che io, o sciocco o importuno, vi dassi a vedere ameni siti di luoghi e deliziose praterie al buio di tenebrosissima notte. Altri poi logorino il tempo delle dicerie in adornar di lodi l’educazion de’ subietti lodevoli, de’ quali per avventura stata ella sia o privata la virtú, o ’l merito mediocre, e trattenghino gli uditori sugli abbozzi, perché dalle imperfezioni essi traggan diletto di vedergli sopra i loro disegni a compimento condotti. Oltreché egli sarebbe qui certamente abusare della vostra aspettazione dimorando io nelle lodi dell’educazione d’Anna Maria fanciulla, le quali sono in buona e gran parte di altrui, cioè lodi de’ suoi parenti, ove l’argomento propio a esporsi da noi è l’educazione di Anna Maria fatta madre, la quale per pietá e religione, per diligenza ed industria, per moderazione e giustizia, per fortezza e sapienza, e finalmente e sopra tutto per una costanza invitta incontro il genio del secolo, che sembra non d’altro dilettarsi che di corrompere e d’esser corrotte le buone e belle indoli della gioventú, ella è a maraviglia ricca di lodi non solo propie di lei, ma affatto nel mondo singolari.

Ma, quantunque di nulla ornate, pur conferiscano al nostro argomento l’antica chiarezza dell’origine, per quanto la

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virtú nobile, per gli lunghi continovati esercizi di tanti avoli fatta abito e quasi natura della famiglia, la facesse da molti príncipi ambire madre di generosissima prole, la bellezza del corpo e ’l sano vigor dell’etá — che co’ buoni sughi le rilevava e ritondava le bianche e delicate membra, e col buono spiritoso sangue le inaffiava la vera soavitá del colore — la facesse sospirar madre di bellissima prole, e finalmente le certe speranze fiorite di una pia, saggia e dolcemente austera educazione gliene facesse desiderare il frutto d’una valorosissima prole. E noi, oltrepassando tutto il tempo ch’era giá scorso fin dal dí ben avventuroso che la contessa Anna Maria, uscita dal nobilissimo coro delle damigelle dell’augustissima imperadrice Eleonora e menata in moglie dall’eccellentissimo Michele Venceslao conte d’Althann, consigliere intimo di Sua Maestá cesarea e chiarissimo per isperimentato valor di consiglio nelle cariche di ambasciadore alle Maestá di Polonia e di Svezia; e, di tanto marito, a capo d’anni, con felice feconditá fatta madre con d’intorno una ben numerosa famiglia di sedici figliuoli tra maschi e femmine, onde poi queste per parentadi, quelli per comandi d’armi e per impieghi di lettere o innestarono o fruttarono al nobilissimo nome Althann titoli eccellentissimi di cariche, Tosoni d’oro, «Altezze» ed «Eminenze», in mezzo a cotanto illustre spessa corona si vide e udissi o ripartir loro massime ed esempli di eroica virtú secondo la differenza de’ sessi, o confondergliele per la natura ad entrambi i sessi comune.

Ella primieramente loro sovente diceva che ogni qualunque obbligo di cristiana pietá, quantunque menomo, debba di gran lunga anteporsi ai doveri piú seriosi della civiltá, e gravemente appruovava loro il detto coi fatti: la quale, finché visse, non intralasciò giammai le stabilite ore, altre destinate a porger prieghi al nostro sommo Signore Iddio, altre nella lezione di vite di santi, altre nella meditazione delle cose sublimi ed eterne, e particolarmente nella Vita di Giesú Cristo ad imitar proposta dal pio gran cancellier di Parigi: ben avvisata la saggia donna che la vita di quel Dio‐Uomo, la quale,

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senza forza d’armi, senza arguzie di filosofi, con la degna sublimitá de’ dogmi d’intorno alle cose divine, e con la somma equitá de’ precetti d’intorno le cose umane, insinuò la religion cristiana dentro le due nazioni, una la piú dotta, l’altra la piú potente di tutti i tempi a noi conosciuti — tra’ greci, dico, e romani, — l’imitazion di quella stessa, insegnata efficacemente nelle famiglie, può e deve unicamente conservare le cristiane repubbliche che sono sopra la cristiana religione fondate: massima invero, se per tutte le cristiane genti utilissima, per gli regni e Stati ereditari dell’augustissima casa d’Austria, non che utile, affatto necessaria, i quali sono gli argini della cristianitá, dove l’ottomana potenza rompa l’orgoglio di stendere la tirannide dell’Alcorano piú oltre nelle parti dell’Occidente.

Era ella grandemente innamorata dell’ordine, sovente quel sacro motto ripetendo che le cose ordinate sono da Dio, il quale, perché ordine eterno, è l’infinita bellezza, la quale per intendere della mente a somiglianza di quella del corpo, ella ivi spicca e risalta ove le membra sono bene allogate ne’ luoghi loro e con giusta simmetria ben si corrispondon tra sé e ben s’intendono tutte insieme nel tutto. Talché la principal sua cura era che nella sua corte tutti si contenessero dentro i loro doveri, i figliuoli e le figliuole serbassero tra sé que’ rispetti che da essi a vicenda richiedevano ed il sesso e, in ciascun sesso, l’etá. Diceva pur, con l’Appostolo, che essa doveva essere riscattatrice del tempo, il quale, prezioso piú che l’oro e le gemme, si vendeva da altri a vilissimo prezzo di ozio, il quale, perché non fa nulla, val quanto il nulla. Onde, quanto parca nel vitto, tanto frugale del sonno, cosí tardi si rendeva al riposo del letto, come di buon mattino si levava per esercitare men osservati i rigori della pietá, mentre la sua prole e la sua corte dormivano, perché quindi col suo esemplo o tardi gli lasciassero o presti si ricevessero a’ travagli del giorno: i figliuoli ad apprendere le arti nobili, le figliuole i gentili donneschi lavori, alle quali ella, con le sue damigelle siedendo in mezzo, consolava la pena

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dell’imparare o co’ forti o co’ saggi, e gli uni e gli altri luminosi, racconti di detti o fatti di valorosissime donne.

Ma io deggio innoltrarmi in parte della sua grande ed ammirabil virtú, cotanto in alto sopra i miei pensieri riposta, che io dispero affatto poterla aggiugnere, avendo io a ragionare di una pratica di morale, su la quale ella formò tutta la sua vita di valorosissima madre: che coloro i quali insegnan costumi, diceva ella, debbiano mostrar con la mano ciò che insegnano con la lingua. Vengano ora a petto di questa filosofia i savi di Grecia, i quali o dentro i deliziosi orticelli degli Epicuri, o per le spaziose e magnifiche logge de’ Zenoni dipinte da’ divini pennelli, o per gli lunghi e verdeggianti viali dell’Accademie piantati di vaghi ed ombrosi platani, e provveduti a dovizia di tutti i comodi umani, né nauseati né afflitti o da mogli che infantano o da figliuoli che ne’ morbi languiscono, con tumor di parole o con arguzie di argomenti ragionano dell’imperio della virtú sopra il pazzo regno della fortuna — a cui per giugnere, insegnano o pratiche di vita impossibili alla condizione umana, e, con gli stoici, disumanarsi e non sentir passione alcuna, o pericolose, con gli epicurei, da sètte di filosofi a divenire brutte mandre di porci, regolando i doveri della vita col piacere de’ sensi; o dar leggi e fondar repubbliche nel riposo ed all’ombra, che non ebbero altrove luogo che nelle menti degli eruditi; — vengano ora ad udire — che dissi, «udire»? — vengan pur a vedere questa gran madre insegnare egualmente i suoi figliuoli d’entrambi i sessi che avvertissero e riflettessero nelle pratiche della vita civile ch’ella menava; ed aveva ben onde fosse osservata non solamente da’ suoi figliuoli, ma ammirata ed imitata dalle sue pari.

Rigorosa e severa circa le leggi de’ Cesari sopra di sé, benigna e clemente circa le leggi sue sopra de’ suoi vassalli, ripartiva verso i superiori un generoso rispetto, verso gli eguali una signoril libertá, ed un contegno cortese verso i soggetti; — attenta a’ complimenti dettati da ragione di umanitá, non da capriccio di alcun piacere; — efficace nelle protezioni

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del merito virtuoso, non o di brutta utilitá o d’indegnitá dilettevole; — forte in difendere dall’altrui strapotenza gli oppressi, la cui giustizia facea suo punto, non giá ’l suo punto la lor giustizia; — raccolta ne’ pensieri, circospetta nelle parole, moderata nell’azioni, vergognosa in udire le lodi sue, increscevole d’intrattenersi alle detrazioni di altrui, delicatissima nell’emendare i difetti de’ suoi, e sempre faccendo sembiante o di compatire o di scusare, o di fare ogni altra cosa fuor che riprendere; — semplice negli abiti, particolarmente vedova; — liberale, non prodiga, dicendo spesso buttarsi bruttamente ciò che possa esser buono ad altr’uso: la qual parsimonia le nudriva la facoltá d’essere quanto tarda e considerata nelle promesse, tanto esatta e religiosa in adempierle, dicendo pure doversi necessariamente una delle due praticar nella vita: o attendere o non promettere; e di essere altresí cotanto liberale, quanto la fu, co’ bisognosi, come orfane, pupilli, vedove, e sopra tutto co’ poveri che languiscon nelle prigioni.

Tanto la contessa Anna Maria era osservante de’ doveri piú commendati in un certo modo che comandati dalla giustizia distributiva, la qual pur confina con la generositá e con la grandezza dell’animo! Or degli obblighi senza indulgenza alcuna ingionti dalla commutativa, come ella fosse stata severa esattrice con seco stessa, quanto egli resta ad immaginare! Ella non altro imprimeva, non altro iscolpiva negli animi teneri de’ suoi parti che quella massima di vita socievole, sparsa del piú vivo lume della naturale ragione: «Ciò che non vuoi per te, non devi fare ad altrui». Ma, perché io non sembri riprendere i costumi de’ grandi, quando sono le mie parti lodarne solamente la rara virtú, ridirò, quali appuntino ci sono state dalla fama rapportate di Praga, le sue parole, quando non con aria di severa censura, ma deplorando il dissoluto lusso del secolo, diceva alle volte: — Con qual coscienza vanno a dormire o si appressano a’ santi sagramenti quegli anniegati ne’ debbiti che essi han contratti per ispese non necessarie di greggi, di cavalli e di cortiggiani, di

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livree e di cocchi carichi d’oro, di pranzi e cene prodigalissime, che, potendo, non pagano; non potendo, scherniscono, ma non ingannano Iddio?

Sopra sí robuste massime esempli cotanto risentiti dovevano essere, come sopra incavature eterne, altissimi impronti onde gli animi teneri de’ garzonetti Althanni da Anna Maria, loro a maraviglia forte e saggia madre, s’informassero delle civili. Vediamo or come dalla medesima si composero alle virtú militari.

Ella, la saggia madre, sopra i pranzi e le cene, quando le fantasie de’ generosi giovinetti erano irrorate da novelli spiriti, e perciò piú facili ad accendersi di gloria alle immagini delle battaglie, delle rotte, delle vittorie — perché gli esempli domestici muovono piú che gli strani, e le case Aspermont ed Althann ne avevano entrambe di grande rinomea doviziosissima copia, — ella raccontava loro le chiare imprese de’ lor maggiori e gli accendeva per la dura e travagliosa strada di Marte ad imitarle, a gareggiarle, a superarle. Adunque egli fu sempre vero che le nazioni le quali osservano santamente dentro la religione e le leggi, risplendon fuori in guerra con le vittorie dell’armi; e dove in casa ben s’insegnano con la famigliare disciplina le civili virtú, ivi le repubbliche e gli Stati fioriscon di fortissimi e sapientissimi cittadini. La virtuosa educazione della contessa Anna Maria contribuí di valorosissimi personaggi all’imperio di Germania, che co’ loro consigli e pericoli servissero alla fortuna ed alla gloria di ben tre Cesari, di Liopoldo, di Giuseppe e di Carlo, in tanti gravissimi affari di pace e di guerra, se mai altre volte dubbi, aspri e ritrosi, piú di tutti certamente nella guerra della successione della monarchia spagnuola.

La quale, per matrimoni e retaggi e per la felice audacia de’ Colombi, uscita da’ suoi confini, oltre mare e i Pirenei, in una insolita forma per tutti i secoli scorsi innanzi non mai veduta — ne’ quali gl’imperii si distesero sempre per continovi di confine in confine e non interrotti progressi, — ella

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per salti si sparse in tanti reami e provincie d’isole e continenti di Europa, con fortezze nell’Africa, con regioni nell’Asia ed oltra l’Oceano, creduto prima il termine eterno posto dalla natura all’ambizione delle conquiste, poi dalla spagnuola fortuna finalmente rotto e varcato, in una immensa parte d’America ed un gran numero d’isole dell’Indie nell’Oriente; talché diede apparenti motivi a taluni ingegni di dotti uomini d’adularla eguale all’imperio romano nel maggior di lui splendore e grandezza sotto gli Augusti. Ma, per la sua novella ed in tante, sí grandi e sí lontane provincie distratta forma, dovutasi governare con nuove massime, e per una necessaria dissimulazion de’ monarchi, che amaron meglio reggerla dal gabinetto, divenuta in fatti governo di grandi, andò a dividere tra essi gl’innesausti tesori che colavano nel suo erario; e, servendo a tanta loro grandezza crudeli destini, che falciarono sempre i bei rampolli del ceppo regnante, il vasto imperio, presso a cencinquant’anni tramandato di solo in solo, venne finalmente, nella morte di Carlo ii, a restare senza re e senza forze, nel tempo istesso che la Francia, confinante alla Spagna e alla Fiandra e imminente all’Italia, per gli felici progressi della sua armata fortuna, a cui, se non ispianava, almeno non barrava il violento rapido corso la libertá degli altri Stati d’Europa, indifferente spettatrice delle conquiste che per lo corso di cinquanta e piú anni di guerra ella avea riportato dagli spagnuoli, e ne aveva quasi della terza parte accresciuto il fiorentissimo suo reame. Onde Lodovico xiv, pieno di sí lunga e grande felicitá, finalmente per portare il nome Borbone sopra il trono di Spagna, non per ingrandir piú la Francia sopra le membra sparte della monarchia spagnuola divisa, mandò il duca d’Angiò Filippo, secondogenito suo nipote, a porsi in possesso de’ regni nella lor capitale. Quindi, temendo l’Inghilterra alla sua libertá di religione ed al suo arbitrio delle paci e delle guerre d’Europa, a cui spesso mostrava Lodovico dal suo vicino Cales Giacomo figliuolo del di lei re, nudrito co’ dogmi di Roma ne’ sensi della pietá e tra gli esempli di Versaglia circa le
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massime del governo; e disperando per l’avvenire cosí nell’Oceano i preziosi traffichi delle Spagne e dell’Indie con gli spagnuoli, come della libertá del Mediterraneo per gli porti di Messina e di Magone aperti a’ soli galli ed ispani, sedendo Filippo alle fauci di tutto il mare Interno su lo stretto di Gibilterra; — Portogallo, mortal nemico delle Castiglie, temendo il gran torrente delle forze francesi, che, ridondato da’ Pirenei, attraversando la Spagna amica, li veniva sopra a portarlo o a sommergersi nell’Oceano o con gran pena a salvarsi dal naufragio nel suo Brasile; — temendo Ollanda alla sua libertá, alla quale si era felicemente condotta col sottrarsi alla Spagna per le occulte forze della Francia vicina; — la Savoia, la quale era cresciuta tra l’eterne gare di queste due potenze per lo Stato di Milano, che la costituiva con vantaggio posta in mezzo a due perpetui nemici, temendo alla sua sovranitá e, per essa, alla libertá dell’Italia, la quale aveva riposato presso a duecento anni alla sacra e veneranda ombra del capo della Chiesa, il quale in Roma si riverisce e teme padre de’ príncipi cristiani; — e finalmente la Germania non mai avvezza ubbidire ad imperii stranieri, anche de’ fasci e delle toghe romane, a cui servirono tutte le nazioni, e gelosa serbare tra l’Alpi e ’l Reno l’augusto nome de’ Cesari e l’unico alto dritto di ergere gli Stati in reami ed in sovranitá assolute le signorie: — queste potenze tutte, altre dopo altre, s’unirono in lega di guerra e presero a parteggiare la causa del nome austriaco, ed a portare Carlo arciduca d’Austria alla monarchia, e ’l riconobbero re di Spagna.

Onde si accese ed arse da per tutto la memorevol guerra, che, per apparecchi di eserciti terrestri e di armate navali, per arti di guerreggiare ad entrambe le parti ben conosciute ed a vicenda lungo tempo sperimentate altresí; per macchine guerreggiatrici che col fragore e co’ danni avanzano di spavento i fulmini di esso Giove, non che le alepoli o sieno l’espugnatrici delle cittá de’ Demetri; per istratagemmi di condotte; per disperata virtú di battaglie e di assedi; per istrepiti di vittorie, delle quali eran trofei le conquiste d’intieri

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regni e provincie; per moltiplicitá e distanza di luoghi ove fu fatta, in Italia, al Reno, nelle viscere di Germania, in Fiandra, nelle falde di lá de’ Pirenei, nel cuor di Spagna e fin nell’ultimo Portogallo; ed in ciascuna di queste parti con tante forze, che ivi sembrava essersi gittata sopra tutta la mole della gran guerra, sí che ella in ogni una sua parte arebbe occupata la curiositá di tutte le nazioni; per varietá di fortuna in tutte queste parti costante in ciò, che fossero presso ad esser vinti color che vinsero; per furor di geni divisi tra le due parti, che pareggiavano gli odi delle guerre civili; e finalmente per eventi cotanto diversi o contrari all’espettazion de’ consigli, che non altrove ci fu con piú gravi argomenti appruovato che la providenza divina, anche per gli trasporti de’ sovrani, essa è quella che regola con giustizia le faccende degli uomini: — questa guerra, per tutto ciò, non è punto da conferirsi a quella d’Alessandro con Dario, il quale con tre falangi macedoniche, in due conflitti e non piú, contra genti delicate, molli ed avvezze a vincer fuggendo, ebbe la felicitá d’impadronirsi della monarchia persiana; — nemmeno da comporsi a quella di Cesare e di Pompeo, nelle cui parti si divise tutto il mondo romano, nella quale la disperazione di ferocissimi occidentali ubbidiente a’ comandi di Cesare, e ’l lusso, il fasto e la delicatezza d’Italia, di Grecia, d’Asia contumace alle savie condotte del gran Pompeo, ne’ campi di Farsaglia diffinirono a favor di Cesare la contesa del principato del genere umano. Ma ella è unicamente da porsi a petto della seconda punica guerra, fatta nel secolo della romana virtú piú robusta e dell’acutezza africana piú prosperosa — di cui appresso furono quasi trionfi la Macedonia, la Grecia, l’Asia, il Ponto, l’Armenia, la Siria, l’Egitto, che furono acquisti d’Alessandro, — e, vinta in Cartagine l’Africa, e quindi le Spagne, le Gallie e la Bretagna, essendo mancata alla romana virtú la cote cartaginese, né restando a Roma altro fuori che vincere e debellare, ella, con le civili guerre, vinse, dentro, la sua libertá, e sotto Cesare trionfò di se stessa.
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Poiché in questa guerra si vide la maravigliosa inaspettata discesa dalle Alpi in Italia di un altro Annibale, ma che guerreggiava con la fortuna dell’imperio romano. E, dove nella seconda cartaginese terminarono le sconfitte romane, indi quasi principiò questa guerra; ed in Ocstet, dopo lungo girar de’ secoli, ritornò la gran giornata di Canne, ove i primi impeti francesi, ne’ quali i Galli son piú che uomini, sostenendo Eugenio fintanto che, con l’ali della vittoria, il Marleburgo volò in Donavert a rinforzare la battaglia, e quattordicimila francesi, dopo i primi conflitti meno che donne, buttando a terra le armi, lo stesso giorno vide nel mattino la Germania, presso che soggiogata, far la sera tremar la Francia come giá vinta. Pur non usata la fortuna della vittoria, e come non da Canne a Roma, cosí non si corse da Ocstet con l’armi vittoriose a Parigi. Ne’ Tallardi i Varroni risursero, che dopo cosí gran rotta non disperarono della salute di Francia. Né mancarono i Sifaci re di Numidia ne’ duchi Bavari, che, caduti nella solita infelicitá delle francesi allianze, il giorno avanti potentissimi sovrani di Germania, il giorno appresso ne partiron raminghi. La tempesta di Ticino e di Trebia tuonò contra i francesi a Tellemont nella Fiandra, nella quale, come quella che fu all’Europa presso a duecento anni perpetuo teatro di Marte, tutte le cittá sono fortissime piazze, ed ognuna, materia stata innanzi di aspre e lunghe guerre ed assedi, poi tutte in una giornata all’austriache vittoriose insegne spalancaron le porte. Il turbine di Trasimeno contra i medesimi scaricossi in Turino, dove come di un gran corpo moribondo la spirante vita tutta nel cuor si raccoglie, cosí la libertá dell’Italia tutta in quella cittá si ristrinse; e, faccendo ivi difesa Wirrigo di Daun, e pòrti nel maggior uopo i soccorsi da Eugenio alla sua Savoia, furono rotti in una giornata sessantamila francesi; i quali non ritruovando ricovero nelle piazze del Piemonte, dianze smantellate dalle lor mani, quelli, che testé erano stati piú fissi e duri che i ghiacci dell’Alpi in mezzo al verno in espugnar le Verue, di lá dall’Alpi, come a’ soli estivi le loro nevi, si dileguarono in torrenti, e dovettero abbandonare a

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Carlo l’Italia. Ammirò l’etá nostra da Germania usciti altri Scipioni negli Staremberghi, i quali portarono nella Spagna la guerra in casa a’ nimici, per indi liberarne l’altre parti afflitte di Europa: ma a Filippo, intieramente rotto in Ispagna e ricoverato in Francia, difendendo la sede de’ regni la solitudine e ’l guasto, se egli non poté ivi finir la guerra col conservare il grande acquisto, quale per gli ampi e dalla natura arsi persiani confini, salvò la sacra persona di Carlo con la gloriosa ritirata che dalle piú infeste viscere della Persia con altrettante poche truppe fatta avevano i Senofonti. E la Spagna, la qual pensava di udire i danni della guerra dalle lontane provincie, vide spesso le notti crudelmente emular la luce del giorno con gl’incendi de’ suoi paesi; vide la sua monarchia divisa, la qual avea creduto, con l’appoggiarsi alla Francia, mantenere unita per l’avvenire, come si era mantenuta per lo innanzi col comun sostegno delle forze dell’Europa contra la Francia; vide depressi i suoi grandi, che si eran lusingati di piú ingrandire, fatta loro eterna amica l’emola eterna della loro grandezza. Ma la Francia pur ebbe ne’ Vandomi i suoi Fabi, che, ovunque amministraron la guerra, in Italia, in Fiandra, in Ispagna, le sostennero lo stato pericolante; ne’ Villarsi ebbe i suoi Marcelli, che in Fiandra mostrarono al mondo potersi pur una volta vincere l’Annibale italiano. Né finalmente son pur mancati in questa quelli, che si risparmiarono nella seconda guerra cartaginese, gravissimi danni, e tardi e difficili a ripararsi, di risuonanti rotte navali; e quelle vele di Francia, che, altiere, avevan solcati i golfi del Mediterraneo e, gonfie di spavento, avean portati gl’incendi alle Genove ed agli Algieri, nelle acque di Malaga rotte dall’armata degl’inghilesi e ollandesi, come vaste sparte membra, squarciate e gravi d’acqua e di sangue, furono dall’onde rivomitate ai lidi della Spagna e dell’Africa. Però quelle stesse isole, Sardegna, Baleari e Sicilia, che diedero i primi fomenti alle guerre cartaginesi, sono state l’ultima materia di questa; la Sicilia, di un’altra in terra crudelissima ed in mare dispendiosissima guerra, il qual regno pur cadde in seno alla fortuna
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di Carlo; e ’l porto Magone, come Gibilterra, dagl’inghilesi possentemente afforzato, sembra con le sue contumaci superbe moli aspettar feroce ed altiero altre tempeste di armi.

In questo gran moto del mondo scosso, le cristiane potenze, quanto stanche, tanto non erano ancor satolle di danneggiarsi ben venti anni di sí aspra crudele rovinosissima guerra, ché pur tanta fu la durata della seconda cartaginese. Ma in questa né mancò pure una simil sorte. Perché l’Inghilterra — stimando essersi assicurata bastevolmente della libertá del Mediterraneo con Gibilterra e col porto Magone, l’una e l’altro in sua forza, e su la risoluzione che ’l porto di Messina con la Sicilia restasse in potere di emolo eterno di Francia; di piú l’Ollanda esser pure bastevolmente coverta dagl’impeti francesi con la barriera che appellano della Fiandra spagnuola, in potere di Austriaci piú di prima vicini; e finalmente alla casa d’Austria essersi perpetuato l’imperio nella persona di Carlo, con due grandi aggiunte e di Fiandra e d’Italia; e per tutto ciò sembrandole essersi il suo equilibro degli Stati restituito all’Europa, ed essere giá essa sicura della servitú fuori — ritornò dentro al suo naturale turbolento con le sue fazioni. Delle quali quella de’ regii persuase ad Anna regina, che, con piú deprimer la Francia, la qual proteggeva la causa del soglio Stuardo, insolentirebbe certamente la fazion della libertá, e sopra gli altri suoi scellerati esempli aggiugnerebbe pur questo di trascinare dal trono al ceppo anco lei. Cosí quella, che stata era la piú potente alliata, ed aveva per venti anni in Germania, in Ispagna, in Italia versati i Tamigi dell’oro, fu la prima a disunirsi dalla lega della guerra; onde l’altre potenze vennero tratte al congresso della pace. Ma, perché il comun timore della libertá dell’Europa, che facilmente l’arebbe accordate, egli frattanto, per la morte di Lodovico xiv, cessò, in suo luogo succedettero tante speranze diverse di particolari utilitá, che, urtandosi le une con l’altre, davano forte a temere che non di una sola grande, la qual aveva loro inaridite le sostanze pubbliche degli erari, si destassero tante guerre minute, che, come tanti piccioli incendi, avessero finalmente ad incenerirla.

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Frattanto muore Clemente xi sommo pontefice, e manca il padre comune de’ príncipi cristiani, che, ammonendo, esortando, riprendendo, frapponendosi, agevolava la quiete universale del cristianesimo. Quindi si temé altro fiero torbido nembo, per piú secoli non mai veduto infuriare nella cristianitá, che quelle ire onde ancor bollivano i petti de’ sovrani, e con la guerra si erano piú sfogate che soddisfatte, non andassero a prorompere in uno scisma. In quel medesimo tempo de’ nostri ragionevoli sommi timori, i quali una fama atroce facevano crescere in ispaventi, che ’l gran tiranno de’ turchi dall’invano per le sue armi investito e battuto Corfú, ricevutosi con una grande armata navale, quanto intiera di legni, altrettanto carica di vergogna, e nell’ultima guerra d’Ungheria in due giornate con due gran rotte riportata la perdita di due vaste provincie, di Belgrado e di Temiswar, fremendo si pentiva non aver esso nella guerra della monarchia spagnuola seguíto gli esempli de’ suoi maggiori e non essersi approfittato delle discordie de’ príncipi cristiani, i quali han sempre soluto unire in leghe con la loro paterna autoritá i soli sommi pontefici romani regnanti in Italia; nella quale, per brieve tratto di mare esposta a’ turchi, e debole e divisa, essi, con la santa religione, fanno argine alle inondazioni dell’armi ottomane, diroccatrici de’ sacri templi, incendiatrici de’ casti altari, profanatrici de’ nostri santissimi sacramenti. Fra tanti sofferti danni, tante presenti difficoltá, tanti imminenti pericoli viveva ansiosa la cristianitá, e timorosa anelava di vedere nella sede di Piero riassiso il suo capo. Quando Michel Federico eminentissimo cardinale d’Althann, con la sua sapienza, fortezza e zelo di Dio e di Cesare, tanto si adoperò che, disponendo cosí le cose della sua Sposa la divina particolar providenza, in picciol tempo, con gloria della Chiesa di Dio e di Cesare, primo principe cristiano, Innocenzo xiii fu acclamato pontefice.

Consola gli aspri tuoi dolori articolari, gran principessa, con queste novelle sí ben corrispondenti alla tua pia, forte e saggia educazion de’ figliuoli; e perdona se tanto tempo ti

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abbiam perduta di vista, abbagliati dal fulgor della gloria che diffonde la sacra porpora del degnissimo tuo figliuolo, la qual risplende perciò d’assai piú viva luce ed in giorno vie piú luminoso che le porpore, nelle quali chiusi i Tigrani re d’Armenia, con diletto di Roma spettatrice e con invidia de’ Tiberi, entrando in teatro, sembrarono vestiti di un manto di candentissimo fuoco, che, qual favoleggiano i poeti, dal sole avesse furato Prometeo. La nostra, invero, fu colpa, ma colpa umana, che ammiriamo i robusti e vasti pini, e ’l diletto degli occhi toglie alla mente il piacere d’una maraviglia piú grande, che a’ loro piccioli semi, ne’ quali erano disegnati la loro vastitá e robustezza, in buona parte si debba; appunto come nelle lodi della tua educazione contiensi tanta gloria di gesta del tuo figliuol cardinale. Se non piú tosto cosí lungo divagamento egli è stato un seguir l’ordine della providenza divina, la quale, per tanti, sí grandi e cosí vari avvenimenti di memorevolissime guerre, ad occhi veggenti ci ha dimostrato come, ella, disponendo la splendidissima serie de’ fati Althanni, conduceva a suoi eterni consigli le cose della sua dilettissima Chiesa. Ma, poiché fu luminoso il trasporto, piú ci affidiamo nella tua mansuetudine che ci perdoni colpevoli, che nella nostra ragione onde ci abbi per dritto ad assolvere. Poiché la viva norma, la viva legge della greca eloquenza, nella diceria della Corona, la quale è la corona di tutte le dicerie, con maravigliosa arte si dimentica affatto la difesa de’ rei, e tutto divaga nella rammentazione de’ propri suoi rilevantissimi servigi fatti alla patria; ma la rammentazione de’ suoi servigi fatti alla patria è l’unica potente ragione la quale assolve i suoi rei.

L’esorbitanti circostanze, che la guerra della spagnuola monarchia ne narrò per farci concepire la sua grandezza, sono state come ombre sopra le quali spiegasse gl’immortali suoi lumi la gloria dell’eminentissimo cardinale d’Althann, il quale, col suo ardentissimo fuoco di caritá, servendo all’esaltazion della Chiesa, egli fece pronto riparo alla salvezza di tutta la cristianitá; e tal grandissima opera di questi è ’l frutto maggiore della tua pia, forte e saggia educazion de’ figliuoli. Onde

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tra le valorose moderne donne tu ben puoi gir altiera sopra l’antica madre spartana, che all’altra ateniese, la qual le mostrava i ricami finissimi lavorati con le sue mani, tu all’incontro, additando i tuoi figliuoli, de’ quali ora sopravvivono Michel Venceslao, consigliere attuale intimo di Stato di Cesare, e Michel Ferdinando, suo general di battaglia, e tra essi il gran Michel Federico, puoi ben rispondere: — Ed io ho fatti questi lavori a gloria di Dio e di Cesare, — come quella, mostrando quattro belli e feroci giovani, disse: — Ed io ho fatto questi quattro lavori per la libertá dell’imperio di Sparta, a cui, con la vittoria peloponnesiaca, Atene delicata sottomise la libertá del suo imperio. — Ma tu, della spartana di gran lunga donna maggiore, nemmeno di tanta giusta gloria ti vanti, perché la temi di troppo brieve confine discosta dall’umana superbia; e, bramosa solamente di quella gloria che sempre va in compagnia dell’umiltá dello spirito, tra i fieri cruciati dell’artitride tormentosa, tra’ quali fosti sovente, con ammirazion de’ circostanti, osservata con eroica fortezza strozzare in petto anche i gemiti, con edificazione delle tue piú confidenti, pur spesse fiate, sotto la ferocia de’ suoi spasimi, fosti udita dire, con la Serafina spagnuola, quelle piene d’amor celeste forti parole: — Co’ tuoi dolori, o mio Giesú, qui sega, qui brucia, costí perdona.

Tra questi di vera eroica cristiana costanza santi esercizi, Anna Maria Aspermont, valorosissima contessa d’Althann, ricevuta prima l’assoluzione appostolica, che ella aveva da Clemente xi sommo pontefice domandata, nell’ora nona del giorno tredici dicembre l’anno millesettecentoventitré, nel settantesimo ottavo della sua etá, rendette la grand’anima a Dio, dentro l’ottava della Immacolata Concezion della Vergine, la qual chiamava la festa sua; e, con l’abito della di lei religione, nella pur di lei chiesa volle essere in Praga seppellita. Non è tanta perdita degna di lagrime femminesche, che appena cadute s’inaridiscono, né di sospiri violenti, e, perché violenti, per poco durano: l’une e gli altri, turbini di fantasie commosse dagli austri di popolare eloquenza, la quale ha un regno

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per ciò poco durevole, perché tirannico sopra gli animi, che, sul bollore delle dicerie, con la perturbazione gli trascina a deliberare. Tal vita merita contemplazion di filosofi; tal morte merita eterne congratulazioni, che da per tutto: — O beata lei! O lei beata! — le acclamino. Tu, di lei figliuolo eroe, eminentissimo Michel Federico, che ne governi, ci commandi che la piagniamo, la desideriamo all’eroica: ché ’l vero piagnerla è rifletter nella sua vita, il vero consolarci della sua morte è l’ammirare, il dilettarci, l’imitare le sue virtudi immortali.
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