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Giambattista Vico: Opere
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VII: Scritti Vari e Pagine Sparse
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VI. Dedicatorie

VI. Dedicatorie

I
Degli Affetti di un disperato.
(1693)

Allo illustrissimo signore e padrone sempre colendissimo, il signor don Domenico Rocca, marchese di Vatolla, baron d’Amato, util signore del feudo di Giuda, ecc.

Illustrissimo signore, conciosiacosaché ’l far onore a persona la quale, tra perché di antica nobiltá di sangue 7, di bel candor di costumi e di alto conoscimento delle buone lettere fregiasi, tra perché da lei alcun ricordevole beneficio rimembrasi ricevuto, di riverenzia e di ossequio degna è, ogni animo de’ precetti della convenenzia ben informato sommamente desideri, io, da cotal disio portato, essendo da molti amici stato richiesto che la presente canzone, nella quale gli Affetti di un disperato maneggio, alle stampe mandassi, a Vossignoria illustrissima l’appresento. Non, per ciò che ’l dono, a petto del suo gran merito, povero sia, punto da imputar

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sono, perché fui sempre desideroso con una qualche maggior mia fatica al mondo in parte, avvengaché menoma, le obligazioni, che le professo, far cónte: ma ciò dalle continove mie indisposizioni vienmi disdetto. Adunque la si rechi Vostra Signoria illustrissima a grato, qualunque ella siasi, come quella che quasi in voto a lei devotamente consacro.

E rimango

di Vostra Signoria illustrissima
divotissimo e obligatissimo servidore
Gio. Battista de Vico.

II
Della Canzone in morte di Antonio Caraffa.
(1693)

Allo eccellentissimo signore, il signor don Tomasso d’Aquino prencipe di Feroleto, conte di Martorano, ecc.

Eccellentissimo signore, perché alle profession delle armi fu mai sempre l’altra delle lettere bisognevole, come quella che sola può mandare a’ vegnenti le gloriose gesta de’ capitani famosi, le quali quantunque fosseno ne’ trofei e negli archi della pietra piú dura iscolpite, pure alla fine, doppo lungo tratto di secoli, con rovinando que’ marmi, dalla openione degli uomini anco esse cadrebbono, convenevol cosa ho stimato io che, avendo, per adempiere al debito a che ciascuno è per la patria tenuto e per chiunque con le belle opre chiara la rende, una canzone in morte del signor generale don Antonio Caraffa composto e a tanto non la conoscendo valevole, con lo immortal nome almeno di alcun signore dalle ingiurie del tempo la difendessi. Né a pezza sopra questo mio sí fatto pensiero ho dimorato, impercioché, quello della Vostra Eccellenza da per tutto risuonando, agevol fémmisi presentarla alla

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valorosissima Sua persona. Ed invero qual penna, qual mano, qual intelletto non rimarrebbon vinti, se volesseno picciola parte celebrare de’ pregevolissimi fregi de’ quali va sopra l’uman costume adorna la Eccellenza Vostra? Ché, non perché abbia di grandissimi stati la signoria, non perché tragga l’antica origine da un nobilissimo ceppo che ha produtto piú eroi che rampolli; ma solamente perciò che Ella, degli studi migliori lo alto suo intendimento e de’ costumi piú belli il suo gentilissimo animo fornito avendo, il primiero ornamento della nobiltá, e nobiltá napoletana, si estima. Adunque, a ragione gli mi tacendo, di quel tanto priego la Vostra Eccellenza che voglia gentilmente degnare al suo pregiatissimo gradimento questo mio povero sí, ma divoto dono, quale umilmente le proferisco.

E rimango

della Eccellenza Vostra
umilissimo e riverentissimo servidore
Gio. Battista de Vico.

III

Dell’epitalamio per le nozze di Giulio Cesare Mazzacane principe di Omignano con Giulia Rocca dei marchesi di Vatolla.

(1695)

Al signor don G. C. Mazzacane principe di Omignano.

Illustrissimo mio signore e padrone colendissimo, tra le piú belle e piú leggiadre costumanze le quali erano appresso le due antiche nazioni sopra tutte l’altre piú gentili ed umane, io dico appresso i greci e latini, mi sembra essere stata quella che usavasi nelle nozze, con la quale la novella sposa, purché vergine fosse stata, era posta nel letto maritale col nuovo sposo a giacere. Un coro di donzelle ed un altro di garzonetti solevano un inno in lode del dio delle nozze, intessendovi ancor le lodi di essi sposi, or l’uno or l’altro

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vicendevolmente cantare, acciocché i pietosi lamenti ed i paurosi gridi, che sogliono dalle verginelle spose in quell’atto mandarsi, non fossero intesi per avventura d’intorno; e siffatto inno chiamavano essi «epitalamio», del quale non ne abbiamo oggi migliore esempio di quello che lascionne il suavissimo de’ latini poeti, Catullo. Ad imitazione del quale ho io il presente composto nelle felicissime nozze di Vostra Signoria illustrissima con l’illustrissima mia signora donna Giulia Rocca; ed ora, in fede dell’allegrezza la quale di esse ho preso, divotamente glielo presento.

E certamente io non ho parole le quali potessero in picciola parte il piacere adequare di che mi ha codesto Suo pregiatissimo matrimonio colmato, considerando quanto giustamente il cielo abbia conceduto a Vostra Signoria illustrissima cosí nobile e valorosa madamigella per isposa degna del Suo gran merito. Perocché, se riguardo la stimatissima persona di Vostra Signoria illustrissima, in essa ravviso tutti quei pregi onde qualunque chiaro signore possa avere a somma gloria fregiarsi, cioè antica nobiltá di sangue e costumi di nobil sangue dignissimi. E, per quanto all’antico splendore della sua discendenza si attiene, chi non sa in quale onore ed in quanta riputazione sia riposto tra le chiare famiglie di questo regno l’illustrissimo suo casato? quando ancora i forestieri scrittori, che presso a due secoli addietro hanno scritto, di esso menzione facendo, con un’antica signoria di feudi e di vassalli ornato onorevolmente l’avvisano 8. E qual piú chiara e piú

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certa testimonianza dall’antico onor suo vi ha di quella che ne fa il dominio che Vostra Signoria illustrissima ha di cotesta terra? la quale Ella ha ricevuto, per lungo e diritto ordine di avi, da quel Lionetto Mazzacane 9, il merito del quale fu in tanto pregio dal principe di Salerno tenuto, che lo elesse a sostenere le sue veci di portare il confalone in quel grand’atto e magnifico dell’incoronazione dell’imperatore Carlo v in Bologna 10. Ma, lasciando da parte i suoi maggiori che ed in guerra ed in pace hanno sempremai accresciuto chiarezza e splendore alla sua famiglia, chiunque riguarda i sopraumani costumi de’ quali Vostra Signoria illustrissima ha ricchissimo l’animo, certamente estima che, se la fortuna pareggiasse il suo merito, doverebbe Ella avere di numerosi popoli libera signoria. Tale è la giustizia e la pietá che dimostra verso i soggetti, tanta la gentilezza e la cortesia che usa co’ pari, e finalmente è siffatto il valore di che ha se medesima ornata.

Or, tutti cotesti suoi pregi fra meco considerando, non posso contenere nell’animo l’allegrezza che prendo di vedere a Vostra Signoria illustrissima accoppiata con marital nodo l’illustrissima mia signora donna Giulia Rocca, la quale, co’ cortesi e gentili costumi, cogli atti leggiadri ed accorti e con le parole piene di senno e di onestá, chiaramente dimostra esser vero germoglio di quel nobilissimo ceppo, dal quale, mentre sotto gli angioini re verdeggiava e fioriva, uscirono una Sibilla, che, impalmandosi al casato Del Balzo de’ conti di Andria 11, ed una Beatrice, ch’entrata nel casato D’Aquino de’ conti di Loreto 12, adornano oggi gli alberi di quelle chiare

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famiglie. Come anche di questo ceppo uscí una moglie di N. di Tarsia, generale d’armi, signore di Belmonte e figliuolo d’una Sanseverino di Bisignano 13; e finalmente un’Elena sposata a Giovanni di Brenna conte di Lecce e nipote di Ugo re di Gerusalemme. Per tacere i molti e ben chiari signori che di questa pianta trassero splendidamente l’origine, come egli sarebbe a dire, de’ piú vicini a noi, un Sigismondo, tritavo della sua pregiatissima sposa, marito di Polizena Caracciolo de’ marchesi di Gerace, e, de’ piú lontani, un Giovanni 14, un Guidone 15, un Guglielmo 16, tutti e tre duchi di Atene, l’ultimo de’ quali a tanta altezza di stato aggiunse che meritò per moglie un’Isabella principessa d’Acaia e sorella di Carlo ii d’Angiò.

Siccome, adunque, per tutte queste ragioni ho avuto io argomento di rallegrarmi di coteste sue felicissime nozze, cosí Vostra Signoria illustrissima abbia occasione di prendere a grado questa mia fatica, assieme con la quale mi offero

Di Vostra Signoria illustrissima divotissimo ed obbligatissimo servidore
Gio. Battista de Vico.

247 ―

IV

Della prolusione Hostem hosti infensiorem infestioremque quam stultum sibi esse neminem, recitata nell’Universitá di Napoli il 1. ottobre 1700.

(1708)

Illustrissimo ac generosissimo domino Marcello Philomarino e Turrensium ducibus Io. Baptista a Vico S. P. P..

Si, quibus me amplissima domus tua, nobilissime adolescens, Marcelle Philomarine, complectitur, humanitatem benignitatemque considero, tantas profecto ac tam munificas video, ut, quamquam omnem aetatem eius commodis inservirem, vix tamen, quanta isthinc sum assecutus, mereri possem. Sed, si meam cum a fortuna occlusam, tum a natura negatam alicuius, magni ac praeclari operis vim ac facultatem agnosco, nihil quicquam maius hoc tenui munere tibi unquam animi grati argumento dicare posse videor. Ea est oratio de taetris foedisque stultitiae malis. Quamnam in domum ea facilius admittatur quam tuam, cuius familiaris laus est doctissimos ac sapientissimos reipublicae viros edere? Cuinam quam tibi, qui ex amplissimis fratribus germanis tuis id vitae genus a puero instituis, qui ad magni illius Ascanii Philomarini, Sanctae Romanae Ecclesiae cardinalis et Neapolitanorum pontificis, propatrui tui, exemplar te totum conformes? Indoles id promittit, spes fovet, institutio sedulo curat. Tanta enim cura et diligentia lectissima atque omnium virtutum genere laudatissima foemina Camilla Philomarina, mater tua, te tuosque fratres educit ut non maiore posset Cornelia Gracchorum mater: tanta sedulitate assiduitateque eruditissimus aeque ac optimus vir Iosephus Scoppa te docet ut, impubes adhuc (quod tecum saepe ex animo gratulor, quum eius, forte absentis aut morbo impediti, subeo vices), poëtas historicosque Latinos iam ferme omnes praelegeris; et imprimis Plautum Terentiumque,

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latinae veneris et elegantiae parentes, quam familiarissimos habeas, et nunc Cornelii Taciti succi plenam brevitatem degustes. Itaque, tua aetatem praetergressa eruditione, tuisque suavissimis moribus, et maxime ista tua modestia vere ingenua ac liberali, omnes allicis, omnes capis, omnium studia, nedum adolescentum, quos aetas potius quam consilium conciliat, sed gravissimorum aetate, virtute ac sapientia virorum studia in te convertis. Quare hoc unum de te votum concipere licet: ut, qua instituisti, pergas, quo brevi te virum in christiano terrarum orbe praeclarissimum videamus. Habes igitur, cur in tuam amplissimam domum, tibique inscriptam hanc orationem induxi. Tuae modo fidei est, eam foris quoque sapientissimo tuo Philomarino nomine protutari.

Macte virtute, adolescens generosissime, et omnem humanam aetatem vale.

Datum Neapoli, kal. decembris anno MDCCVIII.

V

Della miscellanea poetica, promossa e curata da lui, per le nozze di Adriano Antonio Carafa duca di Traetto con Teresa Borghese dei principi di Sulmona.

(1719)

All’illustrissima ed eccellentissima signora donna Livia Spinola principessa di Sulmona, di Rossano, ecc.

Se egli è vero, come verissima cosa è, che il consentimento delle nazioni tutte, o almeno delle piú umane e piú colte che ábbitano il gran giro di questa terra, è una certistissima testimonianza la quale piú coi costumi e coi fatti che con lingua e parole fanno esse del divino volere; e se fin da que’ tempi che gli uomini cominciarono a ben usare la lor propia natura, e da fieri, selvatichi e rozzi, mansueti, socievoli e civili si ferono, nessuna opera della vita umana tanto

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con cerimonie e solennitá celebrarono quanto le nozze; apertissima pruova ella è che in quelle una certa nascosta divinitá hanno riconosciuto. E ben sí fatta religione da tutti i popoli e per tutti i tempi costantemente osservata ciò significare i sapienti uomini nelle loro divine specolazioni per quella ragione dimostrano, perché le generazioni delle cose tutte lavorandosi sopra il vero disegno di un pensiero infinito, onde il sommo Facitore di un eterno amor si compiace, quando gli uomini, che sono la piú nobil natura di quante mai qua giú dal seno del divino Amor sono uscite, per propagare essi la loro spezie, sottomettono l’amorosa passione alle leggi, che, essendo una ragion comandata, son pur dono di Dio, i popoli e le nazioni tutte, quantunque con vari e diversi riti, però con una mente istessa di culto e di riverenza gl’impalmamenti di quelli con le lor donne onorano come santissima cosa. Quindi avviene che, ove i nuovi sposi, o per isplendor di natali o per bellezza di corpo o per virtú d’animo, la comune condizione oltrapassano, come di prescelti nella lor spezie, e per conseguente piú meritevoli di conservarla nella loro posteritá, le nozze di quelli di maggior onor degne comunemente son riputate.

Laonde, nel ben lieto giorno che Teresa Borghesi de’ principi di Sulmona e di Rossano, valorosissima figliuola di Vostra Eccellenza, fu menata ben lieta sposa a pur ben lieto sposo Adriano conte Carafa, duca di Traietto, per tutti i poc’anzi mentovati pregi donzella e garzone molto chiari della chiarissima Italia, letteratissimi uomini di questa cittá, i quali, ove da’ severi studi vien lor permesso, gli ameni delle sacre Muse con somma lode coltivano, lo tre e quattro volte felice accoppiamento hanno con assai ben colti versi e con purgate rime in tutte e tre le lingue dell’eloquenza onorato. Ma le lodi, che sono state da quelli leggiadramente intessute alla chiarezza ed allo splendore delle famiglie, onde gli eccellentissimi sposi della piú candida luce, della quale e la romana e la napoletana nobiltá risplende, riccamente al mondo vestiti uscirono, sono dovute alla virtú de’ maggiori, i quali

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nelle arti della pace e della guerra cotanto si segnalarono, ed in gradi sí eminenti di umani e divini onori salirono, che, come gli alti monti sporgono lunghissime l’ombre, cosí essi negli anni lontani de’ posteri propagano il lume degl’immortali lor nomi.

Le propie poi di esso signor duca non meno rare che chiare lodi — come quelle di un grande acquisto di alte e riposte scienze, una grande riverenza del sentimento comune, in somme fortune somma moderazione di animo, pietá singolare, liberalitá verso il merito, giustizia co’ soggetti benigna, rigorosa con seco stesso, — quelle invero, come da industriosa coltura, massimamente in terren felice, le squisite frutta, cosí in essolui dall’eccellentissima Chiara Gesualda, avola, e dagli amorevolissimi zii, l’eccellentissimo prencipe Francesco, e Giovanni e Domenico Tomacelli‐Cibo, provengono: de’ quali, orbo de’ parenti, fin da’ teneri anni è stato nelle arti di una veramente signorile umanitá con saggia e diligentissima cura educato. Ma, poiché con sommo studio di tali congionti il ben avventuroso marito ha tutte queste alte virtú impiegate in ben amare e riverire la sua sceltissima donna, ne sono a quella le lodi in un certo modo dovute; e son dovute tra per la rara bellezza, e molto piú per gli angelici costumi che sopra ogni umano corso l’adornano: le quali lodi spezialmente debbonsi all’Eccellenza Vostra, che, per fama di somma bellezza e di altèra onestade chiara, quanto altre mai belle e sagge principesse d’Italia, siete stata la bella e saggia forma sulla quale per forza e di natura e di essemplo la vostra gran Teresa e bella e saggia felicemente formossi.

Talché le lodi di entrambe le nobilissime case dando chiarezza alle propie de’ valorosissimi sposi, e le propie di ciascheduno di essi, come di rivo in fiume e di fiume in mare, a Vostra Eccellenza tutte ritornando, per dritto e ragione io che, per gli molti e grandi benefici da esso signor duca ricevuti, songli obbligato di singolare osservanza, avendone i componimenti raccolti, con profonda riverenza all’Eccellenza Vostra gli consacro. Ora l’altezza dell’animo vostro, pari a

251 ―
quella del vostro grado, nella picciolezza del dono che io le fo per mia parte, d’essermi adoperato in raccòrgli, degni riguardare il grande ossequio con che umilmente gliele presento, inchinandomi

Napoli, il primo agosto 1719.

di Vostra Eccellenza
umilissimo servidore
Giambattista Vico.

VI

Della miscellanea poetica, promossa e curata da lui, per le nozze di Giambattista Filomarino principe della Rocca con Maria Vittoria Caracciolo dei marchesi di Santeramo.

(1721)
Alla valorosa donna
ANNA COPONS 17
eccellentissima marchesana di Santeramo
la quale
agl’incliti pregi
dell’antichissimo
da un de’ nove baroni
i quali quando portò contro mori la guerra
in Ispagna Carlo Magno seguirono
indi in Catalogna
felicemente piantato
e di uomini
per le arti della pace e della guerra
chiarissimi
sempre fecondo

252 ―

e per due tra gli altri
dell’ordine gerosolimitano
gloriosi gran maestri 18
illustre ceppo
donde ella è meritevolissimamente uscita
le alte e rare
del bello e delicato corpo
e molto piú del saggio intendimento
e dell’animo gravemente gentile
lodevolissime doti
accoppiando
e per se stessa
di ogni riverenza e di ogni onore
degnissima
perché
molto piú che se le fusse diligentissima madre
efficacemente ha goduto
che
l’eccellentissima signora Maria Vittoria Caracciola
de’ marchesi di Santeramo
all’eccellentissimo signor Giambattista Filomarino
prencipe della Rocca
con felicissime nozze impalmassesi
questi
di pellegrini ingegni
dotti e ornati componimenti
in lode di sí bel nodo tessuti
GIAMBATTISTA VICO
con la riverente mano
con la quale gli raccolse
divotamente
consacra

253 ―

VII

Al padre Bernardo Giacco nell’inviargli la traduzione italiana delle due recensioni scritte da Giovanni Leclerc del Diritto universale.

(intorno il 1723)
Al reverendissimo padre
BERNARDO MARIA DA NAPOLI CAPPUCCINO
prencipe de’ nostri sacri oratori
per mano
di gentilissimo spirito
don Giulio Mattei
che agognava consecrargli la sua
venerazione di presenza
GIAMBATTISTA VICO
riverentissimamente invia
il saggio
del prencipe de’ letterati
di nostra etá
VIII

Al padre Antonio da Palazzolo nell’inviargli in dono il codice contenente le Orazioni inaugurali.

(non dopo il 1727)
ANTONIO PALAZOLIO
e Franciscana Capucinorum Familia
sacro oratori nostrae tempestatis eloquentissimo
hunc
de finibus et ratione studiorum
autographum codicem
ut
luculentiori vita
in eius amplissima cellula
quam publicis literarum typis consignatus
fruatur
IOHANNES BAPTISTA VICUS
dat dedicatque

254 ―

IX

Della miscellanea, da lui promossa e curata, in onore del padre Michelangelo Franceschi da Reggio Emilia.

(1729)
AL PADRE MICHELANGELO DA REGGIO DI MODANA
per tutte e tre le parti
che tutte e tre sono l’uomo
e per le quali compiute
la vera eloquenza
è
la sapienza che parla
mente rischiarata de eterne altissime veritá
cuor acceso di magnanime sublimi virtú
lingua adorna di pura e ben colta favella
sacro oratore
della religion cappuccina
di questa etá nostra
chiarissimo
perché
il suo famoso quaresimale
in piú nobili e piú grandi cittá d’Italia
con abbondevolissimo frutto della catolica chiesa
ascoltato
egli
nel Duomo di Napoli
quest’anno mille settecento ventinove
a numerosissima udienza
e con somma laude de’ dotti
che vi hanno scorto
profonda soda dottrina
ben regolato divin ingegno
e grande dissimulazione di grand’arte
e con alta maraviglia del vulgo
trattenuto
da raritá e novitá di popolaresca facondia

255 ―

e con profitto universale di tutti
ha recitato
di questi
da alquanti gentili spiriti
in onor di lui
scritti componimenti
acciocché ’l tempo non gli disperda
avendo
come di vari fior in Parnaso còlti
fatto un rinfuso vago fascetto
GIAMBATTISTA VICO
divotamente consacra
X
Del De aequilibrio corporis animantis.
(intorno al 1736)
[Carolo Borbonio Utriusque Siciliae regi.]

Etsi inclytis magnarum gentium ac nationum regibus nihil nisi amplum splendidumque dono offerri darique oporteat, tamen, quando summae in terris potestates Deum Optimum Maximum referunt, qui thure in suave olentem nidorem abituro et tenuibus florum corollis honorari non aspernatur, hac fiducia fretus, hos de physica medicina quos lucubravi libros tibi, rex celsissime, inscribere ac dicare constitui. Leges enim in suis definitionibus habent iura esse individua, et quanto in maximis, tanta in minimis aestimanda. Levidense quidem hoc munus, sed tibi debitum tamen: qui, ubi primum hoc regnum a Germanorum armis pacasti, ad literas suo nitori restituendas animum adiecisti, et, regia liberalitate in eas collata, neapolitanam Academiam, diu a praesidiariis militibus occupatam, qua solita scholarum parte celebrabatur, sarctam tectamque et novo

256 ―
opere expolitam esse imperasti. Qua quidem in re cuivis gravi argumento probas te Ludovici Magni proavi tui praeclarissimis exemplis insistere, qui, inter multa, varia et ingentia quae gessit bella, gallicanum regnum, tamquam inconcussa pace ac tranquillissimo ocio ageret, excultissimis Minervae studiis illustravit. Non est sane neque mei imbecillis ingenii, neque intra brevis epistolae angustos cancellos in tuas regias laudes excurrere, quae disertis oratoribus patentissimum sublimis eloquentiae campum aperiunt. Oris nempe, totiusque corporis dignitas, et cum quadam ferme coelesti vultus serenitate attemperata maiestas; singularis in Deum pietas, mira in subiectos clementia; in obeundis belli laboribus tenerae adhuc aetatis singularis alacritas et constantia; in agitandis pacis consiliis rara principis adolescentis attentio, gravitas et prudentia; haut sane quicquam in iuvenis regis aula, quod non sit intemeratum sanctumque. Heic id tantum de te dicere mihi fas sit, si rex fortissimus ac sapientissimus Philippus, pater tuus, in tuae regiae indolis experimentum, praesens tibi praesenti haec regna permisisset administranda, pientissimi parentis pudore nihilo iustius, nihilo suavius regeres, quam nunc rex ab eo creatus et immenso terrarum tracto dissitus regis. Ut igitur a magnis summa fortuna ortus, ad magna felici natura factus, in hac magna nobis virtute praestas, ita venerabundus rogo quaesoque hanc opellam, quam pro tenui mea publicae felicitatis virili parte mei erga te obsequii do testem, magno animo excipias.